Quella dei pregiudizi verso il disagio mentale è una lunga storia. Nel Medioevo la follia veniva considerata un qualcosa di magico e temibile, confinata nel mistero e nell'ignoto, e i folli venivano isolati in lebbrosari, dove non venivano curati ma solo allontanati dal resto della società. Solo nel Rinascimento si iniziò a studiarla e classificarla in diversi tipi. Nonostante ciò si continuava a vedere nel folle un possibile oggetto di derisione. In seguito, in età classica, la pazzia fu considerata una “malattia morale”. E si cominciò a istituzionalizzarla. Tra il 1895 e il 1904 c’è la “rivoluzione psichiatrica”, e i termini psichiatrici di origine ottocentesca (come catatonia e neurastenia) furono ricodificati da Emil Kraepelin in due paradigmi principali: psicosi maniaco depressiva e demenza precoce (ridenominata successivamente schizofrenia). I metodi settecenteschi prevedevano docce, salassi e violenze di ogni tipo, nell’Ottocento il manicomio continuava a essere un luogo di custodia più che di cura. Sin dall’antichità l’anomalia psichica era vista come una deviazione che aveva la propria causa in una lesione cerebrale. Questa concezione, nel XX secolo troverà applicazione nella lobotomia e in altri interventi chirurgici. Anche se già dal diciannovesimo secolo la follia viene vista non più come conseguenza di una lesione cerebrale ma come conseguenza di un disagio interiore.
“Allo stato attuale non ha più ragion d’essere la contrapposizione tra follia e normalità, essendo venute meno le certezze assolute delle epoche passate. La complessità della malattia mentale può essere colta solo in una dimensione che privilegia la continua interazione dei fattori biologici con l’ambiente. La follia fa parte della nostra realtà e non può essere curata in ambienti che isolano il malato”. [1]
Nel XX secolo si arriva alla conclusione che a provocare i disturbi è il rapporto con l’ambiente, con un’interazione tra struttura biologica dell’individuo e relazioni sociali. Ragion per cui la follia non può essere curata in ambienti che isolano il malato.
Sono moltissime le persone che nella loro vita incontrano problemi legati alla salute mentale, ma questo tema entra nel dibattito pubblico solo quando ci si trova davanti a drammatici casi di cronaca. Con il risultato di rendere più forte lo “stigma” sulla malattia mentale. In "Vade Retro del pregiudizio", il filosofo Pier Aldo Rovatti scrive: “credo che ci siano due facce della follia. Una corrisponde allo stigma della follia, è la faccia sociale e storica: ogni società ha i suoi ‘matti’ e quindi anche i suoi ‘normali’, traccia una linea di esclusione e costruisce dispositivi di stigmatizzazione che variano storicamente, isolando di volta in volta gli “altri” e i diversi. Possiamo riconoscere questa linea, cercare di abbatterla o di renderla più sottile, ma dobbiamo anche riconoscere che essa ogni volta si ricostituisce. Esiste una società senza il suo ‘folle’? L’altra faccia è l’esperienza stessa della follia, ciò che resta e non si riduce allo stigma. Qualcosa che dovrebbe essere “salvato”, sottratto alla sofferenza, riguadagnato alla soggettività di ciascuno di noi… dovremmo custodire la nostra parte “notturna”, il senso di “non normalizzabile” del nostro esistere. Una società di “normalizzati”- contrapposta a una società fondata sullo stigma – è il fantasma terribile di una realtà di esclusione. Anche Basaglia l’ha detto: civile è quella società che sa ospitare la follia”. [2]
"Cogito ergo sum, se non sono razionale non sono più. È una cosa che ci portiamo dietro da Cartesio- spiega Luigi Attenasio, presidente nazionale di Psichatria Democratica - Ma la follia è parte di noi, della nostra vita, come diceva Franco Basaglia". Secondo lo psichiatra basagliano "la legge 180 non ha chiuso i problemi ma li ha aperti. Ha riversato dal manicomio nella società tutta la miseria di cui la società è capace e che credeva proprio di nascondere. Dunque abbiamo chiuso i manicomi, ma sopravvive il pregiudizio, lo stigma, lo stereotipo. E' quella che io chiamo la manicomialità (questa è una parola che suggerisco) cioè un modo di approcciarsi che non tiene conto che quelle con problemi di salute mentale sono persone". (vedi anche matto e manicomio)
Per un’effettiva applicazione della legge Basaglia è fondamentale rovesciare i pregiudizi culturali sulla follia. Stereotipi e stigma che passano in gran parte dalla stampa, anche nazionale, attraverso fatti eclatanti. Ci sono solitamente due schemi applicati alle notizie di cronaca che hanno a che fare con disturbi mentali.
La cosiddetta "notiziabilità" del fatto (vale a dire quei criteri che rendono un avvenimento una notizia) prevede infatti:
il malato che uccide il sano (affetto da manie di persecuzione che uccide una persona sconosciuta per strada, il figlio che uccide la madre; la madre che uccide il figlio neonato mettendolo in lavatrice, la figlia di 9 anni a coltellate, ecc.)
oppure il sano che uccide il malato (ad esempio la madre o il padre esasperato che uccide il figlio autistico o schizofrenico, ecc.)
Il messaggio che se ne ricava è nel primo caso: "è tale la tragedia che è opportuno il perdono e la comprensione di tutti nel silenzio". Ma Francesca Sassano, avvocato cassazionista rileva che "il silenzio è omertà quando la persona era in cura da un professionista e se ne può ricavare il sospetto che il fatto delittuoso possa essere stato frutto di cattiva assistenza o per mancanza di risorse adeguate". [3]
Nel secondo caso, quello del sano che ha ucciso il malato, il messaggio che arriva è: “non poteva fare diversamente, si è sacrificato per salvare la famiglia perchè la malattia mentale del congiunto era tale da non poter essere umanamente sopportata". Anche in questo caso s’è persa la responsabilità del curante e restano alcuni interrogativi: "ha capito la gravità del disturbo, come ha provveduto, disponeva delle risorse appropriate, e se non ne disponeva, le ha richieste?" [4] Sui media si parla di salute mentale soprattutto in caso di delitti o episodi violenti. Lo "spettacolo della follia" è un tema celebre sui media, con il grave rischio di discriminazione che si verifica quando i titoli e le notizie su questi avvenimenti vengono presentati con tinte eccessivamente morbose o a effetto.
Psicoradio, una testata radiofonica realizzata dal Dipartimento di Salute mentale di Bologna con l'associazione Arte e Salute onlus, i cui redattori e redattrici sono persone in cura presso il dipartimento, ha realizzato una ricerca su 234 titoli con termini riguardanti la salute mentale pubblicati da 8 quotidiani nazionali in 8 mesi compresi fra novembre 2007 e ottobre 2008, rilevando che alcuni termini come folle (16%), pazzo (10%), squilibrato (5%), psicopatico (3%) sono usati soprattutto in cronaca."In quei contesti sembrano indicare più un commento su gesti ritenuti inspiegabili che un effettivo, rilevato disturbo della persona - afferma l'indagine - Tutte le definizioni ricordate sono poi spesso associate ad altri termini che indicano situazioni violente (come violenza/violento, pericoloso, accoltellare, fracassare, sbattere, spaccare...)". [5]
Nei titoli di articoli che descrivono stragi o omicidi particolarmente efferati o inaspettati ricorrono parole quali "follia", "folle", "raptus". Il termine raptus è usato quando non è stato possibile da chi scrive identificare un movente. "Gli elementi contestuali che giustificano l'uso della parola raptus fanno riferimento alla natura particolarmente violenta del crimine associato a termini come "orrore", "fracassare", "spaccare" - spiega l'indagine - questo vale per tutte le ricorrenze della parola 'raptus', come mostrano anche altri titoli: Raptus. Aggredisce con una mannaia la compagna, Un raptus che sfociò in una violenza inaudita, Raptus di gelosia uccide a pugni la compagna ottantenne". L'analisi evidenzia anche un altro collegamento frequente fra la parola 'raptus' e la presenza di altre parole chiave come 'problemi psichici' e 'psicofarmaci'.
Van Gogh e Artaud, lo stereotipo di genio e follia
Vincent Van Gogh (1853-1890) è considerato il "folle genio" per eccellenza, o anche "il pittore malato". È oggi l’archetipo dell’artista maledetto, del genio ispirato dalla follia, rifiutato dalla sua epoca e resuscitato dai posteri. In realtà, quando era in vita, il pittore olandese spiegò e analizzò la sua opera esprimendo sempre le sue intenzioni in modo lucido, ad esempio nelle lettere al fratello Theo. Ma la leggenda si è costruita attorno a lui e ha preso il sopravvento con meccanismi molto simili a quelli applicati dai media oggi. Fin da subito dopo la sua morte, la gente rimase affascinata dagli episodi violenti della sua vita. Van Gogh compì atti di autolesionismo, beveva molto assenzio e da ubriaco lanciò un bicchiere di vetro in testa al pittore impressionista Gauguin mancandolo per poco. Fu internato all’ospedale di Arles dalla polizia su ordine del sindaco, dopo molte crisi, e poi di nuovo a Sain Paul de Mausole, vicino Saint Remy in Provenza, per un anno dall’8 maggio 1899 al 19 maggio 1890. Quando uscì, dal 20 maggio al 29 luglio dipinse 70 tele, quasi una al giorno. Ma la sua ultima crisi gli sarà fatale e si sparerà un proiettile all’addome, anche se nel 2011 scrivendone la biografia, i coniugi Steven Naifeh e Gregory White Smith tenteranno di provare il contrario affermando, grazie a numerose fonti, che Van Gogh aveva tentato di proteggere due fratelli adolescenti che giocavano con un vecchio revolver in prossimità del campo dove si apprestava a dipingere. Una teoria che ha lasciato molte domande aperte. Un anno prima della morte, Van Gogh ebbe una violenta discussione con l'amico Gauguin e si recise un pezzo dell'orecchio sinistro con un rasoio, episodio che effettivamente è testimoniato da un suo autoritratto. Ma è riconosciuto che i capolavori di Van Gogh non nascono dalla follia, bensì dalla "geniale" capacità di guardare la realtà da prospettive nuove e non ordinarie. Al contrario, quando aveva le sue crisi, attacchi di allucinazioni e di tipo epilettico, l'artista era totalmente incapace di lavorare, a causa dello stato di profonda depressione, ansietà e confusione mentale. "Non si possono associare alla creatività di Van Gogh e all'originalità dei suoi dipinti caratteristiche dei limiti di una patologia: Vincent Van Gogh non finì mai di dipingere e rimase meravigliosamente creativo fino alla sua morte". [6]
Ad esempio, attraverso i colori accesi, l'artista olandese rappresenta in modo consapevole l'intensità delle emozioni e dei sentimenti. Spiegando al fratello Theo il dipinto Il Caffè di notte che raffigura l'interno di un caffè di place Lamartine ad Arles, Vincent Van Gogh scrisse: "Ho cercato di esprimere con il rosso e il verde le terribili passioni umane. La sala è rosso sangue e giallo opaco, un biliardo verde in mezzo, quattro lampade giallo limone a irradiazione arancione e verde. C´è dappertutto una lotta e un´antitesi dei più diversi verdi e rossi, nei piccoli personaggi di furfanti dormienti, nella sala triste e vuota, e del violetto contro il blu".
Il Campo di grano con corvi è uno dei quadri più importanti, perchè si ritiene che Van Gogh ci lavorasse al momento del suicidio, quando le sue condizioni di salute erano peggiorate. Scrisse al fratello: " ... ho ancora dipinto tre grandi tele. Sono immense distese di grano sotto cieli tormentati, e non ho avuto difficoltà per cercare di esprimere la tristezza, l´estrema solitudine ". In uno di questi campi, di lì a pochi giorni, si sparerà, e morirà due giorni dopo.
A questo proposito è interessante l'analisi fatta da un altro artista francese che mezzo secolo dopo ha condiviso lo stesso destino di "genio folle" con ripetuti internamenti in manicomio, il poeta, scrittore, drammaturgo, disegnatore e attore, Antonin Artaud (1896-1948). A 18 anni venne diagnosticata ad Artaud la prima depressione nervosa, che nel 1939 verrà identificata come un delirio di tipo paranoico. Genio surrealista, reso dipendente da una droga, il laudano, che gli veniva somministrato come cura, ferito dalle sedute di elettroshock, consumato da un cancro al retto diagnosticato troppo tardi, Artaud morì a 52 anni il 4 marzo 1948, da solo, per un’overdose del farmaco chloral. Un anno prima, nel 1947, Artaud aveva portato il suo sguardo sull'opera di Van Gogh. Secondo Artaud, che in Van Gogh riconosceva la sua stessa sofferenza, l'artista olandese era troppo lucido per essere folle.
La natura della malattia di Van Gogh, che si manifestò prima dei trent'anni, è stata oggetto di numerose ricostruzioni e interpretazioni, e l'idea di scoprire le cause dei suoi disturbi suscita ancora oggi grande interesse. Per Van Gogh sono state avanzate una ventina di diagnosi, tra i quali gravi disturbi dell’umore e depressione. Lui stesso diceva di sè: "sono un pazzo o un epilettico". Si è quindi ipotizzato che il grande pittore fosse epilettico, o schizofrenico, me nessuna ipotesi ha convinto fino in fondo. È risaputo inoltre che gli artisti dell'epoca (fra cui gli impressionisti Manet, Degas, Toulouse-Lautrec), facessero uso di una bevanda alcolica decisamente tossica: l'assenzio. Anche Van Gogh abusava di questa sostanza molto in voga al tempo e dagli effetti dannosi sul sistema nervoso, in grado di provocare allucinazioni visive ed attacchi epilettici. Numerosi studiosi sostengono che l'uso di assenzio e di altre bevande alcoliche, associato ad una cattiva o scarsa nutrizione, devono aver aggravato i sintomi della sua malattia. Van Gogh era emotivamente instabile e consumatore accanito d’assenzio, alternerà per tutta la vita momenti di disperazione e momenti d’estasi. Questo lascia supporre che soffrisse di un disturbo bipolare. Durante l’anno di ospedalizzazione, Van Gogh ebbe tre gravi ricadute in termini di angosce e allucinazioni, ciò nonostante fu dichiarato guarito e lasciò l’ospedale.
All’inizio del ventesimo secolo, la psichiatria era una scienza ancora giovane costruita a partire da alcuni padri fondatori come il francese Pinel, che avevano stabilito una prima classificazione dei disturbi mentali, distinguendo manie, demenza e idiozia, le differenti forme di deliri e psicosi acute. I loro eredi hanno poi esplorato gli aspetti psicofisici, ereditari, ecc. Le patologie identificate all’epoca erano soprattutto psicosi maniaco depressive e depressioni molto gravi, che oggi conosciamo meglio sotto il termine di disturbi bipolari, i deliri di persecuzione e le schizofrenie, problemi estremamente complessi con la dissociazione della personalità. I mezzi farmacologici del tempo erano molto limitati e d’azione lenta e moderata, mentre le crisi erano molto forti perché i pazienti non c'erano i trattamenti sedativi di oggi. Solo negli anni Cinquanta del Novecento vengono introdotti i neurolettici e gli antidepressivi. Prima c’erano sostanze come il laudano, un preparato di oppio con vino o alcol. Antonin Artaud a cui fu diagnosticato un delirio di tipo paranoico fu spesso sedato con questa droga che lo rese dipendente e mascherò i dolori derivanti da un cancro al retto. Il tumore fu diagnosticato troppo tardi, quando era ormai incurabile.
A gennaio 1947 in occasione di una mostra su Van Gogh all’Orangerie di Parigi, il committente dell’esposizione Pierre Loeb invitò Antonin Artaud a scrivere sul pittore pensando che un uomo che aveva vissuto l’internamento per nove anni e subito la terapia dell’elettoschock potesse meglio di qualunque altro fare da eco all’opera di Van Gogh. Nacque così "Le suicidé de la societé" (il suicidato della società, ndr.). Il saggio è una critica del poeta che si erge contro la società cannibale, la quale sacrifica gli artisti in nome di una politica oscurantista, scelta dalle istituzioni che la dirigono. Un'opera contro la psicanalisi che condanna gli artisti, coscienza della società. I due artisti percepivano il mondo come torturato da una generale ipocrisia e dalle menzogne, che portavano a omicidi fisici e psicologici quotidiani. Secondo Artaud, i geni sono sorvegliati e annientati per la paura che essi rendano visibile l’altra faccia dello specchio, che noi vogliamo tenere nascosto. La società vede nell’artista un nemico per soffocare ogni slancio di ribellione rivendicatrice che è all’origine del genio.
Le suicidé de la société è, secondo i critici, un essai unico nel suo genere, poetico e veemente, un grido di rabbia contro l’incomprensione degli uomini. Artaud insorge contro la follia nella quale il mondo esterno, i suoi cari e gli amici, i dottori e la società intera avevano rinchiuso Van Gogh. Secondo il poeta francese, “Van Gogh non era pazzo. Diceva una verità che la società non era pronta ad accettare”. Artaud denuncia i pregiudizi di una morale e di una scienza che stigmatizzano come folle un’arte che non si sottomette alle loro regole. L’uno e l’altro patiscono profondamente il rifiuto di cui sono vittime. I violenti trattamenti clinici inflitti ad Artaud alterano la sua personalità e lo fanno impazzire. Pierre Loeb, amico di Artaud, li riunisce in un dialogo postumo, in modo che il poeta possa prendere le difese del pittore ed esprimere il suo pensiero sull’arte, sull’atto della creazione e sulla follia. Van Gogh abusava di assenzio per alleviare la sua angoscia, Artaud trattato conl’arsenico per i suoi disturbi nervosi, è ricorso frequentemente al laudano per alleviare il suo dolore, palliativi che non hanno fatto che aggravare il loro malessere e il sentimento di solitudine. Incompresi dai loro contemporanei, i due uomini hanno conosciuto l’internamento a più riprese.
All'inizio, Artaud aveva rifiutato la proposta dell'amico gallerista Pierre Loeb. Cambiò idea dopo aver letto sulla rivista Arts un articolo dello psichiatra Beer sulla follia di Van Gogh che lo spinse a prendere le sue difese perché il grande pittore veniva considerato dai medici ancora come uno “squilibrato”. Artaud denuncia vigorosamente l’alienazione dell’artista da parte della ‘società tarata’. Secondo lui, “la società tarata ha inventato la psichiatria” per difendersi dagli spiriti liberi e geniali. Van Gogh dunque è stato rifiutato, respinto, eliminato dalla società. Agli occhi di Artaud, è la società che suicida l'artista per “per punirlo di essersi sradicato". Nei quadri di Van Gogh si vedono “delle cose della natura inerte come in piena convulsione - scrive Artaud - Non ci sono fantasmi nei quadri di Van Gogh, né visioni o allucinazioni. E’ la natura nuda e pura, vista nel mondo in cui si rivela, tale e quale.”
Fin da giovane Vincent, “doveva” trovare una sua strada per inserirsi in quella normalità (nella società) cui tutti giungevano (e aspiravano), come già era accaduto per i propri familiari. La sua ricerca era come una lotta per essere accettato da una società che lo osservava e lo cominciava a giudicare come un fallito. La società non lo accetta, non lo capisce e Vincent ha spesso reazioni e gesti estremi di ribellione, come l'automutilazione dell'orecchio sinistro. Proprio dopo qualche mese dall’accaduto, avviene per Vincent una rottura fondamentale con la società. Viene deciso il suo internamento, richiesto tramite una petizione firmata dai suoi concittadini; lui replica, dicendo “Non ho fatto del male a nessuno”, e in una lettera al fratello Theo scrive che “L’artista è alla fine, un uomo che lavora e non è il primo babbeo venuto che può distruggerlo (allude ai firmatari della petizione)…" L’intera esistenza di Vincent attacca il conformismo stesso delle istituzioni e Artaud condanna la psichiatria perché non si rende conto dei suoi orrori e limiti. E' proprio la creatività dell’artista alla base della discriminazione, secondo Artaud, perché la sua illuminazione non riesce ad essere tollerata dalla società che lo relega alla follia, proprio perché non comprende il tipo di visione di Vincent, una visione di una lucidità estrema. Van Gogh è il “suicidato della società”, non perché si sia arreso alla società, ma perché, come un gesto di ribellione e di fuga, ha trovato la via d’uscita da essa. Se Vincent si suicida, non è per rassegnazione e negazione, ma solo per affermazione della della sua arte, della sua differenza. "Antonin Artaud e Vincent Van Gogh rappresentano ormai il mito. Oltre alla dissoluzione delle forme convenzionali, condividono la febbre creativa, il sentimento di sofferenza, l’instabilità mentale, in breve tutti gli ingredienti per accedere allo status di martiri dell’arte". [7]
[1] Sassano F., La Tutela dell'Incapace e l'Amministrazione di Sostegno", Maggioli Editore, 2004
[2]Digilio G. (a cura di), Vade retro del pregiudizio. Piccolo dizionario di salute mentale, Armando Editore, Roma 2005 pag.37
[3]Sassano F., La Tutela dell'Incapace e l'Amministrazione di Sostegno", Maggioli Editore, 2004
[4] Ibidem
[5] Follia scritta, I quaderni di Psicoradio
[6] http://dacampo.altervista.org/arteepazzia/van%20gogh.htm
[7] Van Gogh/Artaud, Le suicidé de la société, Connaissance des Arts, Parigi.
Folle spara davanti a Palazzo Chigi;
feriti due Carabinieri
(sito internet di un settimanale nazionale, 28 aprile 2013)
Un uomo ha sparato stamane nella piazza antistante Palazzo Chigi, dove una folla numerosa si era radunata in attesa dell'arrivo dei ministri del Governo Letta che stavano giurando al Quirinale. L'uomo, Luigi Preiti, 46 anni, calabrese, vestito in maniera elegante, si è avvicinato a due Carabinieri che presidiavano la zona, ha estratto una pistola ed ha sparato contro i due militari a bruciapelo. Uno dei due, ferito al collo, è in gravi condizioni ma non corre pericolo di vita. Uno dei colpi esplosi ha raggiunto e ferito di striscio una passante. Immediatamente sono scattate misure di sicurezza eccezionali. Anche la cerimonia di passaggio delle consegne tra il Governo Monti ed enrico Letta è stata prima sospesa, poi è proseguita ma i ministri sono stati bloccati nel palazzo del presidente della Repubblica per diversi minuti. Il responsabile dalle prime notizie sarebbe uno squilibrato. Ancora incerti i motivi del suo gesto
Nel caso dell'attentato compiuto da Luigi Preiti davanti a palazzo Chigi da Luigi Preiti al momento dell'insediamento del governo Letta, nell'immediatezza dei fatti molte testate riportarono la notizia che a sparare era stato un 'folle'. Ma questa motivazione del gesto di Preiti risulterà infondata già dopo poche ore e poi anche a distanza di tempo. Non gli era mai stata diagnosticata alcuna patologia psichiatrica. Però anche quando viene meno la motivazione 'psichiatrica', nei titoli continua lo stereotipo che associa questo tipo di gesti violenti ai disturbi psichici.
“Non è un folle, gesto inspiegabile”
Increduli moglie e fratello dello sparatore di Palazzo Chigi. Abitano nell’Alessandrino, a Predosa, dove Preiti ha vissuto fino a due anni fa. “Mai avuto problemi psichici”. Era tornato in Calabria dopo la separazione e la perdita del lavoro
(sito internet, 28 aprile 2013)
A detta dei parenti «non è uno squilibrato, non ha mai sofferto di patologia psichiatriche». È quanto assicura Arcangelo Preiti, il fratello dell’uomo che questa mattina, durante la cerimonia di giumento del governo Letta ha sparato davanti a Palazzo Chigi - sede della presidenza del Consiglio - colpendo due carabinieri. «Siamo allibiti, non sappiamo spiegarci quel che è potuto accadere. Mio fratello non è né squilibrato né terrorista - spiega ancora Arcangelo - e si stanno raccontando tante cose non vere. Io non sento mio fratello da agosto, ma lui è sempre stata una persona normalissima. Non so cosa gli sia successo, chiediamo scusa alla cittadinanza e alle famiglie dei carabinieri. I miei genitori quando li ho chiamati - aggiunge - non sapevano ancora nulla, sono rimasti sconvolti e non sanno come spiegarsi una cosa del genere. Siamo sconvolti tutti quanti non sappiamo perché è successo, si era separato dalla moglie 3 anni fa e lavorava e viveva qui in Piemonte, poi ha perso anche il lavoro e viveva con i miei giù in Calabria - aggiunge - Non so come si sia procurato la pistola». «Spero che stia bene - dice ancora il fratello dell’uomo - soprattutto per i miei genitori che sono anche anziani, abbiamo già tanti problemi, ci mancava anche questo. Siamo dispiaciuti per questi carabinieri e chiediamo scusa ai parenti - prosegue Arcangelo Preiti – L’ho visto l’ultima volta ad agosto dell’anno scorso, quando sono andato in ferie, non ho notato nulla di strano in lui». Luigi Preiti, nato nel 1964 in Calabria, si era trasferito negli anni Novanta ad Alessandria, ma era tornato a vivere a Rosarno, in Calabria, con i genitori circa due anni fa. Dopo essersi trasferito in Piemonte, Preiti si era sposato e la coppia ha avuto un figlio, che ora ha dieci anni. Due anni e mezzo fa Preiti si era separato dalla moglie ed ha scelto di tornare al paese, con i genitori; la moglie ed il figlio sono rimasti in Piemonte e vivono a Predosa (Alessandria). I problemi economici sarebbero stati alla base della separazione dalla moglie. Preiti, che è un muratore, aveva deciso due anni fa di lasciare il Piemonte non solo in seguito alla separazione dalla moglie, ma anche a causa della perdita del lavoro, conseguenza della crisi che ha colpito l’edilizia. A Rosarno l’uomo aveva trovato solo occupazione saltuaria e faceva solo dei lavori in proprio. «Sono sconvolta, non riesco ancora a credere che lo abbia fatta» ha detto l’ex moglie, Ivana, commentando l’episodio. La donna non ha più avuto contatti con l’ex marito da diversi mesi. L’ultima volta che Luigi Preiti era stato a Predosa e l’aveva incontrata è stato lo scorso anno per la Prima Comunione del figlio, che ha 11 anni.
Preiti, perizia choc: «Sparò ai carabinieri ma non è un pazzo»
(edizione online di un quotidiano nazionale, 8 dicembre 2013)
ROMA - Capace di intendere e di volere, in cerca di un palcoscenico, consumatore di cocaina e assuntore di alcol, frequentatore assiduo di “seratine” con amici. Chi sia veramente Luigi Preiti, l’attentatore di Palazzo Chigi, l’uomo che con una Beretta 7,65 ha sparato sei colpi contro tre carabinieri, nel giorno del giuramento del governo Letta, forse non si saprà mai. Però quanto emerge dalla perizia psichiatrica disposta dal gup Filippo Steidl, lo scorso ottobre, sembra tracciare un quadro molto diverso da quello che questo cinquantenne di Rosarno, ha cercato di dare ai pm Pierfilippo Laviani e Antonella Nespola. «Volevo fare un gesto eclatante - si era giustificato - Volevo colpire i politici. Sono disoccupato, ho una figlia, e mi vergognavo perché non potevo offrirle niente di buono». CAPACE DI INTENDERE Puntando alla non processabilità, durante l’udienza preliminare i suoi difensori hanno chiesto di verificare il suo stato mentale e il giudice ha dato l’incarico allo psichiatra Piero Rocchini. Il risultato fa emergere un Preiti diverso e riporta a galla aspetti rimasti sempre misteriosi in questa vicenda: chi gli ha dato l’arma con la matricola abrasa? C’è un disegno dietro il suo gesto? Di certo c’è che «al momento del fatto - scrive il medico nelle sue conclusioni - l’imputato presentava un modesto disturbo depressivo. Tali componenti non avevano rilevanza psichiatrica forense e dunque per le loro caratteristiche e intensità non incidevano in modo significativo sulla sua capacità di intendere e di volere. Non vi è nulla che possa far dubitare della sua piena capacità di intendere e volere al momento dei fatti». Preiti cosciente, dunque, mentre impugnava la Beretta e faceva fuoco contro tre carabinieri. Non avrebbe, poi, avuto alcuna intenzione di suicidarsi. Rocchini sottolinea: «La spinta suicidaria sembra essersi fermata a livello di pensiero senza alcun reale tentativo di messa in pratica. L’uomo mostra caratteristiche di personalità con larvata costante conflittualità nei confronti dell’ambiente (soprattutto “classe politica”, “Stato” e i suoi rappresentanti). Anziché un autentico desiderio di morte, si rileva una “aggressiva ricerca” di riconoscimento pubblico, con l’immaturo desiderio di trasformarsi in una sorta di eroe vendicatore, pubblicamente riconosciuto». ALCOL E DROGA Ci sono, poi, anche altri aspetti che rivelerebbero una personalità diversa da quella che Preiti ha tentato di fornire: abitudine al consumo di alcol e cocaina, fattori che lo predisponevano a passare belle serate. È lui stesso a raccontarlo allo psichiatra: «La cocaina mi faceva parlare, stare bene, pensavo a divertirmi per partecipare al meglio alle mie “seratine”. Anche se la decisione di venire a Roma l’avevo presa prima di prendere la cocaina». Il sospetto nutrito ora dagli investigatori è che qualcuno lo abbia incitato a compiere quel gesto, e lo abbia anche armato. «Pur se in condizioni di difficoltà e frustrazione - sottolinea il perito - egli ha sempre mantenuto dall’arrivo in Calabria un buon funzionamento sociale (breve relazione con una donna del luogo, frequentazione pressoché quotidiana di un circolo di biliardo con partecipazione a una gara, costanti “seratine” con gli amici fino a poco prima della partenza per Roma) e lavorativo». L’imputato sembra non avere «alcun senso di colpa per quanto commesso». «L’aver scritto alle vittime dichiarando di “non avercela con i carabinieri” colpiti - è ancora la conclusione dello psichiatra - soprattutto se affiancato al desiderio espresso (“dovevo fare qualcosa di eclatante, la gente ne doveva parlare”) sembra dare a tutto questo una diversa valorizzazione: la volontà di conquistare e mantenere il centro del palcoscenico. Le lettere inviate a Giangrande (il carabiniere che ha lottato tra la vita e la morte, ndr) appaiono “strumentali”».
Anche al momento della sentenza di primo grado viene ribadito che Preiti era lucido quando ha sparato ai carabinieri.
Spari a Palazzo Chigi, 16 anni a Preiti: «Non volevo uccidere». La figlia di Giangrande: «Siamo soddisfatti»
(edizione online di un quotidiano nazionale, 21 gennaio 2014)
Luigi Preiti condannato a 16 anni per la sparatoria di Palazzo Chigi. Luigi Preiti, che il 28 aprile dello scorso anno davanti a Palazzo Chigi, mentre era in corso l'insediamento del governo di Enrico Letta, sparò contro alcuni carabinieri ferendone quattro, uno in modo particolarmente grave, il brigadiere Giangrande, è stato dunque condannato a 16 anni di reclusione. La sentenza è stata emessa dal giudice Filippo Steidl...
La sentenza è stata emessa dopo due ore di camera di consiglio al termine di un procedimento tenutosi con il rito abbreviato, che consente all'imputato di ottenere lo sconto di un terzo della pena. I difensori di Preiti, Raimondo Paparatti e Mauro D'Anielli, avevano invocato il riconoscimento del vizio parziale di mente, ma il gup ha fatto sue le conclusioni di una perizia da lui disposta secondo la quale l'imputato, al momento del fatto, era lucido.
Spari a Palazzo Chigi: "Preiti progettò attentato e mirò a persone"
I carabinieri non sono stati colpiti in un eccesso d'ira
(agenzia di stampa nazionale, 11 marzo 2014)
Luigi Preiti aveva "progettato l'attentato contro le istituzioni, tanto da rappresentare falsamente al datore di lavoro, per farsi prestare del denaro, di doversi recare nel Nord Italia dal figlio rimasto vittima di un incidente stradale". Il particolare è riportato in un passo delle motivazioni della sentenza con cui il giudice Filippo Steidl ha condannato per tentato omicidio plurimo aggravato, detenzione e porto abusivo d'arma, ricettazione, Luigi Preiti a sedici anni di reclusione per aver sparato il 28 aprile 2013 davanti Palazzo Chigi ferendo tre carabinieri. "L'aggravante della premeditazione - ha spiegato il gup - non viene certo meno per il fatto che il Preiti avesse inizialmente progettato di sparare a dei politici in occasione dell'insediamento del governo in piazza Colonna ed abbia poi rivolto l'azione aggressiva contro i carabinieri - ha proseguito il magistrato -. Questi ultimi, infatti, non sono stati certo impulsivamente attinti, in un eccesso d'ira, essendo, al contrario, presenze scontate dinanzi alle importanti sedi istituzionali prese di mira e dunque giocoforza contemplati anch'essi, sin dall'inizio dell'ideazione, come bersagli ineludibili dell'azione offensiva". Per il giudice Steidi, "la dinamica della condotta" di Luigi Preiti "mette in luce come lo stesso, contrariamente a quanto dichiarato, non abbia affatto 'sparato alla cieca' nel gruppo di carabinieri, ma abbia invece mirato specificamente alle singole persone". Secondo il gup "nessun dubbio sussiste, quindi, circa l'idoneità e l'univoca direzione dei colpi a cagionare la morte" dei carabinieri. Tutte le emergenze esprimono quindi la piena intenzionalità del Preiti, non semplicemente di 'colpire' quanto piuttosto di uccidere i militari presenti in piazza. Tutti i colpi esplosi dal Preiti sono inequivocabilmente idonei ed univocamente diretti a procurare la morte dei carabinieri Giuseppe Giangrande, Francesco Negri, Delio Marco Murrighile e Lorenzo Di Marco". E quindi il magistrato ha scritto ancora: "Quanto al Giangrande la finalità omicidiaria espressa dalla condotta è quantomai evidente, avendo il Preiti sparato al capo del militare da brevissima distanza, attingendogli il collo e dunque un distretto chiaramente vitale. Ma non diverse sono le conclusioni per quanto concerne le altre tre vittime".
Ma l'elenco dei titoli sul cliché del "folle che spara" è infinito. Ecco alcuni esempi:
Nel primo sebbene il titolo dica che a sparare sia stato un folle, leggendo la breve notizia si apprende che l'uomo, che si è suicidato, non è stato ancora identificato e dunque non si può sapere se soffrisse di disturbi mentali diagnosticati.
Usa. Folle spara in centro commerciale in Oregon poi si uccide
(video agenzia di notizie internazionale, 12 dicembre 2012)
A Portland, nell’Oregon, Stati Uniti, un uomo ha aperto il fuoco in un centro commerciale. Due persone sono morte sul colpo. L’omicida si è poi suicidato, stando al resoconto delle forze dell’ordine che affermano di non aver esploso un solo colpo nel centro commerciale affolato per gli acquisti di Natale. Il killer, che indossava un giubbotto antiproiettile ed una maschera da hockey, non è ancora stato identificato.
Anche nel secondo episodio, se il titolo attribuisce la qualifica di 'folle', il testo della notizia afferma che la perizia psichiatrica deve essere ancora effettuata.
Folle spara sui carabinieri
e' accaduto ieri a Casletto di Rogeno: Boaretto Daniele 23 anni colto da raptus di follia e' stato arrestato poco dopo per resistenza a pubblico ufficiale
(quotidiano nazionale, 1993)
Ore di terrore a Casletto di Rogeno, nel Comasco, dove un giovane, Daniele Boaretto, di 23 anni, in un raptus di follia, ha sequestrato i genitori e, asserragliato in casa, ha minacciato di ucciderli. La zona e' stata isolata dai carabinieri. Uno dei militari si e' fatto avanti per convincere Boaretto ad arrendersi, ma il giovane ha sparato cinque colpi andati a vuoto. Subito dopo i carabinieri hanno lanciato dei lacrimogeni dentro l' abitazione, fatto irruzione e catturato il folle. Il giovane e' stato portato in carcere con l' accusa di resistenza aggravata dall' uso delle armi. Sara' sottoposto a perizia psichiatrica.
In questo esempio vediamo che un episodio di gravissima violenza contro le donne e di abuso di alcol viene spiegato come un 'raptus di follia'. Ancora una volta il titolo dice una cosa diversa rispetto all'articolo.
Raptus di follia, getta la compagna dal balcone di casa: grave 29enne
(sito internet, 2014)
In preda ad un raptus di follia, dovuto forse alla gelosia mista all’alcool, ha scaraventato dal balcone la sua compagna, una rumena 29enne. La donna è stata ritrovata in una pozza di sangue questa mattina poco dopo le 3 in via Fiordelisi a Sirignano comune della provincia di Avellino al confine con il nolano. Immediati sono scattati i soccorsi e il trasporto al vicino pronto soccorso della clinica Villa Maria. La 29enne versa in gravissime condizioni per le ferite riportate nella caduta. I miliari della Compagnia di Baiano avrebbero sottoposto a ferma il compagno della donna.
Infine, sul tema genio e follia:
Quei pazzi di Van Gogh e Dalì la scienza spiega la follia dei geni
Un gigantesco studio del Karolinska Instituet di Stoccolma ha coinvolto 1,2 milioni di pazienti. Il legame fra creatività e disturbi mentali è stato sveltato con nitidezza, specie in scrittori e pittori
(sito internet di un quotidiano nazionale, 19 ottobre 2012)
Non esiste genio senza una vena di follia ". Se ne era accorto Seneca. Per Aristotele "gli uomini eccezionali in filosofia, politica, poesia o arte" hanno un eccesso di bile nera che li rende malinconici. Un legame fra squilibrio mentale e talento era addirittura inconcepibile secondo Lombroso. Salvador Dalì però non era d'accordo. "L'unica differenza - diceva con gli occhi allucinati e i baffi come due aghi verso il cielo - fra me e un matto è che io non sono matto". Il fascino del rapporto fra genio e follia nel frattempo ha contagiato anche le neuroscienze.... Nello studio più esteso mai condotto sull'argomento, il legame fra creatività e malattia mentale è apparso in tutta la sua nitidezza. I più colpiti dal "mal di genio" sono gli scrittori.... Una volta accertato un legame fra arte, scienza e mestieri creativi da un lato e malattia mentale dall'altro, resta ancora da capirne il perché. Studi precedenti, al Karolinska come in altri istituti del mondo, avevano già cercato di scrutare all'interno del rapporto fra creatività e follia. Una delle teorie più gettonate è che il cervello di artisti e scienziati non abbia un filtro efficiente con la realtà esterna. Tutti gli stimoli provenienti dal mondo vengono riconosciuti come importanti, permettendo all'individuo di stabilire connessioni originali e sorprendenti. Creatività e capacità di pensare fuori dagli schemi vengono però in alcuni casi pagate caro, perché l'incapacità di filtrare gli stimoli è considerata una fra le possibili cause delle psicosi ed è stata osservata nelle fasi iniziali della schizofrenia, in cui a volte si affacciano pensieri mistici ed esperienze religiose In termini di evoluzione, la ma-lattia mentale può essere considerata come un prezzo da pagare in cambio di una grande originalità di pensiero... In ogni caso Simon Kyaga, il giovane ricercatore del Karolinska che ha condotto lo studio e sembra deciso a sbrogliare la matassa, è convinto che "In psichiatria, e in medicina in generale, si è abituati a considerare una patologia in termini di bianco o nero. Se imparassimo a riconoscere che alcuni aspetti della malattia mentale possono essere benefici, potremmo escogitare nuove tecniche per trattarla".
E' frequente l'uso di termini riferiti ai disturbi mentali in ambiti diversi. Nell'esempio seguente si tratta di una dichiarazione politica che ben evidenzia qual è l'immagine negativa di violenza e pericolosità sociale ancora legata alla parola 'pazzo'.
Berlusconi: «Grillo è un pazzo, lo votano i disperati»
«È un pericolo assoluto per il nostro Paese. Sanguinario come Stalin e Pol Pot»
(edizione online di un quotidiano nazionale,18 maggio 2014)
Un ultimo esempio in cui il titolo assicura che è stato un folle/squilibrato a compiere un efferato crimine che ha per vittime dei bambini, ma nell'articolo c'è scritto che non si sa chi sia l'autore, ancora non identificato, quindi non c'è alcuna certezza che si tratti di una persona con una diagnosi psichiatrica. Da questo pezzo è evidente l'uso discriminatorio e simbolico delle parole 'folle' e 'squilibrato' sui media.
Follia a New York Accoltella due bimbi in un ascensore Muore il più piccolo
Poi lo squilibrato è fuggito
(titolo in homepage di un quotidiano nazionale, 2 giugno 2014)
NEW YORK - Un folle è entrato in ascensore con un coltello da macellaio e ha aggredito due bambini di 6 e 7 anni, colpendo a morte il più piccolo. E' accaduto a Brooklyn. L'uomo si è dato alla fuga mentre la bambina più grande, rimasta ferita, è stata portata in ospedale e dopo un intervento chirurgico è fuori pericolo. L'identikit del sospetto. Il sospetto sarebbe di corporatura robusta, avrebbe tra i venti e i trent'anni, ma, a quanto pare, non sarebbe parente delle vittime. L'allarme è stato lanciato intorno alle diciotto di oggi, ora locale. Il piccolo ucciso, Prince Joshua Avitto, è morto dopo una coltellata al petto. Inutile per lui la corsa in ospedale. L'aggressore, secondo quanto hanno riferito alcuni testimoni, sarebbe fuggito a piedi e avrebbe buttato l'arma, un coltello, a quanto pare già ritrovato. La polizia, che sta visionando i filmati delle telecamere di sorveglianza, ipotizza si tratti dello stesso uomo che venerdì ha accoltellato a morte una studentessa universitaria. [...]