I problemi che vengono sollevati intorno all’uso di queste espressioni, principalmente da organizzazioni di donne attente al linguaggio dell’informazione, riguardano la rappresentazione della violenza sulle donne. La violenza di genere, scrivono le giornaliste della rete GIULIA (Giornaliste Unite Libere Autonome), è comunicata come un “delitto di scarsa pericolosità sociale, quasi fisiologico e inevitabile. […] ‘Gelosia’, ‘passione’, ‘amore’ diventano facile movente e persino attenuante. Almeno nella considerazione e condanna sociale”[1]. Il rischio – affermano – è che questo finisca per abbassare la soglia di attenzione dell’opinione pubblica verso un fenomeno gravemente diffuso (vedi Femminicidio) e che richiede consapevolezza e una seria presa in considerazione da parte delle istituzioni. Inoltre, viene ridotta o banalizzata la responsabilità di chi uccide una donna, e con ciò normalizzata la violenza.
Delitto o omicidio passionale sono locuzioni che contengono il riferimento non alla vittima ma al movente. E individuano il movente in una rappresentazione dell’amore che può contenere la violenza. Non solo contiene quindi un elemento paradossale, il binomio amore-violenza, ma rimuove l’elemento che davvero unisce i diversi episodi, cioè il genere della vittima. La vittima che è donna ed è uccisa in quanto donna.
Quando la stampa si focalizza solo sui sentimenti, sui disagi, sulle frustrazioni dell’uomo che ha compiuto violenza (es. “non poteva più vivere senza di lei”) e cancella la vita e i desideri della donna vittima, il racconto finisce per incentrarsi su un unico punto di vista, che è quello del carnefice, e per legittimarlo. Inoltre, tenda a farne l’atto isolato e criminale di un singolo, rimuovendo le radici culturali e materiali del problema: la diseguaglianza nelle relazioni tra i generi e la costruzione dell’identità maschile.
Quel che sostengono le associazioni attive nel contrasto della violenza sulle donne, insieme a osservatrici e osservatori del mondo dell’informazione, è che l’uccisione di donne da parte di uomini, dentro o fuori le mura domestiche, è da interpretare e comunicare come un problema insieme criminale e culturale. E che il linguaggio dei media può avere un ruolo di primo piano nel produrre un cambiamento di mentalità.
Scrivono perciò le donne di GIULIA:“Chiediamo alle giornaliste e ai giornalisti, nella carta stampata, nelle agenzie, nei telegiornali, nelle radio, nei siti di informazione on line, di aprire una riflessione su quale sia il modo e il linguaggio più appropriato, utile e corretto di riferire di queste drammatiche notizie, senza banalizzare le responsabilità di chi uccide o abusa di una donna”. Raccontare la violenza nella sua complessità e la sua differenza, anche in termini di genere.
Nel 2012, un gruppo di blogger ha proposto anche un “Codice etico per la stampa in caso di femminicidio”[2]. Eccone, in versione sintetica, alcuni articoli:
- “I giornalisti devono mettere in evidenza la motivazione di genere (svalorizzazione simbolica, discriminazione economica e sociale) come causa profonda della violenza contro le donne. […]”
- “I giornalisti devono scegliere con cura il linguaggio da utilizzare per dare conto di casi di femminicidio, evitando di comunicare in modo anche implicito che la vittima sia da biasimare per qualche motivo legato al suo essere donna e al suo abbigliamento o atteggiamento, ai suoi orari e abitudini.”
- “I giornalisti devono inoltre rappresentare i personaggi della notizia come uomini e donne veri, reali, evitando accuratamente di ricorrere a stereotipi che li incasellano in ruoli patriarcali privi di attinenza con il fatto specifico e reale (l’innamorato pazzo, il marito deluso e depresso, la mogliettina che sopporta, la ex fidanzata come preda perché in passato era in possesso dell’aggressore-fidanzato).”
- “I giornalisti devono in ogni modo evitare di usare l’equazione 'odio uguale amore' e mai utilizzare frasi che possano giustificare in qualche maniera simbolicamente la violenza come gesto sconsiderato o addirittura 'folle' e quindi non del tutto legato alla responsabilità individuale. […]”
- “Dovrebbero anche evitare di presentare le violenze come causate semplicemente dal consumo di alcool o da altri problemi sociali o disagi psichici.”
Un uso limitato, o l’eliminazione stessa dell’espressione "delitto passionale", è la raccomandazione che viene da più parti del mondo femminile che lotta contro la violenza sulle donne.
Anche la Federazione Nazionale della Stampa Italiana si è espressa, già da alcuni anni, a questo riguardo. Nel 2008, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, 25 novembre, la Commissione Pari Opportunità della FNSI ha presentato un decalogo della Federazione Internazionale dei Giornalisti[3] che chiede ai professionisti dell’informazione attenzione e rispetto nel trattare senza pregiudizi e distorsioni il fenomeno: linguaggio esatto e libero da preconcetti, rispetto della privacy delle donne, capacità di collocare la violenza nel proprio contesto, con statistiche e informazioni accurate.
2012, le blogger di Femminismi.it hanno proposto un “Codice etico per la stampa in caso di femminicidio”[1]. Ecco, in versione sintetica, alcuni articoli:
CFR. DECALOGO RIPORTATO SOTTO
“I giornalisti devono mettere in evidenza la motivazione di genere (svalorizzazione simbolica, discriminazione economica e sociale) come causa profonda della violenza contro le donne. […]”
“I giornalisti devono scegliere con cura il linguaggio da utilizzare per dare conto di casi di femminicidio, evitando di comunicare in modo anche implicito che la vittima sia da biasimare per qualche motivo legato al suo essere donna e al suo abbigliamento o atteggiamento, ai suoi orari e abitudini.”
“I giornalisti devono inoltre rappresentare i personaggi della notizia come uomini e donne veri, reali, evitando accuratamente di ricorrere a stereotipi che li incasellano in ruoli patriarcali privi di attinenza con il fatto specifico e reale (l’innamorato pazzo, il marito deluso e depresso, la mogliettina che sopporta, la ex fidanzata come preda perché in passato era in possesso dell’aggressore-fidanzato).”
“I giornalisti devono in ogni modo evitare di usare l’equazione “odio uguale amore” e mai utilizzare frasi che possano giustificare in qualche maniera simbolicamente la violenza come gesto sconsiderato o addirittura “folle” e quindi non del tutto legato alla responsabilità individuale. […]”
“Dovrebbero anche evitare di presentare le violenze come causate semplicemente dal consumo di alcool o da altri problemi sociali o disagi psichici.”
Un uso limitato, o l’eliminazione stessa dell’espressione delitto passionale, è la raccomandazione che viene da più parti del mondo femminile che lotta contro la violenza sulle donne.
Il dibattito sul femminicidio nei mezzi di informazione in Italia fa seguito a prese di posizione e raccomandazioni già espresse dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana riguardo, più in generale, la violenza di genere. Nel 2008, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, 25 novembre, la Commissione Pari Opportunità della FNSI ha presentato un decalogo della Federazione Internazionale dei Giornalisti[2] che chiede ai professionisti dell’informazione attenzione e rispetto nel trattare senza pregiudizi e distorsioni il fenomeno: linguaggio esatto e libero da preconcetti, rispetto della privacy delle donne, capacità di collocare la violenza nel proprio contesto, con statistiche e informazioni accurate…
“La Commissione Pari Opportunità della FNSI” – si legge nella nota diffusa in quell’occasione – “rilanciando la necessità a colleghe e colleghi di seguire con attenzione gli elementi di rispetto e professionalità contenuti nella Raccomandazione, ricorda che, come denuncia Amnesty International, la violenza domestica è una delle prime cause di morte e invalidità per le donne europee tra i 16 e i 44 anni e secondo l'OMS una donna su quattro nel mondo ha subito violenze sessuali nel corso della propria vita. Ma ci sono violenze anche non fisiche (cioè psicologiche ed economiche), che si traducono nell'emarginazione, nel disprezzo, nella mancanza di cittadinanza per tutte le donne. E chi lavora nell'informazione, non soltanto nel corso della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, deve ricordarsene e lavorare perché questi fenomeni progressivamente si riducano e vengano messi socialmente all'indice. In attesa che siano la storia e la cultura a cancellarli”.
Il movente della gelosia è spesso utilizzato nella narrazione dei casi di violenza omicida contro le donne come scorciatoia linguistica per comunicare l’incapacità dei colpevoli di fare i conti con la libertà delle compagne, moglie e amanti: lo schema è sempre lo stesso, lei minacciava di lasciarlo e lui l’ha uccisa.
È il caso di uno dei primi casi del 2012: l’omicidio di Putignano di cui è vittima Antonella Riotino, 21 anni. Reo il fidanzato Antonio Giannandrea, 18 anni. Questa la cronaca:
Il movente passionale
Una storia d'amore molto travagliata, quella tra i due ragazzi, fatta di incomprensioni, feroci litigate, minacce e abbandoni e ritorni d fiamma. Il motivo dell'assassinio starebbe proprio in questa difficile relazione. Gli inquirenti stanno cercando di definire i motivi precisi della lite ma, al momento, sembra che il delitto sia scaturito mercoledì sera durante l'ennesima discussione, nel corso della quale la ragazza forse avrebbe ribadito al ragazzo di volerlo lasciare. A quel punto il raptus: lui le avrebbe afferrato la testa e sbattuta contro un muretto, poi le avrebbe messo le mani al collo e infine la coltellata mortale sul lato destro del collo.
(sito di quotidiano nazionale, 9 gennaio 2012)
Il motivo dell’assassinio, si dice, sta nella turbolenza della relazione. Il movente è detto passionale. Impropriamente, quindi, vengono associati nella narrazione la passione e la relazione con l’omicidio, che è invece la negazione della relazione e di ogni sentimento. Questo breve stralcio parla anche di "raptus": un altro comune escamotage per l’interpretazione dei casi di femicidio, che consegna il gesto assassino alla follia lasciando così in ombra le cause sociali e culturali della violenza sulle donne.
Di "dramma della gelosia" parla un quotidiano a proposito di un caso di femicidio seguito dal tentativo di suicidio dell’assassino:
Dramma della gelosia: uccide la compagna e si spara
[…] Qualche tempo fa aveva conosciuto Ludmila Rogova, ucraina e regolare in Italia, due figli di 6 e 16 anni. Lui l’aveva assunta come badante per accudire l’anziana madre. «Piano piano — dicono i vicini — si era molto attaccato a quella donna, le voleva molto bene». In via Fermi 1, Ludmila veniva tutti i giorni a trovarlo: «Era gentile, — ricorda una signora — sorrideva e salutava sempre». Ma negli ultimi tempi, nel loro rapporto qualcosa si era rotto. C’è chi afferma che Ludmila voleva tornarsene in Ucraina dai figli («il più grande sta crescendo da solo il fratellino di sei anni») e quella sua decisione aveva sconvolto Giuliano tanto da portarlo a continui litigi.
(quotidiano locale, 31 marzo 2012
In questo caso, il termine gelosia non coglie nemmeno il movente dichiarato o apparente dell’omicidio, in quanto la ricostruzione rimanda piuttosto alla paura dell’abbandono, all’incapacità di fare i conti con la lontananza fisica dalla compagna. I titoli che contengono la parola gelosia, tanto vaga quanto inadeguata, per i casi di donne uccise dai loro compagni sono centinaia nella stampa italiana.