La parola etnìa deriva dal greco antico ethnos (ἔϑνος ) che, secondo il vocabolario Treccani[1] vuol dire «razza, popolo». Il dizionario nota che il termine è “spesso usato nel linguaggio giornalistico con il significato di minoranza nazionale, gruppo etnico minoritario”. La parola è presa in prestito dall’antropologia dell’Ottocento, dove indica “un raggruppamento umano distinto da altri sulla base di criteri razziali, linguistici e culturali”. Ma oggi, riporta sempre l’enciclopedia Treccani, “molti studiosi (principalmente antropologi culturali e storici) hanno viceversa sottolineato il carattere arbitrario e costruito delle appartenenze etniche, evidenziando i fenomeni politici che sono alla base della nascita dei gruppi etnici. Più che una comune ‘sostanza’, gli appartenenti a un gruppo etnico condividerebbero una contrapposizione con altri gruppi etnici o nazionali.”
Secondo la vecchia definizione, “espressioni quali arte etnica , musica etnica, cucina etnica indicano forme di espressioni caratteristiche, ‘autentiche’, tipiche di un popolo” perché “il gruppo etnico viene percepito nell’immaginario collettivo come un aggregato sociale omogeneo, i cui membri condividono una cultura, una storia, una lingua, un territorio, una religione ecc. e rivendicano per questo una identità comune”. Ma, si legge nell’enciclopedia, “tale definizione, tuttora impropriamente ma correntemente usata, è stata sottoposta a radicale revisione dall’antropologia contemporanea”.
Le parole etnia e gruppo etnico sono relativamente recenti rispetto a razza: la loro diffusione ha avuto luogo soprattutto nel secondo dopoguerra, quando il termine razza venne respinto per rifiuto delle teorie nazifasciste che avevano portato all’Olocausto. La differenza tra i due termini è questa: la parola etnia indica l’idea che le comunità umane sono fenomeni storici, culturali; la razza vede i gruppi determinati da tratti fisici e intellettuali di origine biologica.
“Un tempo si diceva razza, oggi si dice etnia: dalla fine della Seconda guerra mondiale, non sta bene parlare di razza- scrive l’antropologa Annamaria Rivera - anche perché gli scienziati hanno dimostrato che non è una realtà, ma una metafora naturalistica che serve a inferiorizzare, discriminare, sterminare. Chi coltiva la credenza nelle razze, pensa che l’umanità sia divisa in gruppi differenti per essenza e definitivamente: è questo il cuore del razzismo. Oggi, tuttavia, perfino certi razzisti, sapendo che razza suona male, la sostituiscono con etnia”.[1]
Nella letteratura anglosassone il termine etnico viene ampiamente utilizzato per designare i gruppi minoritari e immigrati, ma esso si riferisce implicitamente anche alla maggioranza, (anche i «Wasp», i bianchi di origine anglosassone e di religione protestante, sono un gruppo etnico). Nella letteratura francese, italiana e spagnola, invece, il termine etnico è spesso criticato, in quanto l’insistenza sui tratti culturali, considerati poi incompatibili con la cultura maggioritaria, è utilizzata oggi dal razzismo differenzialista[2]. Se il razzismo classico teorizzava la superiorità di una razza sull’altra, quello contemporaneo, chiamato differenzialista, si basa sulla tesi opposta: le razze sono uguali e si differenziano non per aspetti biologici ma per la loro cultura, che costituisce il patrimonio di qualsiasi razza e va difesa contro mescolamenti che la snaturino; la difesa delle singole culture si ottiene con l'isolamento, con il rifiuto di contatto con l'altro che trova la sua massima manifestazione nell'apartheid. Il razzismo differenzialista legittima il rifiuto dell'immigrazione (invasione) di altri gruppi all'interno della civiltà bianca con l’idea che le differenze culturali siano qualcosa di ‘naturale’, un concetto simile a quello di razza.
“Nel linguaggio comune, l’etnia è di solito attribuita a gruppi di minoranza, sebbene gran parte degli scienziati sostenga che tutti possiedono un’etnicità, intesa come senso di appartenenza a un gruppo accomunato dall’idea di origini, storia, cultura, esperienze e valori comuni”[3], scrivono gli studiosi Stephen Castles e Mark J. Miller nel volume “L’era delle migrazioni. Popoli in movimento nel mondo contemporaneo”. Secondo gli stessi autori “La nozione di minoranza etnica lascia sempre intendere un certo grado di marginalizzazione o di esclusione” e “ chi critica l’immigrazione dipinge le minoranze etniche come una minaccia per il benessere economico, l’ordine pubblico e l’identità nazionale”[4]. Per Castels e Miller le minoranze etniche non esistono di per sé. Nascono quando vengono definite così dai gruppi maggioritari e dominanti che attribuiscono alle minoranze etniche “caratteristiche disprezzate e il conferimento di una posizione sociale inferiore”. Dall’altro lato, da parte delle comunità etniche c’è “un certo grado di coscienza collettiva basata sull’idea di lingua, tradizioni, religione, storia ed esperienze comuni”.[5]
Nei flussi migratori, il criterio della nazionalità spesso non è sufficiente per designare gruppi minoritari nel paese d'origine (ad esempio, i tamil nello Sri Lanka, i rom della Romania). In questi casi, il termine etnico si potrebbe usare nella prospettiva anglosassone e senza dimenticare i rischi di generalizzazione e stigmatizzazione. La parola etnia e l’aggettivo etnico vanno adoperati con grande cautela,non possono essere usati con leggerezza e con la frequenza con cui si ritrovano negli articoli e nei servizi. Soprattutto l’etnia non va vista come una caratteristica di differrenza ‘naturale’ fra le persone. Uno degli errori più frequenti è quello di confondere l’ etnia con la nazionalità. Ad esempio: “Nella nave c’erano kurdi di etnia irachena”. Semmai bisognava dire “iracheni di etnia kurda”.
La parola etnia, come abbiamo visto nella definizione, viene da una delle due nozioni di ‘popolo’ esistenti nell’antica Grecia. “Ethnos era il nome con cui veniva designata una popolazione priva di istituzioni politiche. In questo senso si contrapponeva a demos, che indicava, al contrario, il popolo della città (polis), la comunità politica. L’accezione negativa, difettiva del termine etnia si è conservata nel corso del tempo, connotando la prospettiva tendenzialmente naturalistica delle scienze etnografiche- scrivono gli storici Alberto Burgio e Gianluca Gabrielli - Etnia definisce i soggetti collettivi per sottrazione. Nell’accezione contemporanea, invalsa nei mezzi di informazione e nella retorica politica, designa gli altri gruppi umani, culturalmente diversi (da noi), tacitamente svalorizzandone costumi e modelli di vita. In generale etnico allude a tribale…..Ecco perché “etnici” sono sempre gli altri (i gruppi e le culture che si discostano dalla norma delle società e dellla cultura maggioritaria), mai noi….In molti casi non è difficile intravedere sotto l’etichetta dell’etnia la sostanza della razza”.[6]
Quando un gruppo viene visto come un’etnia (etnicizzazione), non si percepiscono più le differenze interne (di classe, di genere, ecc…) e si generalizza (ad esempio: i rom, i somali, ecc..). “Tutto ciò che concerne gli altri diventa etnico- scrive Rivera – Noi siamo attraversati da fratture di classe, di potere, di genere, di generazione; gli altri non conoscono che fratture etniche: ancestrali, impremeabili alla storia, fatte di radici, tradizioni, sangue. Etnica è la loro stessa sostanza umana. Una volta si diceva nazionalità (al plurale) o minoranze, oggi si dice etnie. Una volta si parlava di persecuzione, epurazione, deportazione, oggi di pulizia etnica”[7]. Secondo Burgio e Gabrielli, il caso “più emblematico e devastante” di etnicizzazione dei conflitti politici è quello della ex Jugoslavia. Le numerose stragi di civili e la guerra fratricida è stata spiegata dai commentatori principalmente come uno scontro fra gruppi etnici. “Il punto è che le ragioni di quella catena di guerre si situano altrove: nei progetti e nelle decisioni di governi e vertici politico-militari- scrivono i due storici – Questi fattori (e gli interessi stranieri,ndr.), non già la presunta primitività morale di etnie osservate attraverso una lente carica di pregiudizi, determinarono l’insorgere di ciechi odi etnici culminati nello stupro di massa delle donne del gruppo nemico”.[8]
Questa lente di pregiudizio attravero cui la cultura maggioritaria guarda gli altri gruppi umani che ha definito come “etnie” si chiama etnocentrismo ed è una forma di razzismo. Indica il riferimento specifico al noi contrapposto all'altro, è la tendenza a giudicare tutto ciò che afferisce gruppi diversi dal proprio utilizzando i parametri della propria educazione. L’etnocentrismo “comporta la supervalutazione della propria cultura e la svalutazione di quella altrui – scrive lo psicologo José Aguayo su ‘Corriere Immigrazione’ - Su questo principio arcaico e ancestrale di “protezione” del proprio gruppo di appartenenza da tutto ciò che gli è estraneo, si costruiscono i pregiudizi e le paure che alimentano le generalizzazioni e gli stereotipi nei confronti degli altri “diversi”. E questo viene fatto anche dagli immigrati rispetto agli autoctoni. E più ci si sente minacciati e vulnerabili, più viene fatto. Da questa chiusura autodifensivanascono e si irrigidiscono le convinzioni che contribuiscono a tener separati e lontani immigrati e autoctoni, alla fine con danno di entrambi”.[9]
In genere però gli antropologi parlano di “etnocentrismo dell’uomo occidentale”, perché per molti secoli gli europei hanno usato la propria cultura come termine di paragone per le altre e i ‘gruppi etnici’ diversi da quelli occidentali erano considerati “primitivi” e “barbari”[10]. Per questo etnia è ben diverso da ‘nazione’. “Perché all’etnia -questo è il senso che si riafferma nel diciannovesimo secolo –manca la compiutezza delle istituzioni politiche, dei caratteri di civiltà” spiega il linguista Federico Faloppa nel suo saggio “Razzisti a parole”.[11] Cucina etnica, ristorante etnico, gioielli etnici, abbigliamento etnico e via dicendo non significano tanto ‘popolare’ o ‘proprio di un popolo’ perché non li associamo mai a qualcosa di italiano o alla cultura maggioritaria, ma sempre a ciò che è ‘diverso’, ‘esotico’.
[1] Rivera A., Regole e roghi. Metamorfosi del razzismo, Edizioni Dedalo, Bari 2009 pp.63-64
[2] Campani G., Carchedi F., Tassinari A. (a cura di) L’immigrazione silenziosa. Le comunità cinesi in Italia, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, 1992
[3] Castles S., Miller M. J., L’era delle migrazioni. Popoli in mmovimento nel mondo contemporaneo, Odoya Bologna 2012, pag. 59
[6] Burgio A., Gabrielli G., Il razzismo, Ediesse, Roma 2012, pp. 158-159
[7] Rivera A., Op. Cit, pag. 63
[8] Burgio A., Gabrielli G., Il razzismo, Ediesse, Roma 2012, pagg. 165-166
[10] Opposto all’etnocentrismo è il relativismo culturale, il cui obiettivo è comprendere le altre culture. Si comprende che i bisogni umani fondamentali possono essere soddisfatti con mezzi culturalmente diversi e che ciò che è considerato morale in una cultura può essere amorale o eticamente indifferente in un'altra. Il relativismo, però, ha il limite di condurre alla separazione tra le culture più che a una comunicazione fra loro.
[11] Faloppa F., Razzisti a parole (per tacer dei fatti), Editori Laterza, 2011, pp. 82-90
Alcuni esempi mostrano chiaramente come i termini etnia/etnico non siano neutri. Nel primo caso, riportiamo l’articolo integrale in cui si accusano i rumeni di ogni nefandezza, senza interpellarli né portare come riferimento un fatto determinato e concreto. Si tratta di uno dei casi più gravi di disinformazione e discriminazione accaduti in Italia, datato 2006, in cui la nazionalità romena viene ‘etnicizzata’ e considerata una ‘razza’. (Nella cronaca degli anni seguenti, difronte a uno stupro si arriverà a parlare dell’esistenza di un ‘dna’ romeno, poi smentito dagli ‘esperti’, a testimonianza del fatto che una semplice appartenenza nazionale viene vista dai media come un’appartenenza a una qualche razza biologica ‘romena’). Abbiamo pensato di lasciare in questo caso l’articolo integrale perché l’elenco di accuse prive di fondamento e di giudizi criminalizzanti verso i romeni è talmente nutrito da dovere essere letto tutto per capire la portata distruttiva e negativa di queste parole.
Un'etnia sempre in «cronaca nera»
Hanno il monopolio criminale di clonazioni e prostituzione
È considerata la razza più violenta, pericolosa, prepotente, capace di uccidere per una manciata di spiccioli.
(quotidiano nazionale, anche online, 3 ottobre 2006)
È capace di compiere truffe milionarie grazie all'alta conoscenza delle tecnologie. Non ha paura di nulla, disprezza anche la vita di donne e bambini che non raggiungono i dieci anni d'età. E si appresta addirittura a entrare nell'Unione europea. Sono i rumeni, sono i cittadini della Romania che da anni terrorizzano il nostro Paese. Persone che vendono sogni che poi si trasformano in schiavitù. Agiscono sempre in gruppi per riuscire a portare a termine le loro innumerevoli attività criminali: dalla prostituzione, alle rapine in villa, dalla clonazione di carte di credito all'immigrazione clandestina. E la loro capacità di compiere traffici illegali in Italia tanto redditizi ha fatto accendere le antenne ai «nostri» criminali, facendo nascere sul territorio nazionale veri e propri sodalizi italo-rumeni. La maggior parte dei rumeni che sono arrivati in Italia in maniera clandestina sono capaci di compiere sequestri di persona, rapine in villa, di vivere nell'ombra per gestire le prostitute connazionali fatte arrivare nelle più grandi metropoli con la promessa spesso e volentieri di fare la badante. È chiamato la «peste», e si pronuncia «pesce», il malvivente che sfrutta le ragazze dell'Est, le picchia, le violenta e le riduce in schiavitù. I rumeni sono anche degli ottimi acrobati, riescono a entrare nelle abitazioni arrampicandosi sulle pareti più difficili da scalare, con indosso spesso armi bianche: solo nei primi sette mesi di ques'anno sono stati infatti arrestati dalle forze dell'ordine 38 rumeni responsabili di rapine in villa. La mente criminale di questi banditi è però anche in grado di inventarsi sistemi tecnologici capaci di succhiare denaro dai conti correnti degli italiani. In diversi casi infatti, mediante una memoria installata nelle apparecchiature Pos di distributori di benzina e supermercati, servendosi della tecnologia Bluetooth, riescono a carpire i codici segreti di migliaia di carte di credito e bancomat che poi utilizzano per ritirare denaro in contanti, compiere acquisti oppure per realizzare false carte da distribuire in seguito ai connazionali clandestini nei diversi paesi europei. La donna rumena, quando invece riesce a non finire nelle mani dei «padroni», con la sua bellezza dell'Est riesce a incantare anziani ricchi e farsi sposare per ottenere la cittadinanza, e perché no, il conto in banca.
Ecco un altro grave caso in cui una testata giornalistica trasforma una nazionalità in un’etnia e veicola un’immagine fortemente negativa di un’intera comunità, quella marocchina, basandosi sul mettere insieme una serie di casi di cronaca nera e giudiziaria. E’curioso che questo avvenga in Calabria, dove si potrebbe fare lo stesso con tutte le notizie di arresti e omicidi che riguardano i narcotrafficanti della ‘ndrangheta calabrese. Ma se qualcuno scrivesse sul sito di un’altra webtv “etnia calabrese” , con sotto l’elenco dei crimini commessi da calabresi per associazione mafiosa, in molti griderebbero allo scandalo. In questo caso, invece, non è successo niente.
La pagina del sito internet di una web tv locale in Calabria porta in alto a caratteri cubitali la titolazione:
ETNIA MAROCCHINA
(Segue l’elenco delle notizie che riguardano reati e arresti di cittadini marocchini nella Regione)
Marocchino rapinato e ferito, arrestato terzo complice a Cittanova
17 apr 2012, 20:24
Marocchino arrestato per rapina a Corigliano
28 mar 2012, 23:24
Arrestato cittadino marocchino a Cosenza
2 mag 2011, 14:25
Vibo: vendeva orologi falsi, denunciato marocchino
18 mar 2011, 17:51
Marocchini denunciati per furto nel vibonese
9 mar 2011, 10:13
Tentata rapina e violenza sessuale, marocchini arrestati a Reggio
1 mar 2011
Secondo Faloppa “etnicizziamo per dividere”[1], da una parte c’è l’etnico buono , dall’altro quello potenzialmente pericoloso, incontrollabile. Vediamo entrambi gli esempi. A proposito della copertura mediatica degli scontri in via Padova a Milano, il linguista scrive “scontri etnici, rivolte etniche, stranieri, terra di frontiera, banlieue, Bronx. Associazioni verbali utili a rimarcare l’idea dell’inevitabilità (c’è violenza proprio perché c’è di mezzo l’etnia)”.[2] Vediamo due articoli di questo genere. Il primo, del quale riportiamo uno stralcio più lungo, è un editoriale, che spiega la vicenda della guerra tra bande interamente come una questione ‘etnica’ e associa la rivolta alla presenza dei clandestini. Il tutto rimanda al lettore un’immagine fortemente stereotipata e carica di pregiudizi dei migranti, degli irregolari e anche di quel particolare quartiere di Milano. Il secondo è un articolo di cronaca che già nel titolo parla di “etnia latino-americana” (che non esiste, il termine adatto sarebbe ‘comunità’ semmai). Si parlerebbe di etnia latina per riferirsi agli attuali abitanti della regione Lazio?
Come si difende un quartiere
(editoriale su un quotidiano nazionale, 16 febbraio 2010)
Lo scontro interetnico di via Padova a Milano ha portato nuove sofferenze a due categorie di persone, del tutto incolpevoli: i vecchi abitanti della zona e gli immigrati che vorrebbero lavorare in pace. Gli italiani di via Padova, esasperati, e impossibilitati ad andarsene (anche, probabilmente, in molti casi, a causa del deprezzamento subito dai loro alloggi), denunciano le condizioni di degrado e la mancanza di sicurezza.
Ma anche gli immigrati che lavorano hanno la loro pesante dose di disagi. Non sono, presumibilmente, leghisti quegli immigrati che ….dicevano: «A distruggere le vetrine c'erano troppe facce che vedo in giro a non far niente tutto il giorno » oppure «Devono prenderli e mandarli a casa». Ci sono in gioco due questioni, difficili da gestire. La prima riguarda la clandestinità, la sua frequente connessione con attività criminali, nonché il ruolo di primo piano che i clandestini svolgono sempre nelle rivolte urbane. La seconda riguarda la formazione di ghetti multietnici all' interno delle città.
[…] ciò che è successo in via Padova può accadere in altri quartieri di Milano e in tante altre città. Combattere l'immigrazione clandestina è difficilissimo. Ma lo è ancora di più se tanti operatori, religiosi e settori di opinione pubblica mostrano un'indulgenza che sfiora la complicità verso il fenomeno. Come è fin qui accaduto. Che senso ha, in nome di una sciatta e del tutto ideologica «difesa degli ultimi », disinteressarsi delle gravissime conseguenze che la clandestinità porta con sé e che sono destinate a pesare sia sugli italiani che sugli immigrati regolari? Le probabilità di scontri etnici, quanto meno, diminuiscono se la clandestinità viene arginata e i facinorosi allontanati.
E migliora, per tutti, la vivibilità dei quartieri. La seconda questione riguarda la formazione di ghetti multietnici. E' un problema ancora più difficile da risolvere di quello della clandestinità. A causa del fatto che i ghetti si formano quasi sempre in modo spontaneo, seguendo dinamiche che sono proprie del mercato (degli alloggi). Il ministro degli Interni Roberto Maroni, nella sua intervista di ieri, ha detto cose responsabili e condivisibili. Ma ha forse sopravvalutato la possibilità di impedire per il futuro eccessi di concentrazioni etniche nelle aree urbane. I ghetti si formano perché l'afflusso di immigrati spinge le persone che temono un deprezzamento eccessivo della loro proprietà a vendere. E quando il deprezzamento è compiuto, il quartiere si riempie di immigrati poveri. E' difficile bloccare questi processi.
In un bel film che circola in questi giorni nelle sale, An education, due allegri mascalzoni sbarcano il lunario prendendo in affitto appartamenti in quartieri di soli bianchi e poi subaffittandoli a famiglie di colore. Le vecchine del quartiere si spaventano, svendono di corsa case e mobilio. E i due mascalzoni arraffano tutto l'arraffabile. Forse, consistenti sostegni economici alle persone che, a causa del flusso immigratorio, vedono deprezzate proprietà ed esercizi commerciali, servirebbero di più che non tentativi di pianificazione nella distribuzione urbana dei vari gruppi etnici. Alleviando il danno, ciò forse contribuirebbe anche a ridurre il rancore verso gli immigrati.
Milano, ucciso 19enne egiziano Dopo la rissa è rivolta nelle strade
IL RAGAZZO È STATO ACCOLTELLATO DA UN GRUPPO DI ETNIA LATINO-AMERICANA IN VIALE PADOVA
Gruppi di nordafricani hanno capovolto auto e danneggiando negozi gestiti da sudamericani
( edizione locale online di un quotidiano nazionale, 13 febbraio 2010)
MILANO - È stata una serata di rivolta interetnica quella avvenuta sabato a Milano, dove in via Padova, una delle «casbah» cittadine, la comunità nordafricana ha dato vita a disordine e aggressioni dopo l'uccisione di un giovane egiziano accoltellato, pare, da alcuni sudamericani. La lunga arteria stradale sembrava quasi il teatro di una guerriglia, auto ribaltate, vetrine sfondate, motorini rovesciati e gruppi di nordafricani che a 20-30 si muovevano nelle vie laterali a caccia di peruviani ed ecuadoriani. La polizia è riuscita con difficoltà a contenere la situazione, proprio perché, dopo l'esplosione della rabbia questi gruppetti di facinorosi hanno continuato a imperversare con un mordi e fuggi di continui danneggiamenti. […]
Infine, l’ultimo esempio è quello dell’etnico chic, esotico. Quello che Faloppa descrive come “l’etnico che ti aspetti, insomma. Anche nei consumi culturali, nel viaggio nella scoperta del nuovo”[3].
Lampedusa: infradito e profumi africani
(quotidiano locale dell’Emilia Romagna, 6 agosto 2011)
Meraviglioso, cantava Domenico Modugno, in una tra le canzoni più belle della musica italiana, che ben rappresenta l’Isola del Mediterraneo che il cantante scelse come proprio rifugio negli ultimi anni della sua vita. Lampedusa, un fazzoletto di terra di soli 20 kmq circondato da un mare capace di regalare sfumature di colori come solo un caleidoscopio può fare, l’isola più a sud d’Europa ad un latitudine inferiore al 35° parallelo, un paradiso dove ogni anno tornano a deporre le uova le tartarughe Caretta Caretta. […]. Il primo impatto con questa terra è fatto di emozioni e di ricordi ancestrali: dai profumi, così acuti e penetranti; aromi speziati provenienti dalla vicina Africa portati dal vento e l’intenso odore del mare e poi il sole, con i suoi raggi così abbaglianti resi ancora più forti dalla colorazione bianca delle abitazioni e dall’ocra della roccia. […]Chi decide di recarsi a Lampedusa deve lasciare a casa la voglia di comodità da villaggio turistico con i suoi giochi, aperitivo e le lezioni di ballo; questa è una terra selvaggia, è la sua forza e la sua bellezza. […] Ma Lampedusa è naturalmente anche buona cucina e allora, per una prelibata cena, c'è solo l’imbarazzo della scelta ricordando che le specialità vengono ovviamente dal mare e dalle tante qualità di pesce, ma non i frutti di mare (assenti nell’isola). Lampedusa offre anche una vita notturna fatta di locali e di piano bar […]Una movida da effettuare rigorosamente con le infradito sorseggiando i cocktail e visitando i tantissimi negozi di artigianato locale sparsi lungo la strada. I lampedusani sono gente semplice di estrema cordialità, pronti a scambiare pareri e opinioni con i turisti, il calore del sud trapela anche da queste cose. Questa è l’isola più a sud dell’Italia, un lembo di terra dove cielo e mare si rincorrono regalando tramonti e panorami da sogno, bellezza ruvida che ti entra nel cuore e che, al ritorno da questa vacanza, ti lascia un senso profondo di nostalgia; perché Lampedusa è l’isola che c'è.
Questo articolo è stato pubblicato mentre sull’isola di Lampedusa arrivavano migliaia di profughi dalle bombe della guerra in Libia. Profughi ‘invisibili’ come recita, accanto a questo reportage di viaggio, un colonnino dal titolo “Tranquillità e ordine: immigrati “invisibili”. Non c’era infatti alcun momento di contatto fra i richiedenti asilo salvati dai naufragi in mare aperto e i turisti che affollavano l’isola ad agosto, se non la curiosità (di breve durata) dei secondi di vedere l’attracco al molo del porto delle barche dei soccorritori cariche di africani scampati alla morte. Abbiamo scelto questo pezzo perché, anche se non usa mai il termine ‘etnico’, è a quell’idea che fa riferimento nel raccontare Lampedusa per i viaggi turistici. Lasciamo qui il commento dell’articolo alla riflessione dello scrittore Antonello Mangano, autore di saggi sull’immigrazione, che in quei giorni era sull’isola e ha visto questo reportage affisso sulla vetrata di un bar. “Questo è vero giornalismo’. Al Caffé del Porto hanno ritagliato un`intera pagina della……hanno aggiunto il commento col pennarello e l`hanno incollata alla vetrata. 'Tranquillità e ordine, immigrati invisibili`, racconta la giornalista emiliana. Un messaggio ai turisti del Nord. Quest`isola è un paradiso, non incontrerete neanche un tunisino, ma 'Infradito e profumi africani`, come titola il giornale- scrive Mangano - I turisti milanesi confermano. Tramonti infuocati con le palme in controluce, cene a base di cous cous, dammusi con le cupolette e vento caldo. Siamo alla stessa latitudine di Kairouan, Tunisi e Algeri sono molto più a nord. 'A chisti ci piace l`Africa ma senza l`africani`, commenta una volontaria. 'Dormiamo la sera con le finestre e la porta di casa aperte` - racconta una coppia di Monza al giornale. 'L`isola è sicura come nessun altro luogo. Siamo qui da 10 giorni e dai telegiornali abbiamo appreso che sono sbarcati 2000 immigrati, noi non abbiamo visto nulla, nemmeno un clandestino, niente. Questo è il vero scoop”.[4]
[1] Faloppa F., Op. Cit, pag. 90