In linguistica, il genere grammaticale distingue il maschile e il femminile. Nelle scienze sociali, il genere è «la tipizzazione sociale, culturale e psicologica delle differenze tra maschi e femmine»[1], è l'insieme di attributi, caratteristiche psico-attitudinali e comportamenti che in una certa cultura e società si ritengono adeguati a un uomo e a una donna, e prima ancora ad un bambino e ad una bambina, basandosi sul sesso biologico. In questo significato, la parola (gender) è stata introdotta dal pensiero femminista americano negli anni '70 ed è stata impiegata nei women's studies come strumento teorico e politico per svelare e combattere il sistema di oppressione delle donne.
Nelle diverse lingue, il fatto che determinati termini, in particolare quelli relativi a cariche, professioni, titoli onorifici possano essere declinati anche al femminile oppure esistano solo al maschile (o ancora che cambino significato se volti dal maschile al femminile) è indicativo del modo in cui la cultura organizza le appartenenze di genere: i ruoli, le possibilità di carriera e prestigio, che derivano dall'essere uomo e donna. Questo, a sua volta, ha importanti effetti sul diverso modo in cui uomini e donne, fin dall'infanzia, imparano a concepire e rappresentare se stessi.
[1] Treccani, Enciclopedie online.
La Ministro, la Ministra o il Ministro donna? Come declinare al femminile una carica o un titolo professionale tradizionalmente associato a persone di sesso maschile? Si tratta di un problema sollevato già negli anni '80 in Italia, su cui sono state svolte ricerche, stilati documenti e raccomandazioni, ma rispetto a cui tanto nel linguaggio comune quanto in quello giornalistico, politico, amministrativo, non si è stabilizzato ancora un uso condiviso.
Non è inconsueto, infatti, leggere e udire frasi in cui la concordanza di genere tra articolo, sostantivo, aggettivo è sacrificata alla scelta di un maschile presunto “neutro”, che dà luogo però a esiti paradossali. Quando una donna accede a un incarico apicale, a causa del ritardo con cui le donne vi hanno avuto accesso e della loro presenza ancora minoritaria ai vertici delle organizzazioni e delle istituzioni, accade che i parlanti utilizzino per lei i titoli al maschile, salvo far precedere il suo cognome da un “la” che non ha equivalente per gli uomini. Avremo allora che: “Il Ministro Fornero è a colloquio col Presidente di Confindustria Marcegaglia e il Segretario della CGIL Camusso”. Però, quando non precedute dalla carica, si parlerà di loro come de “la Fornero”, “la Marcegaglia”, “la Camusso”.
Contro entrambi questi usi metteva in guardia nel 1987 Alma Sabatini, nelle sue Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, che aveva l'intento di portare l'attenzione sugli usi più o meno del maschile come neutro universale e suggerire alternative. Il documento invitava: a impiegare parole al femminile quali ministra, assessora, procuratrice, rettrice, chirurga, avvocata, architetta, magistrata, rettrice ecc.; a preferire alcune forme in -a rispetto a quelle in -essa (es. la sacerdote, la vigile); a mettere l'articolo la davanti a termini come capofamiglia, capostazione, capo ufficio stampa, quando si tratta di una donna. Al tempo stesso, proponeva di eliminare la davanti ai cognomi delle donne, come davanti a quelli maschili.
Talvolta, questo significa impiegare termini che se declinati al femminile rimandano nell'uso comune ad altri significati (di minore prestigio), per esempio segretaria (la Segretaria Generale della CGIL).
Il lavoro di Sabatini era stato commissionato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, ma non fu trasformato in un atto ufficiale. Seguirono altre iniziative, come il Progetto Polite (Pari Opportunità e Libri di Testo), che raccoglieva le sollecitazioni della Conferenza mondiale di Pechino (1995), la pubblicazione di due Vademecum[1] e alcune iniziative delle amministrazioni locali. Si può menzionare quella del Comune di Firenze, che nel 2012 ha distribuito ai dipendenti delle linee guida per l'uso del genere nel linguaggio amministrativo[2] che contengono, per esempio, l'indicazione di usare sempre il genere femminile e non maschile se ci si riferisce a una donna e di rendere evidente il femminile quando si parla di un collettivo: es. i dipendenti e le dipendenti.
L'omologazione linguistica della donna al maschile resta una pratica diffusa e dibattuta, che diventa visibile per lo più nei casi in cui l'uso del maschile rende incomprensibile il messaggio, come vedremo nei casi. Da questa resistenza culturale dipende la scelta che fanno anche alcune donne che rivestono ruoli di responsabilità di farsi nominare al maschile, quasi il femminile rappresentasse una sottrazione di valore. Si possono ricordare i casi diversi di Irene Pivetti, che nel 1994 dichiarava di voler essere chiamata il Presidente della Camera, e non la Presidente o la Presidentessa, e di Elsa Fornero che nel 2011 ha invitato giornalisti e comunicatori a non utilizzare l'articolo davanti al suo cognome, mantenendo però per sé la formula ilMinistro.
Tuttavia, leggere che la Ministra, la Sindaca o la Assessora hanno fatto determinate dichiarazioni sta diventando sempre meno raro, anche per espresso desiderio delle dirette interessate.
[1] Saperi e libertà: maschile e femminile nei libri, nella scuola, nella vita, I e II, a cura di Ethel Serravalle, Associazione Italiana Editori, Milano 2000.
[2] Le linee guida sono il frutto di un'idea del Comitato pari opportunità del Comune di Firenze con la collaborazione dell’Accademia della Crusca e la direzione scientifica di Cecilia Robustelli, docente universitaria di linguistica a Modena.
L'uso del maschile “onnivalente”, anche contro le regole della concordanza di genere, può dare luogo ad effetti comici (o fuorivianti), come nel titolo che segue, che risale a qualche anno fa:
Il sindaco di Cosenza in un'intervista: aspetto un figlio
Il segretario DS ai giornali: il padre sono io
(quotidiano nazionale, 10 agosto 2005)
Commenta ironicamente Cecilia Robustelli, esperta italiana di linguaggio e sessismo: “i più maliziosi immaginarono uno scandaletto omosex, i più seri sussultarono al pensiero dei progressi della scienza: un uomo incinto! Ma bastò continuare a leggere qualche riga perché il castello interpretativo si afflosciasse: È Nicola Adamo, segretario regionale della Calabria dei Ds, il padre del bambino che porta in grembo Eva Catizone, sindaco di Cosenza”.
Si possono però menzionare casi in cui il femminile è impiegato correttamente nei titoli:
La sindaca con le tronchesi riapre il sentiero proibito
(quotidiano locale, 20 luglio 2012)
Festa del Volontariato, l'assessora Piaia: "Costruiamo insieme un nuovo sistema"
(sito di informazione locale, 12 settembre 2012)
La ministra Tory a favore dei matrimoni gay
(settimanale, 19 settembre 2012)
La giudice e il testimone: una mattina d’estate in Tribunale
(sito di quotidiano nazionale, 6 luglio 2012)
Gli esempi, che controbilanciano l'uso diffuso del maschile per le professioni e i titoli delle donne, mostrano la praticabilità di un "politically correct" che, mentre rispetta le norme del linguaggio non discriminatorio sulla base del genere, non produce distorsioni nelle concordanze né effetti cacofonici o forzature.