Per Apartheid si intende il sistema di segregazione territoriale e residenziale su base razzista avviato nel 1948 in Sudafrica[1]. Per Segregazione si intende la separazione spaziale di settori della popolazione cittadina sulla base della loro presunta identità “razziale” o “etnica”. [2] Un esempio di segregazione può essere considerato il campo Rom. La parola ghétto nasce dal nome di una contrada di Venezia, ghèto, così chiamata per la presenza di un ‘getto’, cioè una fonderia, poi appositamente chiusa, assegnata nel 1516 agli Ebrei quale loro residenza. Da allora, in tutta Europa, la parola divenne la denominazione del quartiere cittadino di dimora coattiva degli Ebrei. Per estensione, si dicono ghetti i quartieri in cui sono relegate minoranze etniche o sociali emarginate e ghettizzazione il processo attraverso cui un gruppo sociale dominante costringe in una condizione di isolamento fisico e simbolico, di emarginazione e di inferiorità sociale e culturale un gruppo riconosciuto come diverso da sé, in genere perché appartenente a una minoranza socialmente, etnicamente o razzialmente esclusa dalla comunità di riferimento più ampia. (Treccani)
La parola francese banlieue indica i sobborghi di Parigi e per estensione la periferia di una grande città. Nasce dal latino medievale banleuca, cioè bannum leucae «bando di una lega», che indicava la giurisdizione cittadina sul territorio fino a una lega dalla città e, poi, il territorio stesso. (Treccani). Secondo Castel, in banlieue, il ban è dapprima il territorio situato nelle immediate vicinanze di una città, da questa dipendente e da cui si può intendere il suono della campana. L’arrière-ban è la campagna circostante. "Si potrebbe evocare il bando, quella sensazione terribile delle società preindustriali che condannava all’erranza l’individuo privo di ogni iscrizione territoriale, cioè di ogni protezione e diritto".[3]
[1] Burgio A., Gabrielli G., Il razzismo, Ediesse Roma 2012
[3] Castel R., La discriminazione negativa. Cittadini o indigeni? , Quodlibet Macerata 2008
Nel corso dell’ultimo decennio, si sono verificati nelle grandi capitali europee, come Parigi e Londra, diversi casi di rivolte urbane, veri e propri episodi di guerriglia che hanno portato alla ribalta la questione della discriminazione nell’Europa moderna e civile e della suddivisione degli spazi territoriali e sociali delle metropoli.
Se si analizzano le motivazioni di questi disordini si scopre però una realtà diversa da quella raccontata dai media. Diversi studi hanno dimostrato che alla base delle proteste c’è infatti quella che viene chiamata discriminazione negativa, cioè “una strumentalizzazione dell’alterità costituita in fattore di esclusione”. [1] Scrive Robert Castel: “l’essere discriminati negativamente significa essere assegnati a un destino sulla base di una caratteristica che non si è scelta, ma che gli altri rimettono sotto forma di stigma”. [2] Questo mette in discussione la nozione stessa di cittadinanza.
A tal proposito si è spesso sentito parlare di ‘ghetti’ ma l’uso di questa parola è scorretta nel contesto europeo, dove, anche nelle metropoli e nelle capitali, difficilmente esistono situazioni paragonabili alle composizioni ‘monoetniche’ dei ‘ghetti’ americani. (vedi anche le parole Banglatown e Chinatown). Se consideriamo l’etnia come la condivisione di lingua, storia, religione e cultura comuni da parte di una comunità, allora tutti apparteniamo a un gruppo etnico e si definisce minoranza etnica una comunità minoritaria all’interno di un territorio dove c’è un'etnia maggioritaria. I problemi si presentano quando le minoranze vengono discriminate sulla base dell’appartenenza etnica, come succede con i Rom (vedi), una parte dei quali in Italia vive segregata nei campi.
In Francia, sono soprattutto i “giovani delle banlieue” a essere relegati negli strati inferiori della società, colpiti con più durezza dalla disoccupazione, dalla precarietà, dalla povertà, dalle condizioni di habitat degradate e più esposti alle aggressioni xenofobe e razziste. “Una rappresentazione diffusa di questi ragazzi ne fa il simbolo dell’ inutilità sociale (sarebbero incapaci di integrarsi nell’ordine produttivo) e della pericolosità (li si considera i principali responsabili dell’aumento dell’insicurezza) – scrive ancora Castel - L’interpretazione più probante che si può fornire delle violenze urbane, verificatesi nell’autunno del 2005, consiste nel dire che si è trattato di una rivolta della disperazione”[3]. A Parigi come a Londra nell’agosto 2011, i giovani affrontano le forze dell’ordine, bruciano vetture ed edifici pubblici. A differenza dei rivoluzionari della primavera araba, i rivoltosi europei non hanno leaders riconosciuti, organizzazioni strutturate e soprattutto non hanno rivendicazioni precise. “L’assenza di ogni prospettiva futura testimonia una profonda disperazione” spiega Castel. [4]
Secondo il direttore degli studi dell’ Ecole des hautes Etudes en Science Sociales di Parigi, il loro dramma deriva dal fatto che, propriamente parlando, questi ragazzi non sono né “fuori” né “dentro”: sono respinti ai margini del mondo sociale. Vivono nei grandi complessi abitativi dei sobborghi parigini, nelle città dormitorio edificate come "conigliere". Si tratta di quartieri periferici, definiti con un eufemismo "quartieri sensibili", spazi che rappresentano la sola possibilità abitativa per alcune categorie sociali. Dunque, la questione delle banlieue è universale perché è collocata nel quadro di una ristrutturazione globale dello spazio urbano, secondo un processo di separazione spaziale, che conduce le differenti categorie sociali a vivere ‘fra loro”. Le “zone urbane sensibili” sono quelle in cui si concentrano gli elementi più vulnerabili della popolazione. I media tendono a evidenziare le situazioni più degradate e questo contribuisce a costruire quella visione complessivamente catastrofica della banlieue che diffonde la maggior parte dei media” dice Castel, che parla di “un immaginario miserabilista”.
Su questo, per un’informazione corretta, analizzando il caso francese delle sommosse del 2005 va considerato che la banlieue nel suo insieme non si è mossa, “anche se spesso ha manifestato una certa comprensione nei confronti dei rivoltosi”. La banlieue o la cité non rappresenta per niente una realtà omogenea dal punto di vista sociologico. All’interno di una stessa zona possono coesistere aree sensibili e altre serene in cui si vive positivamente il quartiere. A ribellarsi erano esclusivamente giovani, in maggioranza figli dell’immigrazione. “Non immigrati, propriamente parlando, perché la maggioranza di loro è nata in Francia, ha nazionalità francese, ma comunque è ‘figlia dell’immigrazione’ nel senso che i loro genitori sono stati immigrati – spiega il sociologo parigino - Etnicamente parlando, appartengono a una minoranza rispetto all’insieme della popolazione francese, mentre politicamente parlando sono cittadini francesi”. Quindi è errato descriverli come completamente separati dalla società francese, non vanno considerati degli esclusi confinati in ghetti, né posti in situazione di apartheid, perché condividono pratiche e aspirazioni comuni alla loro classe di età e molti di loro beneficiano per principio di diritti che sono quelli della cittadinanza francese.
L’immagine del ghetto, importata dagli stati uniti, qualifica zone etnicamente omogenee, abbandonate a se stesse e che vivono in quasi-autarchia. All’opposto del ghetto razziale americano, i quartieri periferici delle città francesi si caratterizzano per la loro eterogeneità etnica. Anche nei quartieri più ‘meticci’ la popolazione di origine francese è sempre maggioritaria e le altre componenti etniche sono varie. Questo vale anche per l'Italia. La realtà del ghetto americano rinvia a un'immagine stigmatizzante di deprivazione sociale e violenza, che serve anche a ‘biasimare la vittima’. Quindi non si può applicare a situazioni in cui non esistono ‘enclaves’ etniche "se non a livello di qualche caseggiato o di qualche tromba di scala" sottolinea Castel.
A proposito dell'ossessione per la sicurezza che si è sviluppata negli ultimi anni sui media, il sociologo evidenzia che “in particolare sono molteplici gli interventi delle forze dell’ordine, dagli incessanti controlli di identità ai fermi, alle perquisizioni, operazioni di massa condotte di giorno come di notte". Tanto che "ciò che nei quartieri è problematico è forse più l’onnipresenza della polizia che la sua assenza". Quindi, è evidente che non si possono affrontare le problematiche delle periferie come se fossero una no man’s land sociale, lasciata in totale abbandono.
Questi giovani non sono esclusi nel senso che la loro cultura di base è francese. La ‘cultura delle cités non è comparabile con quella che gli antropologi chiamano ‘cultura della povertà’: la produzione e riproduzione nel più completo isolamento di comportamenti, modi di vita e aspirazioni che sono esclusivamente quelli degli ambienti più svantaggiati. In maggioranza aspirano a una vita banale o normale, congruente con i valori della classe media: famiglia, figli, riuscire nella vita. La commistione della cultura di periferia e quella giovanile tout court si vede dal rap, che dalla cultura di strada è entrato a pieno titolo in quella commerciale. Così il problema che questi giovani affrontano non è di essere ‘al di fuori’ della società né rispetto allo spazio che occupano (la banlieue non è un ghetto) né quanto al loro status (sono cittadini, non stranieri). Ma non sono neanche ‘dentro’ perché non sono riconosciuti come membri a pieno titolo della società. Il paradosso è che sono cittadini ma subiscono un trattamento differenziale che li squalifica (alta disoccupazione e possibilità di finire in carcere). Il loro slogan durante la sommossa era infatti Liberté égalité fraternité ma non nelle cités, che esprime rabbia e ingiustizia per i diritti negati. I rapporti con le forze dell’ordine sono la manifestazione più frequente ed evidente del trattamento differenziale. Non a caso, proprio delle azioni di polizia in cui sono morti giovani delle minoranze periferiche sono state la miccia delle violenze urbane, sia in Franciam, sia nel Regno Unito. Il problema delle periferie non è periferico. "La banlieue non può essere lasciata a se stessa perché vi si giocano sfide che concernono l’avvenire della società nel suo insieme - commenta Castel - Piuttosto che un ghetto la banlieue è un cantiere nel quale abbiamo molto da fare ma anche molto da apprendere".
Sui disordini e i saccheggi a Londra e in diverse città britanniche dell'agosto 2011, ha fatto luce una ricerca condotta dal quotidiano inglese The Guardian, insieme alla London School of Economics, finanziata da Open Society Foundations e dalla Joseph Rowntree Foundation, dal titolo Reading the Riots. Obiettivo della ricerca era sapere chi erano i rivoltosi e studiarne le motivazioni. Il risultato è stato di sconfessare le verità ufficiali fornite dalle autorità, secondo cui dietro i disordini c'erano le gang urbane, che li fomentavano attraverso i social network. Tanto che il premier britannico David Cameron arrivò a un passo dal tentativo di bloccare Twitter.
Tramite interviste confidenziali con 270 persone direttamente coinvolte nei disordini, a Londra, Birmingham, Manchester, Salford, Nottingham e Liverpool, condotte non da giornalisti, ma da persone appartenenti alle comunità locali appositamente formate (come tassisti, istruttori di palestra, ecc..), e analizzando un database di due milioni e mezzo di tweet collegati alla rivolta, è emerso quanto segue:
- Quattro quinti dei rivoltosi erano uomini e un quinto donne, il 30% adolescenti dai 10 ai 17 anni, il 49% dai 18 ai 25 , il 26% bianchi, il 47% neri, 5% asiatici e il 17% altre nazionalità o misti.
- L’85% dei 270 intervistati ha detto che i controlli di polizia sono stati un fattore “molto importante” nello scoppio delle rivolte. Questo a causa della rabbia e frustrazione largamente diffuse tra la popolazione, per il trattamento quotidiano da parte della polizia. Al cuore delle relazioni problematiche con la polizia c’era un senso di mancanza di rispetto e rabbia verso un trattamento percepito come discriminatorio.
- Il focus del risentimento era l’uso delle perquisizioni (stop and search), spesso condotte in modo aggressivo, da cui ci si sentiva presi di mira ingiustamente.
- Le gangs si sono comportate in un modo atipico per l’intera durata delle rivolte, sospendendo temporaneamente la rivalità con quelle avversarie in una tregua di alcuni giorni. Il ruolo delle gang nei disordini è stato ingigantito.
- I saccheggi e gli incendi non venivano pianificati su Twitter e Facebook, ma usando il sistema di messaggeria del Blackberry, BBM. I tweet non sono stati utilizzati per incitare ai saccheggi ma per organizzare gruppi di cittadini che volontariamente hanno ripulito strade e quartieri dopo le violenze.
- Le persone coinvolte nelle rivolte non le considerano 'disordini razziali'. Molti hanno ammesso che il loro coinvolgimento nei saccheggi era motivato solo da opportunismo, dalla percezione della sospensione delle regole normali. Era un’opportunità per prendere beni e oggetti di lusso che non potevano permettersi di comprare. Spesso hanno descritto i disordini come un’opportunità per avere ‘roba gratis’.
- I rivoltosi erano in gran parte disoccupati, più poveri della media inglese, il 60% proviene dalle aree più indigenti del regno unito. Molti si sono lamentati di percepire ingiustizie sociali ed ecnomiche.
Entro la metà di ottobre 2000 persone sono state arrestate, più di 600 portate a processo di cui la metà condannate all’arresto immediato. [5]
[1] Castel R., La discriminazione negativa. Cittadini o indigeni? , Quodlibet Macerata 2008
[5] The Guardian, LSE, Reading the riots. Investigating England’s summer of disorder
Qui di seguito alcuni esempi su 'ghetti' e 'segregazione'.
Nel primo caso riportiamo tre articoli sulla vicenda delle cosiddette ' classi ghetto' a Bologna che aiutano a riflettere sull'opportunità di sostituire il termine con la parola 'discriminazione', più aderente alla realtà.
Classe ghetto a Bologna: 22 stranieri insieme. I genitori degli italiani dicono no
Il preside dell'istituto parla di soluzione ponte e temporanea in attesa che gli studenti imparino l'italiano. Poi i ragazzi saranno smistati in altre classi. Il Consiglio d'istituto: "Una scelta di questo tipo invece di andare verso una direzione inclusiva va verso una direzione segregante"
(edizione online di un quotidiano nazionale, 4 novembre 2012)
Una classe delle scuole medie con ventidue alunni tutti di origine straniera ed è subito polemica. Succede alle scuole Besta di Bologna, parte dell’Istituto Comprensivo 10 del quartiere San Donato, dove nell’agosto scorso è stata composta la 1°A “sperimentale” per ragazzi tra gli 11 e i 15 anni che sanno poco o per nulla l’italiano. “Le famiglie di una quindicina di ragazzi, arrivati in Italia attraverso ricongiungimenti familiari e quindi con poca o nessuna padronanza della lingua italiana, si sono presentate in segreteria chiedendo l’iscrizione alle medie”, ha spiegato a Radio Città del Capo, il presidente dell’istituto Emilio Porcaro, “alcuni di loro, tra l’altro, erano già stati respinti in altre scuole dove non c’era posto. Inoltre da noi le classi erano già formate. Da qui l’idea di una soluzione ‘ponte’ ”. Infatti la classe di ragazzi stranieri lavorerà soprattutto sull’apprendimento della lingua italiana e appena gli alunni avranno raggiunto un buon livello di conoscenza saranno smistati nelle altre classi della scuola media, come è già avvenuto per due studentesse.[...] Insomma sono i genitori dei bambini italiani che frequentano la scuola ad opporsi all’idea della classe “ghetto”, contrariamente a un caso simile scoppiato in Italia a fine settembre in una scuola di Costa Volpino (Bergamo) dove i genitori della “minoranza” italiana (7 alunni su 21) avevano ritirato i propri figli da scuola per lasciare gli stranieri unici alunni della classe. “Una scelta di questo tipo invece di andare verso una direzione inclusiva va verso una direzione segregante”, ha spiegato sempre alla radio bolognese, la professoressa universitaria di didattica e pedagogia speciale Federica Zanetti, “L’approccio inclusivo favorisce le differenze e lo scambio di tutti attraverso la lingua italiana ed ha una ricaduta diretta sugli apprendimenti. Cosa facciamo, classi separate per ogni tipologia di differenza che abbiamo?”.
Nella classe dove sono tutti stranieri "Ecco perché non è un ghetto"
Il preside delle medie Besta, l'istituto nella prima periferia di Bologna, al centro delle polemiche sulle aule-ponte per gli immigrati, spiega: "E' un esperimento di inclusione, non siamo razzisti". Viaggio tra i ragazzi e i genitori: "Sì al progetto, ma trasferiteci in fretta con gli italiani"
(edizione online locale di un quotidiano nazionale,6 novembre 2013)
BOLOGNA - Sì, sui segnaposto colorati sopra i banchi della prima A ci sono solo nomi stranieri. Ma la melodia di flautini che esce dalle finestre della scuola media Besta, per quanto stonata, «almeno è un linguaggio universale», si consola la prof di musica Maria Francesca Ferrari, amareggiata per il clamore sulla “classe ghetto”. «Questa è una scuola di frontiera, difficile. Io credo che il preside abbia voluto affrontare un problema». Una frana, una valanga di problema. Dicono dati della Questura che entro la fine dell’anno scolastico verranno nel bolognese, per ricongiungimento familiare, 753 minorenni da inserire. «E chi è che ghettizza», sbotta il professor Emilio Porcaro «chi prova a dare risposte, oppure chi chiude la porta di scuola dicendo “non c’è posto, andate altrove”?». I giuristi: "Le classi-ponte sono discriminatorie" L'intervista, Porcaro: "Ma quale ghetto? Vogliamo solo integrare" Non ci sta a passare per ghettizzatore, lui preside a San Donato, scuola-simbolo dell’integrazione da vent’anni, corsi di alfabetizzazione per adulti, per ragazzi in ospedale, in carcere. Un basso edificio di cemento nel verde, dominato dalle torri della Fiera, quartiere ad alta intensità di immigrazione, frontiera di una città da tempo insicura, spaventata, ma ancora reattiva. Questa è proprio una storia di reazioni sociali sane in un contesto di affanno. Sana è stata la reazione di un preside che a fine agosto «con le prime classi già fatte e piene», s’è visto piovere in segreteria quindici ragazzini tra gli 11 e i 14 anni, stranieri, da Pakistan, Moldavia, Sri Lanka, Cina, Egitto, dalla letale Siria, e s’è inventato qualcosa. Ha chiesto una classe in più, «perché non c’è altro modo per avere insegnanti e soldi, ma poi non abbiamo fatto una classe,con quelle risorse abbiamo creato un ambiente, un laboratorio di transizione alla lingua. Semplice, banale. Ma l’alternativa era: arrangiatevi». Sana però è anche la reazione di un gruppo di genitori (sei su otto rappresentanti) che si sono chiesti se anche un laboratorio, se frequentato da soli stranieri, non diventi una separatezza rischiosa. «Noi la parola ghetto non l’abbiamo usata», giura Roberto Panzacchi, presidente del Consiglio d’istituto, ex consigliere comunale dei Verdi, «la buona fede di preside e insegnanti non è in dubbio, ma si possono fare errori». Quali? «Poco coinvolgimento dei genitori. Troppo fai-da-te: il problema supera i confini di una singola scuola. E non aver capito che si crea un precedente pericoloso, molti diranno “bene, facciamo classi separate come a Bologna”». Curioso ribaltamento delle parti. Lo schema di questo tipo di polemiche prevede che la scuola mescoli italiani e stranieri, e che i genitori insorgano contro perché “rallenta l’apprendimento dei nostri figli”». Qui accade il viceversa. [...]
Scuole Besta, i giuristi bocciano
le classi-ponte: sono discriminatorie
Sul caso delle medie con lezioni solo per immigrati, interviene l'Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione: servono aule miste e soldi per progetti extra
(edizione online di un quotidiano nazionale, 5 novembre 2013)
Le classi-ponte, anche se temporanee, sono discriminatorie. L'Asgi, Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione, bolla così l'esperienza delle medie Besta di Bologna, nell'occhio del ciclone per la classe sperimentale composta da una ventina di allievi, tutti immigrati. L'associazione non ha dubbi, le classi alternative e differenziate rispetto a quelle ordinarie "non sono un'azione positiva volta ad agevolare l'inserimento e la riuscita scolastica degli alunni immigrati, ma può piuttosto esserne di detrimento e costituire pertanto una misura discriminatoria". La bocciatura dell'Asgi si basa su diverse motivazioni: non solo le classi ponte possono contribuire al rafforzamento "dello stereotipo dell'alunno straniero come fonte di difficoltà per la realizzazione del percorso educativo", ma non è vero che le aule di soli alunni stranieri "favoriscono un più agevole processo di apprendimento della lingua italiana". Perché la separazione lascia l'insegnante come unico riferimento.[...]
Il ghetto di Rignano Garganico è un insediamento abitativo informale, una vera città dei braccianti agricoli, che sorge alle pendici del promontorio del Gargano, nel foggiano. Le nazionalità rappresentate al ghetto sono il Mali, la Costa d’Avorio, il Burkina Faso, la Guinea Conakry, la Nigeria, il Senegal e il Benin. Un’ampia ricerca curata da Enrico Pugliese (Immigrazione e diritti violati. I lavoratori immigrati nell’agricoltura del Mezzogiorno, Ediesse) mette l’accento sul fatto che queste situazioni di degrado e sfruttamento – che culminano nella nascita di veri e propri ghetti – non sono fenomeni limite e laterali, ma sono ormai strutturalmente inserite in interi segmenti della ricca agricoltura del Sud d’Italia, parte integrante, cioè, di un complesso ciclo produttivo.
Ghetto di Rignano: caporali aggrediscono africani
Ghetto di Rignano: caporali aggrediscono africani „Erano in procinto di recarsi presso l'albergo diffuso 'Casa Sankara' di San Severo, che ospitava la tappa foggiana della Carovana Antimafia promossa da Libera“
(quotidiano locale online, 2 maggio 2014)
Mercoledì 30 aprile due africani attivisti dell’associazione ‘Ghetto Out’ sono stati bloccati e a colpi di bastone aggrediti nel ghetto di Rignano da un gruppo di caporali, mentre erano in procinto di recarsi all’albergo diffuso ‘Casa Sankara’ di San Severo, che ospitava la tappa foggiana della Carovana Antimafia promossa da Libera.
“L’episodio dice del livello di minaccia e insicurezza cui sono costretti i tanti lavoratori che intendono superare le condizioni di vita del ghetto, che offendono la dignità umana e che alimentano forme diverse di illegalità e criminalità». E’ quanto affermano in una nota congiunta le segreterie della Cgil Puglia e della Cgil di Foggia, in relazione ai gravissimi fatti denunciati dal presidio di Libera di San Severo e da Art Village. [...]
“In Europa una ‘segregazione di genere’. Alle donne assistenza, istruzione e pulizie”
La denuncia arriva dal report di 'Eurofound' "Women, men and working conditions in Europe" che offre una panoramica sulle disparità di condizioni lavorative in 34 paesi dell'Unione. Solo cinque gruppi professionali (dei 20 considerati numericamente più rilevanti) sono caratterizzati da una distribuzione più equilibrata, ma in ogni caso le mansioni domestiche rimangono tipicamente femminili
(edizione online di un quotidiano nazionale, 4 novembre 2013)
[...]Ebbene, in Europa ancora si assiste a una sorta di “segregazione di genere”: ambiti professionali spiccatamente femminili, quelli per esempio relativi ad assistenza, istruzione e pulizie, mentre solo cinque gruppi professionali (dei venti considerati numericamente più rilevanti) sono caratterizzati da una distribuzione più equilibrata della forza lavoro tra uomini e donne: nel campo della ristorazione, dell’industria del legno e dell’abbigliamento; tra gli impiegati nel campo della contabilità e tra gli operatori in ambito giuridico, socio-culturale e nei servizi alla persona.[...]