Prostituta
Prostituta è il termine più ampiamente utilizzato nel lessico giornalistico, e il più diffuso nel linguaggio quotidiano, per indicare la lavoratrice del sesso ovvero colei che svolge lavoro sessuale.
Il latino prostituire – letteralmente porre (statuere) davanti (pro-) – significa mettere in vendita, da cui prostituta: colei che offre i propri servizi sessuali a scopo di lucro.
La parola prostituta non compare nel testo della Legge Merlin (1958), il riferimento normativo principale in Italia per la regolamentazione dell’esercizio della prostituzione e il contrasto di ogni forma di sfruttamento. Nel lessico giuridico e politico, infatti, il termine è normalmente sostituito da perifrasi come “persone dedite alla prostituzione” o “persone che praticano/esercitano la prostituzione”, espressioni che consentono al legislatore di riferirsi tanto alle donne quanto agli uomini (prostituti) e alle/ai transessuali che operano nel mercato del sesso.
Rispetto a sinonimi dispregiativi (tra cui il più diffuso è "puttana"), prostituta è un termine che ambisce alla pura denotazione, a una descrizione neutra del mestiere che esercitano le donne italiane e straniere che si dedicano al commercio sessuale. Non si può però non tener conto della secolare condizione di discriminazione, emarginazione sociale, condanna morale in cui sono vissute e ancora vivono queste donne.
Quella del commercio sessuale femminile è forse l’attività in assoluto più stigmatizzata nelle società occidentali e in gran parte del pianeta. Sono esistite, nei secoli e presso diverse culture, figure di donne che, pur dispensando piaceri sessuali al di fuori dell’istituzione matrimoniale, godevano di una diversa rispettabilità: le etère della Grecia antica, le geishe giapponesi, le cortigiane rinascimentali, le mantenute ottocentesche. Ma il termine prostituta, che fa riferimento alla situazione ordinaria della donna che svolge lavoro sessuale, non veicola alcun riconoscimento né sociale né professionale, connotando invece di una forte negatività colei a cui si riferisce e l’attività che pratica.
Quando all’inizio degli anni ’80 è nata in Italia la prima associazione delle lavoratrici del sesso, ha impiegato per definirsi, con un atto di rovesciamento dello stigma, il termine prostituta: Comitato per i diritti civili delle prostitute. “Non volevamo nasconderci dietro il linguaggio, volevamo essere dirette e provocatorie”, spiega Pia Covre. Allora, però, la riflessione collettiva sul linguaggio era meno avanzata. Negli ultimi tre decenni, i movimenti nazionali e transanazionali per i diritti delle/i lavoratori/trici del sesso hanno compiuto un lavoro di analisi e di advocacy che ha portato anche alla firma di documenti condivisi (vedi sex worker).
“Prostituta ha un’accezione assolutamente negativa”, spiega ancora Pia Covre. “Qualunque persona che gira, che lavora, che fa affari in questo contesto è messa in una luce stigmatizzante, come una cosa sporca”.
La prostituta è stata considerata, nei secoli, come portatrice di un disordine morale, sociale, sanitario, e in quanto tale subordinata a forme di controllo da parte dei poteri pubblici – a partire dal sistema ottocentesco delle case chiuse per arrivare alle ordinanze anti-prostituzione del nuovo millennio – che ne hanno sancito l’esclusione fisica, sociale e culturale dallo spazio della città e del vivere civile.
Le ordinanze municipali emesse in molte città italiane per il contrasto della prostituzione di strada possono essere lette come un precipitato di ansie sociali verso le persone che si prostituiscono, di cui descrivono abbigliamento, atteggiamenti e comportamenti sulla base di un immaginario stereotipato che il Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute non esita a definire “denigratorio e inaccettabile”. Lo stesso si può affermare di molti reportage e articoli di cronaca sul mercato del sesso: “come i testi delle ordinanze, gli articoli di giornale”, dice Pia Covre del Comitato, “sono pieni di pregiudizi: la lavoratrice del sesso è solo quella cosa lì, al bordo della strada, scosciata, con i tacchi a spillo… in realtà anche sulle strade ce ne sono vestite in cento modi. C’è un pesantissimo maschilismo e una violenza di genere in questo linguaggio. Leggendole, come te la immagini la prostituta? Una cosa socialmente repellente da buttar via peggio della spazzatura, non c’è da stupirsi se poi si produce rifiuto sociale”.
Per ragioni simili, la parola prostituta non piace nemmeno alle organizzazioni anti-tratta, che denunciano l’abitudine del giornalismo di cronaca di usare questo ed altri sinonimi dal sapore denigratorio per parlare delle vittime di tratta e sfruttamento sessuale. Alcune utilizzano al posto di prostitute la parola prostituite, per segnalare la non volontarietà dell'attività che svolgono.
Lavoratrice e lavoratore del sesso, sex worker, vittima di tratta, vittima di sfruttamento sessuale
Il termine che i movimenti di lavoratrici e lavoratori del sesso riconoscono come più appropriato a descrivere chi pratica forme di commercio sessuale è sex worker, che in italiano viene mantenuto nella dicitura originale o tradotto.
Uno dei fattori di resistenza all'acquisizione di nuove terminologie nel linguaggio giornalistico, ma anche in quello della politica e del no profit, può essere individuato nella rappresentazione prevalente del mercato del sesso come luogo di sfruttamento sessuale. È possibile trasferire sulle vittime di tratta, costrette alla prostituzione, una dicitura dal sapore emancipatorio come sex worker? “Parlando di qualsiasi altro lavoro”, risponde Covre, “non ci si sognerebbe mai di chiamarlo diversamente perché viene sfruttato: il lavoro nell’edilizia, per esempio, può essere altrettanto sfruttato, e anche avere al proprio interno sacche di sfruttamento pesante, fino al traffico di esseri umani e alla riduzione in schiavitù, però nessuno si sognerebbe di non chiamarli lavoro”.
Quando il focus è sulla condizione di vittimizzazione si parla di vittime di tratta e vittime di sfruttamento sessuale.
Le prostitute danzano contro lo sfruttamento femminile
Spopola sul web il filmato girato in un quartiere a luci rosse
(sito di quotidiano nazionale, 19 aprile 2012)
Anche per le notizie che provengono dal famoso “Red Light District” di Amsterdam, dove – come è noto – il mercato del sesso è legalizzato e regolamentato attraverso il sistema delle “vetrine” la parola usata è prostituta, quando invece il linguaggio internazionale parla di sex worker.
Da notare che la stessa notizia viene riportata da un’altra testata nazionale con un titolo che contiene, al posto di prostituta, la parola squillo, prediletta negli articoli di costume che raccontano i settori meno marginali e più autonomi dell’industria del sesso:
Amsterdam, squillo contro il mercato delle donne
Coreografia speciale nelle vetrine del quartiere a luci rosse della città olandese. Alcune prostitute si sono esibite in un balletto a ritmo di musica elettronica a favore della campagna sociale contro l'industria del sesso
(sito di quotidiano nazionale, 19 aprile 2012)
Nel sommario, tuttavia, torna il termine prostitute.
Diverso un caso come quello seguente:
Roma: prostituta nigeriana uccisa, sul corpo sette coltellate
[...] La donna non e' ancora stata identificata. Accanto al cadavere e' stata trovata una parrucca, probabilmente appartenente alla prostituta. Gli uomini della Squadra Mobile di Roma, diretta da Renato Cortese, che stanno cercando di ricostruire la dinamica del delitto indagano a 360 gradi, anche se l'ipotesi piu' probabile e' che l'omicidio sia maturato nell'ambiente della prostituzione. Forse la nigeriana si era messa in contrasto con qualche altra prostituta o con qualche sfruttatore.
(sito di quotidiano nazionale, 9 ottobre 2012)
Qui, dove la notizia è l'uccisione di una donna che probabilmente esercitava la prostituzione e altrettanto probabilmente era vittima di tratta e sfruttamento sessuale, il ricorso insistente alla parola prostituta ha l'effetto di marchiare negativamente la vittima e di collocarla in un ambiente "altro" (l'"ambiente della prostituzione"), esterno ed estraneo al resto del corpo sociale. La sua morte, così descritta, non merita di ricevere neanche l'attenzione riservata ad altri casi di femminicidio. Mentre non viene spesa nessuna parola sulla tratta a scopo di sfruttamento sessuale e sulla violenza che subisce chi ne è vittima.
C'è poi il caso dei giornalisti che sfidano il politically correct e impiegano provocatoriamente il termine puttana, con effetto fortemente denigratorio:
Preghiera
Per Daniele Ughetto-Piampaschet, che forse ha ucciso per amore una donna nigeriana, di mestiere puttana. Spero non sia stato lui, e se invece è stato lui spero gli venga comminata una pena mite perché chiaramente aveva perso la testa. Una preghiera per Daniele eccetera e per tutti noi maschi che al buio non capiamo più niente. Che ci si attenga sempre alla regola seguente: mai passare la notte con qualcuno con cui ti vergogneresti di passare il giorno. Le negre sono bellissime, e dopo il tramonto anche i trans sono favolosi, e così molte altre battone, baldracche e lapdancer. Ma hai davvero voglia di svegliarti con loro, al mattino? E le porteresti a pranzo nel tuo ristorante abituale? O da tua mamma? La vergogna e il controllo sociale non hanno niente di bello però qualcosa di utile sì.
(quotidiano nazionale, 23 agosto 2012)
Da notare, oltre all'aperta denigrazione (sessista e razzista) della vittima e di tutti/e coloro che esercitano la prostituzione ("le negre", "i trans"...), anche la presenza di tutti gli stereotipi riguardo il cosiddetto "delitto passionale": l'omicida "aveva perso la testa”, i maschi al buio "non capiscono più niente”.