Attorno alla parola "depressione" o "depresso" ruota un doppio stigma, quello dell'incurabilità/inguaribilità e quello della pericolosità sociale, come si può ben vedere dagli articoli riportati in seguito come esempi.
In realtà la depressione è un disturbo che risponde bene ai farmaci e alla psicoterapia, le cure però necessitano un trattamento prolungato nel tempo.
Qui in basso riportiamo la lettera di una persona che è riuscita a curare la depressione, scritta al direttore del Tg2 dopo un servizio su una strage familiare, (il caso è riportato nella sezione degli esempi) il cui autore era stato identificato come un "depresso".
La riportiamo integralmente perchè spiega benissimo i rischi di stigma derivanti dal binomio depressione-pericolosità sociale e allo stesso tempo evidenzia il fatto che una persona con una diagnosi di depressione può vivere una vita normale, perfettamente inserita nel contesto sociale.
"Perché patologizzare l’esistenza di Caino? - si chiede Massimo Cirri, psicologo e giornalista - Caino esiste, il male c’è. Quando il male sembra tracimare, essere sopra, più alto di una sempre mutante percezione sociale, è come se avesse bisogno di essere interpretato e spiegato attraverso lo schema: ma allora questo è folle! Può darsi, ci sono dei folli che sono molto cattivi, però come dice Madia Marangi, anche io sono stata 'folle’ ma non sono mai stata una persona cattiva. Può essere che uno sia folle e cattivo, ma non si può generalizzare. Questo è lo stereotipo, il meccanismo comunicativo peggiore che porta all'associazione: matto=pericoloso. Patologizzare serve a creare distanza, a dire: a noi non può succedere" Cirri spiega la lettera che riportiamo qui di seguito. "Perché dici che è un depresso che ha ucciso la famiglia e non che è un medico, un ragioniere, un cinquantenne, (utilizzando nei titoli altre caratteristiche non stigmatizzanti, ndr.) - continua il giornalista di Radio 2 - Anche io sono depresso, dice Madia Marangi, ma non ho mai pensato di uccidere nessuno e quindi perché devo essere accomunata a un gesto crudele? Nel lavoro giornalistico non bisogna andare per automatismi che riproducono lo stereotipo, seppur nella necessità della concisione dei titoli ".
La lettera di Madia Marangi
Circa tre anni fa, a Taranto, un medico che soffriva da tempo di una patologia psichiatrica ha ucciso a martellate la moglie e le due figlie. La notizia ha avuto una eco nazionale, tutti i giornali hanno sottolineato il legame tra patologia e omicidio. Anche il TG2 ha mandato in onda un servizio in cui, tra l'altro, un medico rimarcava "l'imprevedibilità" delle persone depresse.
Dalla visione di quel servizio è nata questa mia lettera di sfogo:
Caro Direttore, ho appena rivisto sul vostro sito il servizio mandato in onda ieri sulla strage di Taranto e, così come è successo ieri, ho provato una strana sensazione, un misto di indignazione e frustrazione.
Dal 1992 soffro di una forma di depressione bipolare (sindrome maniaco depressiva) e nel 1994, dopo due anni in cui per ignoranza e disinformazione non ho potuto essere curata nel modo giusto, ho cominciato un percorso di ripresa e di "riabilitazione sociale" all'interno del Centro di Salute Mentale (CSM) di Martina Franca (TA).
Dal momento in cui mi è stata fatta una diagnosi precisa su quello che è il mio disturbo, ho cominciato a seguire una cura farmacologica e ad utilizzare tutti gli "strumenti" che mi sono stati messi a disposizione dal CSM della mia città per riprendere in mano le redini della mia vita.
Al momento della mia presa in carico, avevo interrotto gli studi (mi mancava un esame per conseguire il diploma di pianoforte): dopo 3 anni mi sono diplomata, dopo qualche mese dal conseguimento del diploma ho cominciato a lavorare in un'azienda che si occupava della trascrizione di libri per non vedenti, nel 2001, sfruttando il mio diploma di ragioniera, sono
stata assunta come segretaria in un'azienda di telemarketing e dal febbraio del 2006, dopo aver deciso di chiedere l'invalidità (60%) e l'iscrizione nelle liste speciali con la legge 68, sono stata assunta in una nota azienda di confezioni di Martina Franca.
Le ho indicato brevemente le tappe più evidenti della mia "ripresa sociale": tutto il tormento, la fatica, le paure che mi hanno accompagnato in questi anni di duro lavoro su me stessa per potermi sentire finalmente in diritto di vivere una vita dignitosa, quelli sono molto più difficili da riassumere.
Dal 1997 faccio parte di un'associazione di utenti (ASS. Onlus Il Gabbiano), nata all'interno del CSM di Martina Franca, che si occupa della diffusione dei gruppi di auto-muto-aiuto in ambito psichiatrico e spesso, quando sono stata invitata a parlare della mia esperienza, ho affermato di essere una persona fortunata. Fortunata perché nel 1992, quando mi sono ammalata, i manicomi erano già chiusi (sicuramente per come stavo, mi ci avrebbero rinchiusa); fortunata per essere nata in una città dove gli operatori del CSM hanno combattuto e continuano a
combattere per mettere a disposizione degli utenti tutti quegli strumenti che la legge 180 prevede e che, troppo spesso, le scelte politiche dei nostri amministratori non permettono di attuare; fortunata per aver incontrato sulla mia strada "persone" capaci di mettersi in discussione e non “operatori” chiusi nel loro ruolo di meri dispensatori di farmaci.
Per quella che è la mia esperienza diretta i servizi territoriali sono una risorsa indispensabile per la cura e la riabilitazione delle persone che hanno disturbi psichici ma, tornando a quella "strana sensazione" di cui le parlavo all'inizio, la disinformazione e la conseguente scarsa conoscenza di quelli che possono essere i percorsi di ripresa creano, attorno a queste strutture e nei
confronti di queste malattie, un clima di paura e di forte pregiudizio.
L’affermazione fatta da un medico nel servizio che avete mandato in onda all’indomani della strage di Taranto, sull’imprevedibilità di un gesto estremo che può essere compiuto da una persona depressa mi ha fatto molto riflettere su quelle che potevano essere le reazioni di chi ascoltava e, le giuro, le conclusioni che ne ho tratto mi hanno molto allarmata.
Cosa ha potuto insinuare nella mente di chi non ha mai avuto in famiglia casi di depressione?
In chi invece è un parente prossimo di una persona malata? o, ancor peggio in un giovane intorno ai vent’anni (età di esordio nella maggior parte dei casi di depressione maggiore) che avverte i primi segni del disagio?
Ho provato ad immaginare le possibili reazioni basandomi su quelle che sono state le esperienze dirette fatte in questi quattordici anni, ormai, di malattia.
Il cosiddetto “uomo comune” avrà magari concluso che è stato un errore chiudere i manicomi, interpretando quella “imprevedibilità” di cui sopra come pericolosità sociale e vedendo nell’isolamento l’unica difesa contro un’ipotetica minaccia alla propria incolumità.
In quei familiari che non hanno la fortuna di essere supportati da un CSM che funzioni con centro diurno annesso e laboratori di riabilitazione, gruppi di auto mutuo aiuto per familiari e utenti, visite domiciliari, gruppi appartamento e case alloggio (strutture previste dalla legge 180 e nella maggior parte dei casi mai attuati), sarà cresciuta la diffidenza e la paura nei confronti del proprio caro, alimentando quel clima di tensione che cresce all’interno di un nucleo familiare quando la mancanza di mediazione tra malato e famiglia porta ad una totale assenza di comunicazione e solo in alcuni casi (statisticamente non sono poi così frequenti) a tragedie come quella di Taranto.
Sicuramente mi è stato più semplice immedesimarmi in un giovane ventenne che avverte i primi sintomi del disagio, è un’esperienza che ho vissuto direttamente e che, le assicuro, difficilmente si dimentica. Il meccanismo che scatta è molto spesso quello della negazione del proprio stato: no, io non sono malato, mi fa’ orrore pensare che io potrei perdere il controllo e arrivare ad uccidermi o ad uccidere, per cui… non è vero che sto male e quindi non ho bisogno di nessun aiuto.
Comincia così il calvario di molti ragazzi che arrivano ad essere presi in carico dopo anni dall’esordio del proprio disturbo e che, in molti casi, a causa di questo “vuoto” nella cura perdono per sempre la possibilità di riprendersi.
Qualche anno fa’ in un convegno sul rapporto tra stigma e mass media, un suo collega della carta stampata, di fronte all’osservazione che i mezzi d’informazione tendono a dare risalto solo ai casi come quelli di Taranto alimentando così il pregiudizio, ci rispose accusandoci di non fare notizia.
Caro direttore, noi, e con noi intendo tutti quelli che hanno preso coscienza del proprio stato e lottano soprattutto con se stessi per migliorare la propria qualità della vita convivendo con la depressione, sicuramente non facciamo notizia ma, le assicuro cominciamo ad essere coscienti di essere persone come tutte le altre che lavorano, amano e sanno scegliere, consapevoli di quelli che sono i nostri diritti.
Ho deciso di scriverle perché io, agli occhi di molti una “macchia umana”, ho avuto la fortuna di vivere il mio disagio in una di quelle poche “macchie di leopardo” presenti in Italia, in cui la legge 180 è stata applicata e le chiedo, a titolo personale, non come componente dell’Associazione di cui sono presidente, di accogliere la sfida di raccontare, possibilmente in questo periodo di campagna elettorale e in prima serata, le storie di chi non fa’ notizia, ma che, dal 1978, a riacquisito la dignità di persona.
Sarebbe interessante conoscere le posizioni dei vari partiti sull’assistenza psichiatrica perché anche noi, sa, siamo cittadini e potremmo decidere di votare anche in base a quello che i politici programmano in questo settore. Stiamo vivendo nel nostro CSM un periodo molto delicato che potrebbe portare all’interruzione dell’erogazione dei servizi forniti dall’Associazione di familiari che gestisce il centro diurno a causa delle controversie con la AUSL, e ai continui problemi
causati alle cooperative sociali che operano nel settore psichiatrico dovuti al mancato adeguamento dei costi del lavoro nelle convenzioni sempre con la AUSL.
Ho sempre pensato che la testimonianza sia lo strumento più efficace per cambiare la cultura sul disagio mentale, la testimonianza diretta di chi vive giorno per giorno le difficoltà legate all’accettazione del proprio disagio, dell’utilizzazione dei farmaci (in minima parte antidepressivi sui quali in questo periodo c’è tanta discussione) a vita e del confronto continuo con chi ci guarda troppo spesso con diffidenza.
Il giorno in cui è stato mandato in onda il servizio in questione nel TG delle 13,00, subito dopo sono tornata come tutti i giorni a lavoro e ho incrociato lo sguardo di una mia collega a cui da tempo ho confidato di essere depressa. Mi è sembrato di avvertire nei suoi occhi una preoccupazione che non avevo mai visto, mi sono chiesta se anche lei aveva
visto il Vostro servizio e se magari anche lei cominciasse ad avere timore della mia imprevedibilità…. Non ho avuto il coraggio di chiederglielo.
Madia Marangi
Presidente Associazione Il Gabbiano - Martina Franca
Roma, 15enne uccide i genitori poi dice a un agente: "Sparami"
Il duplice omicidio in un appartamento di via Filippo Turati il giovane si è rifugiato sul terrazzo condominiale con una calibro 22
Roma, 15enne uccide i genitori poi dice a un agente: "Sparami" La polizia è riuscita a raggiungerlo dopo una paziente trattativa Il giovane, che ha due fratelli più piccoli, soffre di depressione
(edizione online di un quotidiano nazionale,18 ottobre 2005)
ROMA - Uccide il padre e la madre, si rifugia sulla terrazza condominiale, con in pugno una calibro 22, ma dopo una lunga trattativa con un agente, si "arrende". Prima, però, gli dice: "Sono una feccia, ho ucciso i miei genitori, sparami". Un pomeriggio drammatico, a Roma, in via Filippo Turati 155, nel quartiere Esquilino. Autore del gesto, un ragazzo di quindici anni, affetto da depressione. Paura nella strada della capitale, chiusa al traffico e ai pedoni, dove i vigili del fuoco avevano allestito un tendone nel timore che il giovane potesse gettarsi o cadere nel vuoto. Le vittime sono Enrico Gavuzzo, di 62 anni, ricercatore presso il Cnr, e Sybille Nergeril, 46 anni, restauratrice, originaria di Amburgo. L'uomo aveva in casa altre due pistole sportive e due fucili, regolarmente denunciati. La richiesta di aiuto. Il dramma è iniziato intorno alle 16.30. Il 118 ha ricevuto una chiamata del signor Gavuzzo: "Aiuto, mio figlio mi ha sparato, sono ferito". L'operatore - che ha sùbito chiamato la polizia - ha detto di aver sentito alcuni colpi di pistola mentre l'uomo chiedeva soccorso. Una donna che vive nel palazzo di fronte, ha raccontato di aver visto la madre del ragazzo uscire sul balcone, come nel tentativo di voler sfuggire a qualcosa, ed essere di nuovo "trascinata" dentro l'appartamento. Quando gli agenti sono giunti sul posto, hanno trovato i coniugi senza vita. L'uomo, all'ingresso, raggiunto da un colpo al torace e uno alla schiena, la donna in cucina, tre proiettili al collo. Salvi gli altri due figli della coppia, di 6 e 12 anni: al momento della tragedia erano a scuola. L'operazione. Il ragazzo, pistola alla mano, è fuggito sulla terrazza condominiale, rannicchiandosi in un angolo. Lì lo ha raggiunto - in borghese, pizzetto e orecchino al lobo - Andrea Cirillo, 31 anni, da dodici in polizia, vice sovraintendente del commissariato Esquilino. Un confronto drammatico: "Sono una feccia - gli ha detto il ragazzo - ho ucciso i miei genitori. Sparami". "Non è vero - ha risposto l'agente - li hai solo feriti, fidati di me". Poi, ha mostrato al giovane la sua pistola, e l'ha riposta nella fondina: "Vedi, ce l'ho anch'io, ma la metto via. Ora, tu devi darmi la tua, così possiamo parlare". Alla fine, il ragazzino si è convinto. Cirillo gli ha preso l'arma, "l'ha trattenuta solo per un istante - ha raccontato - poi me l'ha ceduta". Il ragazzo non ha mai rivolto la pistola verso l'agente o verso di sé, né ha mai mostrato l'intenzione di scavalcare la balaustra della terrazza. La famiglia. Enrico Gavuzzo era l'amministratore di condominio dello stabile nel quale i coniugi risiedevano, e dove erano proprietari di alcuni appartamenti. La moglie, una signora bionda, minuta, distinta, si vedeva spesso nel quartiere e, tutti i giorni, accompagnava a scuola i due figli più piccoli. "Brava gente - dice un cittadino bengalese che abita al piano di sotto - qualche volta mi hanno regalato dei vestiti per i miei bambini". Il quindicenne usciva poco, e non frequentava regolarmente le lezioni. Attualmente era in cura presso il Centro di salute mentale.
PISA: LEI SOFFRIVA DI DEPRESSIONE Massacra con l’ ascia figlio e marito malato
Poi si uccide col gas
(quotidiano nazionale, 31 agosto 1999)
DAL NOSTRO INVIATO CASCINA (Pisa) - Ha ucciso con un' ascia il marito e il figlio e poi si e' tolta la vita con il gas. La tragedia si e' svolta, nella notte tra domenica e lunedi' , a Cascina, una ricca cittadina alle porte di Pisa nota per l' industria del mobile. L' autrice del duplice omicidio, Maria Battaglia, di 64 anni, e' uscita di casa verso le due, ha preso l' attrezzo dalla legnaia, e' entrata nella camera dove dormiva il figlio Paolo di 38 anni e lo ha massacrato con sei colpi. Allo stesso modo ha ucciso il marito Nazareno Lucchesi, sessantanovenne, affetto dal morbo di Alzheimer, che giaceva sul letto matrimoniale. Compiuto il duplice delitto, si e' prima lavata i piedi sporchi di sangue, poi ha reciso con un coltello il tubo del gas collegato a una bombola, se l' e' infilato in bocca e cosi' ha atteso la morte. "E' stata una tragedia annunciata - commenta una vicina di casa delle tre vittime -. Maria lo aveva detto: "E' meglio che ci leviamo dal mondo tutti e tre". La donna soffriva da tempo di una forte depressione, causata certamente dalla malattia del marito. Per un anno era stata in cura in "day hospital" a Pisa e pur avendo avuto una ricaduta, non voleva tornare nel capoluogo. [...]
I parenti di Maria Battaglia non riescono a dare una spiegazione a questa tragedia anche se erano al corrente della malattia della donna. Ma non immaginavano che sarebbe arrivata al punto di uccidere marito e figlio, ai quali era molto legata, per poi togliersi la vita. La sera prima un vicino li aveva visti sul terrazzo di casa che cenavano insieme alla fidanzata di Paolo e a due cugini. "Mi sembrava tutto normale, li sentivo scherzare", ha raccontato. Poche ore dopo e' scoppiata la tragedia. La mente di Maria non ha retto piu' al lungo calvario. Nazareno, un abile falegname, era stato costretto a lasciare il lavoro quando l' Alzheimer, manifestatosi quindici anni fa, si era aggravato. Con i risparmi era riuscito ad acquistare la villetta a due piani col grande terrazzo, tra campi coltivati e fabbriche di mobili. Vivevano tutti al primo piano. E per Paolo, che lavorava come idraulico, una volta sposato, c' era gia' in progetto il trasferimento al piano terreno.
Medico massacra a martellate la moglie e le figlie e si uccide
(quotidiano locale,11 marzo 2008)
TARANTO. Ha sterminato la famiglia a martellate, ha avvisato i colleghi della moglie e si è ucciso: Enrico Brandimarte, 48 anni, chirurgo, ha compiuto una strage che ha choccato tutta l’Italia. Il medico soffriva di depressione e i vicini sentivano spesso liti. Per prime avrebbe ucciso le figlie di 14 e 11 anni, poi ha trascinato i corpi nella camera da letto coniugale dove ha legato con una corda la moglie per uccidere anche lei a martellate.