Femminicidio
Femminicidio indica la violenza contro le donne in tutte le sue forme miranti ad annientarne la soggettività (sul piano psicologico, simbolico, economico e sociale), che solitamente precede e può condurre al femicidio. Il concetto di femicidio comprende tutte le morti di donne avvenute per ragioni misogine, cioè i casi di donne uccise in quanto donne (inclusi aborti forzati, interventi chirurgici non necessari come l’isterectomia, sperimentazioni sui loro corpi, pratiche sociali patriarcali come le mutilazioni genitali…)[1].
Si tratta oggi di categorie politiche e giuridiche accreditate internazionalmente, utilizzate dalla criminologia accademica e da organismi come le Nazioni Unite, l’Unione Europea, il Consiglio Europeo.
Femicidio deriva dall’inglese femicide, attraverso un’evoluzione che èiniziata a partire dagli anni Settanta del ’900 in seno ai movimenti femministi statunitensi (ma il termine era già in uso in inglese fino dall’800). Negli anni ’90 il concetto è andato precisandosi e diffondendosi, nel mondo anglosassone, soprattutto grazie alla voce della criminologa Diane Russel. In tempi più recenti l’uso si è esteso fino a indicare tutte le situazioni in cui le donne vivono in uno stato di oppressione e sotto la continua minaccia di essere uccise.
Il termine femminicidio ha cominciato invece a diffondersi nelle cronache internazionali negli anni ’90 in riferimento ai fatti di Ciudad Juarez, città al confine tra Messico e Stati Uniti, dove dal 1992 sono scomparse più di 4.500 giovani donne, e 650 sono state stuprate, torturate, uccise e abbandonate ai margini del deserto. Le donne messicane – attiviste femministe, accademiche, giornaliste – hanno condotto una battaglia a tutto campo e sostenuto la candidatura dell’antropologa Marcela Lagarde, teorica del femminicidio, al Parlamento. Lagarde ha fatto costituire e presieduto una Commissione Speciale parlamentare che ha raccolto dati, mappato il fenomeno e le normative, e infine fatto approvare una legge sulla violenza di genere che introduce il reato di femminicidio.
Altri Stati sudamericani hanno seguito l’esempio messicano e cominciato a impiegare questo neologismo per nominare gli omicidi con movente di genere.
Ma il tema è lungi dal riguardare solo il Sud America. Il Comitato per l’attuazione della CEDAW (la Convenzione ONU per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne) nelle Raccomandazioni all’Italia del 2011 si è detto “preoccupato per l’elevato numero di donne uccise da partner ed ex partner (femminicidi), che può indicare un fallimento delle autorità dello Stato nel proteggere adeguatamente le donne vittime dei loro partner o ex partner”. Si tratta della prima volta in cui il Comitato parla di femminicidio in relazione a un paese non latinoamericano.
In Italia, femminicidio e femicidio (soprattutto il primo termine) sono entrati nel linguaggio dei media molto di recente, e non senza resistenze. “Il problema di fondo”, scrive la giurista Barbara Spinelli[1], “è che, prima che il termine femminicidio, a livello culturale in Italia si registra una grave difficoltà, sconosciuta ad altri Paesi europei, nel riconoscere la specificità della violenza maschile sulle donne come violenza di genere”. Si consideri che solo nel 1996 la legge italiana ha riconosciuto la violenza sessuale come un reato contro la persona, abrogando la disciplina precedente che la considerava un delitto contro la morale.
La violenza di genere è una violenza sessuata, fisica, psicologica, economica, normativa, sociale e religiosa, che impedisce alla donna di esercitare appieno i diritti umani di libertà, integrità fisica e morale. Nei casi più estremi, è una violenza che arriva fino all’annullamento, all’omicidio.
Secondo la criminologa statunitense Diana Russell, le vittime di questo tipo di violenza scontano il fatto di aver trasgredito al ruolo ideale di donna imposto dalla tradizione – quello della donna obbediente (Madonna) oppure sessualmente disponibile (Eva) - di essersi prese la libertà di decidere cosa fare delle proprie vite. La loro autodeterminazione è punita con la morte dagli uomini che sono loro più vicini – mariti, padri, fratelli.
“L’utilizzo del termine [femminicidio] legato a questi fatti di cronaca”, scrive ancora Spinelli, “è apparso ad alcuni improprio e fuorviante ma può essere utile, sulla base dell’esperienza di altri paesi, per comprendere la portata e l’unitarietà dei fenomeni. Del resto se la prima causa di morte nel mondo per le donne tra i 16 e i 44 anni è l’omicidio da parte di persone conosciute, alla categoria di femminicidio corrisponde un vasto repertorio di tragici fatti”.
Secondo le giornaliste della rete GIULIA (Giornaliste Unite Libere e Autonome), “La mancanza di una corretta comunicazione giornalistica dei fatti di femminicidio non aiuta la società a liberarsi di una piaga dolorosa, anzi, sostiene una cultura che non riconosce piena libertà: che è libertà di vivere come meglio si crede nel rispetto della libertà altrui”[2]. L’adozione del neologismo in questione, viene asserito, è il primo passaggio verso il riconoscimento della pericolosità e gravità sociale della violenza di genere, della sua specificità e della necessità di un ampio intervento sociale e culturale.
Non esiste in Italia una raccolta ufficiale dei dati sugli omicidi che li cataloghi sulla base del genere. Vari sforzi sono stati fatti però dalle organizzazioni della società civile per supplire all’assenza di un Osservatorio sul modello sudamericano, e raccogliere attraverso le cronache il numero si delitti che possono essere catalogati sotto la fattispecie del femicidio.
Tra queste, si segnalano le ricerche annuali su “I femicidi in Italia” della Casa delle Donne di Bologna, secondo cui sono 126 le donne uccise in quanto donne nel 2012, 130 nel 2011, 129 nel 2010[1]. La media è di 114 femicidi ogni anno. Numeri più elevati fornisce invece il rapporto Eures-Ansa, secondo cui tra il 2000 e il 2011 i casi sono stati 1459[2].
Si tratta della prima causa di morte per le donne tra i 16 e i 44 anni.
Gli autori del crimine, secondo la ricerca bolognese, sono quasi sempre persone conosciute alla donna – marito/ex marito, fidanzato/ex fidanzato, figlio, padre… – e sono al 72% italiani, un dato che contraddice il luogo comune per cui i crimini violenti contro le donne sono compiuti in prevalenza da uomini stranieri (etnicizzazione della violenza). Anche le vittime sono per il 78% donne italiane.
In 7-8 casi su 10, inoltre, il femicidio è l’esito di un continuum di violenza fisica, psicologia ed economica, esercitata dentro le mura domestica e nelle relazioni intime.
[1] Casa delle donne per non subire violenza, I femicidi in Italia, 2013.
[2] Eures-Ansa, Il femminicidio in Italia nell’ultimo decennio. Dimensioni, caratteristiche e profili a rischio, 2012.
Grazie alle battaglie delle donne, il termine femminicidio (assai più diffuso di femicidio e utilizzato con lo stesso significato) ha cominciato a farsi strada nella stampa italiana, guadagnandosi posizioni di primo piano, nei titoli. Una nota rivista femminile pubblica per esempio uno speciale sulle uccisioni di donne intitolato:
Tutti contro il femminicidio
(settimanale, 23 maggio 2012)
E un settimanale cattolico:
Il “Femminicidio”, spia di una società senza più anima
(settimanale, 13 maggio 2012)
C’è poi il caso dei servizi che dal punto di vista del linguaggio rappresentano un ibrido tra l’acquisizione di terminologie più appropriate – veicolate dalle mobilitazioni delle donne contro la violenza – e la ricostruzione del fenomeno attraverso gli schemi che ruotano intorno alla narrazione del delitto passionale.
Si veda per esempio lo speciale sulle uccisioni di donne di un magazine femminile:
Donne, la strage che non ha fine
Dall’inizio dell’anno sono già 59 i “femminicidi” in Italia
Alessandra è morta per la folle gelosia del suo compagno, Julissa uccisa dall’ex che non accettava la separazione. E sono solo le ultime vittime
(settimanale, 22 maggio 2012)
Come si vede, all’uso del termine femminicidio, messo tra virgolette ad indicare il neologismo, si affianca un’espressione come folle gelosia. Proseguendo nella lettura dell’articolo, il cappello iniziale sembra tratto dagli appelli del movimento delle donne contro il femminicidio:
Alessandra è la 59° donna assassinata in Italia dall’inizio dell’anno. Un lungo filo rosso di sangue unisce storie diverse e lontane, ma con un denominatore comune: la vittima è donna. Vengono chiamati “femminicidi”, con un termine angosciante che però riconosce il senso di una mattanza.
L’articolo non rifugge però, nel prosieguo, dall’insistenza sulla gelosia come movente (vedi Delitto passionale). Inoltre, mostra un altro tratto comune a molta parte dell’informazione sulla violenza (specialmente sessuale) contro le donne: tra tutti i colpevoli menzionati (mariti, fidanzati, ex, stalker…), quello a cui si dà più visibilità (di lui, e solo di lui, viene inserita anche una foto) è lo straniero.