La parola ‘Chinatown’ evoca immediatamente il mito di una “zona esotica, pericolosa, immorale”[1] o di “un mondo in cui la legge e la giustizia non possono regnare”[2]. La nostra percezione è indubbiamente influenzata da Hollywood. Del film noir del 1974 “Chinatown” di Roman Polanski, ambientato negli anni Trenta, è celebre la battuta "Lascia stare, Jake, è Chinatown": il quartiere cinese viene evocato come un luogo dove succedono cose inspiegabili e che non potrà mai cambiare. Forse ancora più popolare nel senso comune è il titolo della commedia di John Carpenter “Grosso guaio a Chinatown”, pellicola cult degli anni Ottanta, che facendo il verso a una detective story, fa comunque riferimento agli oscuri misteri del quartiere cinese.
Negli Stati Uniti, alla fine del XIX secolo, le Chinatown “hanno assunto le caratteristiche di luoghi segreti e chiusi di fronte alle pressioni ostili della popolazione locale”[3]. Questo fu diretta conseguenza del fatto che i cinesi erano fortemente discriminati. Schiavizzati sul lavoro, con salari molto bassi e condizioni di impiego molto difficili, lavorarono nelle miniere della California e nella costruzione della ferrovia transamericana, che congiunge l’Atlantico con il Pacifico. Ne nacque un conflitto con gli altri lavoratori e si arrivò alla Legge d’Esclusione Cinese (1882) che chiuse le porte all’arrivo di nuova manodopera dalla Cina. Le politiche discriminatorie, che durarono fino alla seconda guerra mondiale, non solo bloccarono gli ingressi ma influenzarono anche il modo di insediarsi delle comunità già presenti negli States[4].
Questo è il motivo storico per la nascita delle Chinatown antiche come “territori in qualche modo autonomamente gestiti, con leggi proprie e come una specie di extraterritorialità, che sono andate costituendosi per pressione esterna - una ghettizzazione - e per spinta interna - che sfrutta al meglio i vantaggi di un sistema chiuso”[5].
Tra gli esempi europei di Chinatown, una delle più note è quella della capitale britannica. “Nelle società occidentali gli immigrati cinesi hanno sempre avuto una connotazione negativa ed abbondano i luoghi comuni nei loro confronti – scrive in un articolo online Nicola Montagna, dottore di ricerca alla Middlesex University di Londra che ha studiato il fenomeno[6] - Il cinese è lo straniero per eccellenza, è chiuso, difficilmente avvicinabile, che non riesce a integrarsi nella società cosiddetta d’accoglienza ed ha sempre qualcosa da nascondere. Queste convinzioni trovano ospitalità anche nel cinema e nella letteratura per cui il cinese è un personaggio ambiguo e misterioso […] Sono gli stessi immigrati cinesi a denunciare il modo in cui la società occidentale guarda a loro. Una sorte simile è toccata anche alla Chinatown di Londra sia come luogo storico sia come astrazione”. Secondo il riceratore, esistono due Chinatown: una inventata e una reale. “La prima è una costruzione occidentale che vede in Chinatown una zona misteriosa, un luogo di traffici dove dare sfogo a depravazioni (sesso) e vizi (oppio e gioco d’azzardo)[…]- scrive - Chinatown stessa è in un certo senso un’invenzione dell’Occidente, un’enclave esotica nel cuore delle società occidentali dove sono possibili esperienze in qualche misura eccezionali”[7]. Oggi Chinatown londinese è in realtà “vetrina del successo della comunità cinese” e una “gallina dalle uova d’oro” per gli speculatori che fanno affari con l’industria del turismo di massa; dall’altro un “luogo di appartenenza e d’identificazione per la dispersa comunità cinese a Londra” e “un rifugio dalla ‘visibilità razziale permanente’. Di conseguenza, riesce a trasmettere intimità ad alcuni immigrati cinesi”[8].
In Italia il termine è stato usato per indicare quartieri come il rione Esquilino a Roma o via Paolo Sarpi a Milano, suscitando le proteste di studiosi ed esperti del fenomeno che nella realtà italiana vedono poco in comune con le Chinatown americane . In realtà, i quartieri italiani a forte concentrazione di attività commerciali cinesi, restano zone miste, dove convivono italiani e stranieri di diverse nazionalità. Questo succede perfino nel capoluogo lombardo, dove l’area cinese del quartiere Canonica-Sarpi esiste dal 1920. Un secolo fa si trattava di una zona popolare situata fuori le mura e i cinesi erano artigiani che vivevano in case-laboratorio dove confezionavano cravatte. A partire dall’inizio degli anni Ottanta, c’è stato l’arrivo massiccio di nuova forza lavoro, soprattutto dalla regione dello Zhejiang, grazie alla riapertura delle frontiere cinesi dopo le riforme verso l’economia di mercato.
I cinesi sono stati il primo gruppo di immigrati stranieri in Italia. Le altre comunità si sono insediate a partire dagli anni Settanta. I cinesi sono l’unica immigrazione straniera insediatasi in Italia prima del secondo conflitto mondiale, dopo l’esodo degli albanesi di Skanderberg nel secolo XVI [9].
Frasi fatte
Mito: Le Chinatown italiane sono enclave etniche abitate da soli cinesi e senza regole
Realtà: la più antica ‘Chinatown’ italiana, il quartiere Sarpi a Milano non è mai stato abitato da soli immigrati. Inoltre la zona ha subito una trasformazione radicale rispetto a quei primi cinesi, la cui comunità si era sviluppata attorno ai laboratori artigianali, in un quartiere della città allora ancora periferico e con i prezzi delle abitazioni contenuti. Le nuove e più difficili condizioni economiche e il rincaro degli affitti, hanno spinto gli immigrati a insediarsi in altre zone, tanto che la popolazione residente della cosidetta ‘Chinatown’ milanese è al 90% composta da italiani benestanti. Nel quartiere ci sono però anche molti negozi all’ingrosso cinesi che hanno sostituito quelli al dettaglio italiani. I grossisti cinesi si sono affermati a partire dai primi anni Novanta, quando queste attività di import-export hanno iniziato a godere di grossi vantaggi grazie ai cambi di valuta favorevoli [10].
“E’ assolutamente fuorviante applicare il termine Chinatown al quartiere Sarpi, inoltre è proprio falso perché non risponde alla realtà” afferma Elisa Giunitero, volontaria della Comunità di Sant’Egidio che svolge attività nel quartiere dal 1992. “È fuorviante perché evocativo di enclave, di zona franca, mistero, chiusura – spiega - I cinesi di Milano non vivono lì, per questo è anche scorretto”. Secondo Giunitero, si tratta di “un quartiere vetrina, di rappresentanza delle loro attività, dove i cinesi hanno la maggiorparte dei negozi, ma non è monoetnico, anche se storicamente c’è una loro presenza molto visibile dagli anni Venti. Ottanta anni fa, quando i cinesi sono arrivati, era periferico e popolare. Ora è costosissimo abitarci. Più del 90% dei residenti sono italiani”[11].
Una testimonianza che concorda con l’analisi di Golem L’indispensabile[12]. “Da noi per comodità si identificano con Chinatown (quella newyorkese, soggetto di film e patrimonio dell'immaginario globale) agglomerati che in realtà poco gli somigliano- scrive Corrado Colorno sul magazine online - a Milano, il quartiere cinese (zona Canonica-Sarpi) è tanto visibilmente cinese quanto in realtà è poco densamente abitato da cinesi: è infatti un quartiere misto [… ]Si tratta a tutti gli effetti di un quartiere "vecchia milano" (definizione gradita soprattutto agli agenti immobiliari, quando vogliono sottolineare l'attraente tipicità del contesto) connotato visivamente dalla presenza cinese”[13].
In questo i media sembrano rafforzare lo stereotipo radicato tra i residenti che i cinesi “fanno massa” e “stanno sempre tutti insieme, si accalcano numerosi - e questo insinua diffidenza e talora paura, anche se poi nessuno ha mai subito alcun fastidio concreto”[14]. Anche in questa analisi troviamo l’espressione “quartiere vetrina” per via Paolo Sarpi, inteso come “punto di riferimento per i servizi più diversi” e “meta consolidata”[15] per fare shopping di merce cinese. Già nel 2003, anno in cui è stato pubblicato il testo di Colorno su Golem, nel quartiere era in atto la trasformazione immobiliare verso i ceti medio-alti. Ma prima della riqualificazione, erano stati proprio i cinesi a rivitalizzare l’economia della zona.
[1] Montagna N., Chinatown, Londra: tra mito e realtà, 24 gennaio 2008, www.nazioneindiana.com. Nicola Montagna è dottore di ricerca e Research Fellow presso la Middlesex University di Londra. Si occupa di movimenti sociali e di immigrazione, sui quali ha scritto diversi saggi per libri e riviste accademiche
[3] Campani G., La diaspora cinese nel nuovo contesto delle migrazioni internazionali, in Giovanna Campani, Francesco Carchedi, Alberto Tassinari (a cura di) L’immigrazione silenziosa Le comunità cinesi in Italia, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, 1992, pag.16
[6] Montagna N., Op. Cit.
[9] Campani G., Op.Cit. pag. 11
[10] Galli S., Le comunità cinesi in Italia: caratteristiche organizzative e culturali, in Giovanna Campani, Francesco Carchedi, Alberto Tassinari (a cura di) L’immigrazione silenziosa Le comunità cinesi in Italia, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, 1992, pag.79
[11] Intervista realizzata il 2 luglio 2012
[12] Nato nel 1996 su un'iniziativa di Umberto Eco, Gianni Riotta e Danco Singer, "Golem" è la prima rivista culturale italiana pensata solo per il web.
Alla fine degli anni Ottanta i cinesi erano circa 20mila, distribuiti in particolari aree territoriali (tra cui la Lombardia, la Toscana e il Lazio)[1]. Oggi sono 210mila.[2]
In questi luoghi di insediamento, sono riusciti a innescare profonde trasformazioni economiche e sociali grazie alla loro particolare caratteristica dell’ intreccio fra l’impresa artigianale e modelli migratori di tipo familiare. “I cinesi d’Italia costituiscono un caso esemplare per illustrare l’abilità a ritagliarsi uno spazio d’attività in un mercato del lavoro ad alta disoccupazione, attraverso l’inventiva e la creatività alla base dell’imprenditoria autonoma, sia nel settore della ristorazione sia in quello della pelletteria di basso livello”[3].
L'imprenditoria cinese
Le imprese individuali cinesi in Italia ammontano ad oltre 36.800 unità. Oltre la metà di queste sono localizzate in tre regioni: Toscana (22%), Lombardia (18%), Veneto (11%). Il Piemonte è l’ottava regione per numero di imprese individuali cinesi[4]. Per quanto riguarda le province, oltre 4 mila imprese individuali cinesi, pari all’11,5% del totale, sono localizzate nella provincia di Prato, 3.500 nella provincia di Milano (pari al 9,6% del totale), 3 mila (l’8%) nella provincia di Firenze. Torino, con poco più di mille ditte individuali localizzate nella sua provincia (1.087 imprese individuali in capo a imprenditori nati in Cina), si trova al sesto posto nella graduatoria provinciale, dopo Roma e Napoli dove sono localizzati rispettivamente il 6% e il 4% del totale degli imprenditori individuali cinesi. In realtà quali Prato, Firenze, Milano, il peso dei cinesi sul totale degli imprenditori individuali attivi è rispettivamente pari al 25%, al 5,6% e al 3% e la comunità cinese conta per il 68%, 27% e 15,5% sul totale degli imprenditori individuali stranieri.
Caratteristiche dell’imprenditoria cinese.
Tra gli imprenditori individuali cinesi risulta in media una maggiore componente femminile rispetto alla media degli imprenditori stranieri: gli imprenditori maschi sono infatti il 58% nel totale degli imprenditori cinesi, venti punti percentuali in meno della media degli stranieri (78%). Non solo: gli imprenditori cinesi sono più giovani della media degli imprenditori stranieri. Quanto alle attività economiche, la distribuzione ben illustra la conosciuta specializzazione degli imprenditori cinesi. Nelsettore manifatturiero (tessile e abbigliamento in particolare) lavora il 42,9% degli imprenditori cinesi presenti in Italia. Seguono il commercio e la ristorazione, assieme alla quasi totale assenza dal settore delle costruzioni. In questo settore, tuttavia, si distingue la peculiare situazione della provincia di Torino con l’importante presenza di imprenditori cinesi nel settore della lavorazione della pietra.
Ocse: sarà l’Asia la nuova terra di immigrazione
Nel 2010 quasi un migrante su dieci nei Paesi Ocse è cinese. Dalla Cina e dall’India arrivano studenti e lavoratori altamente formati. Ma nel lungo periodo saranno i lavoratori del resto del mondo a dirigersi in quei paesi. L’Asia è al centro delle previsioni Ocse. Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, il continente asiatico si appresta a trasformarsi da terra di emigrazione in luogo di immigrazione per lavoratori qualificati.Nel 2010 il 30% dei flussi migratori verso i Paesi Ocse è stato costituito da migranti asiatici. Soprattutto indiani e cinesi sono migranti qualificati. “Nel breve periodo l’Asia resterà una fonte di lavoratori altamente preparati – si legge nell’ International migration outlook 2012- Nel lungo periodo, visto lo sviluppo asiatico, produrrà un numero ancora maggiore di giovani formati ma queste persone tenderanno a restare nel continente d’origine e l’Asia attrarrà lavoratori qualificati dalle altre zone del mondo”. Nel 2010,la Cina è stata di nuovo il principale Paese d’origine dei flussi migratori verso i Paesi Ocse, quasi un migrante su dieci è un cittadino cinese. Romania, India e Polonia seguono, ognuna contribuisce a circa il 5% del totale.
E’ in continuo aumento il numero di studenti internazionali, anche in questo caso, il 25% dei giovani che migrano all’estero per studiare sono cinesi e indiani insieme. “Sono una fonte importante di futura migrazione per lavoro”, si legge nel rapporto. [5]
[1] Campani G., La diaspora cinese nel nuovo contesto delle migrazioni internazionali, in Campani G., Carchedi F., Tassinari A. (a cura di) L’immigrazione silenziosa Le comunità cinesi in Italia, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, 1992
[2] Lai-momo e Idos, Comunicare l’immigrazione, guida pratica per gli operatori dell’informazione, Roma 2012
[3] Carchedi F., Tassinari A. (a cura di) L’immigrazione silenziosa Le comunità cinesi in Italia, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, 1992, pag.4
[4]I dati emergono dal 5° rapporto “Diventare Laoban” (2011), ricerca realizzata congiuntamente dalla Camera di commercio di Torino e da Fieri (Forum internazionale ed europeo di ricerche sull’immigrazione).
[5] Fonte: Redattore Sociale, 27 giugno 2012
Ecco una serie di esempi tratti dai giornali italiani che tendono a rafforzare tutti gli stereotipi esaminati sui cinesi e i quartieri in cui è visibile la loro presenza.
Chinatown violenta, parla il primo pentito delle gang cinesi
Per la prima volta un collaboratore di giustizia della comunità orientale parla con un giornale italiano. E racconta della sua iniziazione, delle estorsioni e di come sono cambiate le feroci bande di giovani cinesi in azione per il controllo del territorio milanese
(sito internet di un settimanale nazionale, 20 marzo 2009)
L’articolo si sviluppa come una lunga intervista del giornalista al giovane cinese, da cui si può cogliere come attorno a ‘Chinatown’ si condensino tanti stereotipi, smentiti dalle risposte dell’intervistato e come sia evidente che la comunità risiede in luoghi diversi da dove si concentrano le sue attività. Abbiamo selezionato alcuni stralci in cui questo è più evidente .
Ma le bande con i loro affari non infastidiscono i mafiosi delle triadi cinesi?
Io in Italia non ne ho mai visto uno
I ragazzi delle gang usano con perizia nunchako, machete e arti marziali...
È una leggenda. Tra di noi non c’erano e, per quanto mi risulta, non ci sono emuli di Bruce Lee.
Dove viveva? A Chinatown?
No. I ragazzi delle bande vivono lontano da dove fanno affari. Io stavo in zona Mac Mahon, eravamo in cinque e dividevamo due stanze da letto. L’affitto e le altre spese li pagavano i capi. Cercavamo di non dare nell’occhio. Nel tempo libero giocavamo a carte o andavamo negli internet point.
Ragazze?
Nella banda non ce n’erano. Le frequentavamo all’interno della comunità. Avevamo storie uguali a quelle di tutti i giovani. L’unica differenza è che non ho mai visto una ragazza cinese drogarsi.
Chinatown, le città invisibili nel cuore d’Italia
Se non ci avesse già pensato vent’anni fa il regista John Carpenter, ciò che è accaduto a Milano si potrebbe giustamente intitolare: Grosso guaio a Chinatown, proprio come il film, dove i due protagonisti per liberare una bellissima ragazza dagli occhi verdi si perdono nei labirinti di una Chinatown dove tutto può accadere. Tutto. Perché il mistero e l’intrigo così come il sospetto con cui si difendono dai ficcanaso, nelle Chinatown del mondo, sono un dato di fatto. Esattamente come l’odore di wang tong fritti che ti viene incontro a Milano, in via Sarpi e dintorni, dove è scoppiata la rivolta di giovedì mattina.
(quotidiano nazionale, 15 aprile 2007)
Nel testo dell’articolo, di cui riportiamo alcuni stralci, non viene dato spazio alla voce della comunità cinese. Eccetto per la frase “basta con gli stereotipi” detta dal rappresentante di un’associazione. Inoltre si parla di ‘Chinatown’ romana per l’Esquilino anche se le cifre citate dicono che i residenti sono solo 300 e si parla di lavoratori abusivi ma non vengono riportati fatti in sostegno di questa tesi, a parte le dichiarazioni di alcuni esponenti politici che abbiamo tralasciato di riportare.
La maggior parte dei cinesi è arrivata in Toscana negli Anni ’80 ed è a Prato che si tocca l’81 per cento delle presenze col rischio costante di una collisione, come è successo, giusto una settimana fa, quando sette persone, due cinesi e cinque italiani, sono state denunciate dalla polizia per rissa aggravata. Il litigio è scoppiato in via Orti del Pero, in piena Chinatown. Cinesi e italiani si sono affrontati con bastoni e spranghe. Un segnale allarmante, confermato dalle dichiarazioni di Riccardo Marini, vicepresidente dell’Unione industriali: «I cinesi non rispettano le regole che noi siamo invece chiamati a rispettare. Loro si possono permettere di fare cose che noi non ci possiamo permettere. La comunità cinese ha tanto denaro, ma che colore ha questo denaro?».
Varcato l’arco di pietra arenaria della trecentesca Porta Pistoiese ci si rende subito conto che la comunità cinese, a Prato, è ormai una città nella città. In un Comune di 180mila abitanti i cinesi con regolare permesso di soggiorno sono 11.680, più che a Firenze (10.712), più che a Milano (10.716), più che a Roma (6.293). I bambini nati a Prato da genitori cinesi sono già 1.300. Nella Chinatown, però, i pratesi non ci vanno volentieri. «È un po’ come sentirsi stranieri in casa nostra» è la sintesi del pensiero generale. Tanto che il sindaco è stato costretto a firmare un’ordinanza contro la cattiva abitudine di tanti orientali di sputare per terra e di orinare dove capita, mandando i vigili urbani a farla rispettare. I cinesi di giorno lavorano nei capannoni e la sera in via Pistoiese riempiono i locali con l’insegna del Drago. Già, perché la via Pistoiese è diventata l’arteria-simbolo delle Chinatown in Toscana. E Prato la capitale dei cinesi in Europa. Su 7.000 imprese della provincia, più di 1.500 sono cinesi, una concentrazione senza pari nel Continente. Vittima della concorrenza cinese, che le è costata 4.800 posti di lavoro in due anni, Prato è turbata dagli imprenditori del sud della Cina. Ma intanto gli immigrati cinesi chiedono più attenzione. Come si è ascoltato alle Giornate dell’Interdipendenza sulla Cina, organizzate in marzo a Montepulciano. Tra gli interventi quello di Bai Junyi, che risiede proprio a Prato ed è uno dei fondatori di Associna.com, il sito di riferimento per la seconda generazione dell’immigrazione in Cina, che si propone di stabilire un dialogo tra la comunità cinese e quella italiana. Bai Junyi ammette: «Siamo un po’ silenziosi è vero, ma basta con gli stereotipi. Sta a noi, nati in Italia, sconfiggere ora i pregiudizi». […]
In compenso a Roma, dove la comunità cinese si concentra al quartiere Esquilino, a ridosso della stazione Termini, vige una tolleranza eccessiva. […]Del resto secondo stime dell’anno scorso della Questura ci sarebbero a Roma ventimila cinesi irregolari. Trecento sono i residenti all’Esquilino, anche se poi sono in 2.000 a lavorare abusivamente e a vivere in locali subaffittat
CHINATOWN DI PRATO DOVE LO STRANIERO È L'ITALIANO
Il ministro Ronchi nelle vie del quartiere cinese
La prima sensazione entrando nella Chinatown più grande d'Italia, quella della città toscana di Prato, è olfattiva. Il profumo delle spezie e dell'olio fritto aggredisce violentemente le narici.
(sito internet di un quotidiano nazionale, edizione locale, 19 marzo 2009)
Siamo nelle terre del Chianti e della ribollita ma qui, a poche centinaia di metri dal centro medievale, la cultura e i sapori italiani sono un optional. E ieri è stato il ministro delle politiche comunitarie, Andrea Ronchi a voler toccare con mano le conseguenza di un'integrazione che non ha creato problemi ai vecchi abitanti della zona cinese di Prato. Li ha semplicemente fatti sparire. Già gli italiani in quel quartiere non ci sono più. Hanno lasciato le loro case, le loro attività, cedute ai primi colonizzatori orientali senza comprendere la rivoluzione che avanzava e che oggi è completa.
Nella via che porta alla Piazzetta (così i toscani chiamano uno spiazzo tra due palazzi dove ogni giorno gli ambulanti cinesi vendono mercanzie di ogni genere. Senza permesso ovvio) le insegne ricordano il cromatismo delle capitali asiatiche. […]Un lembo di terra che oggi non sembra più un pezzo d'Italia. […]
Già. La legalità e la tolleranza. Facili a parole, ma difficili da far digerire a migliaia di persone con gli occhi a mandorla scrutano il seguito del ministro con curiosità. Ma anche con un'indifferenza malcelata che non perde di vista il movimento dello straniero. Solo che questa volta lo straniero è l'italiano nella sua terra. Ce ne sono pochi ancora qui. Ma quelli che restano vogliono resistere. Come delle piccole fortezze. Una di queste è la Utensil Ferramenta del signor Paolo. Un'attività italiana al centro di Chinatown. «I cinesi non ci creano problemi dal punto di vista della sicurezza. Ma le regole sono solo un optional. Davanti alla vetrina si fermano commercianti ambulanti non autorizzati. E nel mio negozio non entra più nessuno. Ma io resisto. Non mollo».
Milano, rivolta a Chinatown Scontri, feriti e auto distrutte
Quasi una guerriglia urbana nel popolare quartiere di via Sarpi
Tutto è nato dalla multa a una commerciante che scaricava merci fuori orario
La protesta è degenerata. Solo intorno alle 14 le cariche sono cessate
Il sindaco Moratti: "Le regole vanno garantite, non tolleriamo zone franche "
(Quotidiano nazionale, edizione online, 12 aprile 2007)
MILANO - Corteo con bandiere, cariche della polizia, feriti, auto distrutte. La rivolta di circa trecento cinesi è scoppiata nella piccola "Chinatown" di Milano nella zona di via Sarpi. I disordini sono scoppiati intorno alle 13 quando la polizia ha multato una commerciante cinese. La protesta della donna, molto veemente, ha scatenato una reazione violenta da parte dei connazionali accorsi. Rapidamente, la protesta si è trasformata in una specie di guerriglia urbana con cariche e contrattacchi che è durata un paio d'ore.
Un primo bilancio degli scontri è di 5 feriti tra i manifestanti cinesi mentre il vice sindaco Riccardo De Corato ha dichiarato che sono 14 i vigili rimasti feriti. Nove di loro sono ricoverati al Fatebenefratelli, 3 in radiologia mentre 6 sono stati medicati. Altri quattro poliziotti risultano contusi.
Nel tardo pomeriggio, il sindaco Letizia Moratti ha tenuto una conferenza stampa nella quale ha difeso l'operato delle forze dell'ordine: "Nella nostra città - ha detto - non tolleriamo zone franche. Ci dispiace per quello che è avvenuto oggi, ma l'amministrazione manterrà la sua posizione". […]
La polizia municipale sospetta che l'episodio sia stato premeditato, ma il console cinese a Milano, Limin Zhang, ha respinto questa ipotesi. "Smentisco nel modo più categorico - ha dichiarato - che sia possibile che gli incidenti di stamani siano stati in qualche modo preorganizzati o premeditati dalla comunità cinese". Il console si è dato da fare per far tornare la calma, ma anche sostenuto di voler garantire fino in fondo i diritti dei suoi connazionali: "Aspettiamo la liberazione della donna - ha dichiarato - perché la situazione si calmi. Voglio sapere chi ha sbagliato, sono qui per capire, e per proteggere gli interessi legali dei commercianti cinesi che pagano le tasse e sono in regola". Limin Zhang ritiene che, ultimamente, la pressione sulla sua gente sia esagerata e che il divieto di far circolare i carrelli per le merci sia esagerato.
La "battaglia" è proseguita per diverso tempo con i gruppi di cinesi in rivolta che si rifiutavano di lasciare la sede stradale. Due auto della polizia sono state distrutte e ribaltate. Danneggiate anche altre macchine in sosta. Alcuni testimoni hanno riferito di aver visto un agente colpire un ragazzo con il calcio della pistola. In via Niccolini, un centinaio di cinesi si sono praticamente asseragliati sventolando bandiere della Cina.
"Tutti i giorni mi fanno una multa" ha dichiarato Ling Xiu, una commerciante della zona, cercando di spiegare le ragioni della protesta. "Noi siamo qui per lavorare. Non siamo mafiosi, non uccidiamo nessuno, lavoriamo e basta pagando le tasse. Lei mi deve spiegare perché tutti i giorni i vigili mi fanno una multa. Glielo dico io perché, perché la polizia vuole il male dei cinesi. Infatti gli italiani possono lavorare, ma a noi lo impediscono. E adesso mi hanno chiuso il negozio, come faccio a dare da mangiare ai miei figli? A pagare l'affitto di casa?".
[…]
Nel frattempo il corteo si è trasformato in presidio, bloccando il traffico quasi in tutta la zona. Più tardi un italiano sui trenta anni ha gridato contro i manifestanti: "E' giusto che i cinesi vengano picchiati". L'uomo è stato salvato dal linciaggio da parte delle forze dell'ordine che lo hanno sottratto dagli aggressori.
Per tutto il pomeriggio alcune centinaia di esponenti della comunità cinese hanno mantenuto il presidio tra via Sarpi e via Bramante. I manifestanti hanno esposto striscioni con scritte contro i vigili e non solo: "Chiediamo diritti civili", "Basta violenze sulla comunita' cinese", "Basta razzismo". Dopo essere stati invitati dal console a sciogliere il presidio, sono state avviate una serie di assemblee spontanee per decidere il da farsi. Una parte di loro, soprattutto i giovani, vorrebbe proseguire la protesta con un corteo nel quartiere.
La rabbia di Chinatown "Italiani sempre più razzisti"
CAPITALE VIOLENTA
"Non passa giorno senza che qualcuno ci insulti, conosco almeno venti dei nostri derubati negli ultimi mesi"
"Lo sapevo che prima o poi sarebbe successo qualcosa di grave, qui ci detestano, ci trattano male tutti"
"Viviamo nella paura. Molti di noi che fanno i commercianti si sono tassati per assumere guardie del corpo"
(quotidiano nazionale, edizione online, 7 gennaio 2012)
Sono asserragliati dietro le loro vetrine scintillanti, in una Chinatown romana che ha una rabbia sorda, soffocata. Qualcuno sta andando in piazza Vittorio per fare una colletta, vuole assumere guardie del corpo per difendere i commercianti. Non ne possono più di scippi e rapine. E oggi c'è anche il morto. Uno di loro.
Parla Wang Chi: "A me dicono "cinese di merda" almeno una volta al giorno e ne conosco almeno venti di miei connazionali che sono stati derubati negli ultimi tre mesi". È commesso in un negozio di via Napoleone III e adesso è seduto in un ristorante deserto al civico 16 di via Foscolo. Lui lo conosceva Zhou Zheng, il cinese ammazzato con la sua piccola a Tor Pignattara. Ricorda Wang: "Da dieci anni che ci incontravamo ma non ho mai avuto molto a che fare con lui, solo saluti veloci. Non sappiamo ancora perché l'hanno ucciso. Qui, a Roma, per noi sta diventando davvero difficile sopravvivere. Gli italiani stanno diventando molto razzisti".
[…]
Dietro piazza Vittorio, su per via di San Vito non c'è più un esercizio commerciale di proprietà o gestito da un romano. Da un po' di anni i cinesi hanno buttato fuori anche i magrebini. Cinese è anche la ragazza del bar all'angolo, "Il Piccolo Caffè" che vende panini a 1,50 euro: "Lo sapevo che prima o poi sarebbe successo qualcosa di grave, qui in Italia ci detestano, ci trattano male tutti". Odia l'Italia? "Forse sì, forse stasera odio l'Italia", risponde lei. "Odio l'Italia", lo dice anche una vicina di casa del povero Zhou, una dei 20 o 30mila cinesi che abitano nella capitale italiana. Il numero esatto non lo conosce nessuno. Però tremano tutti nella Roma "gialla".
Qualche mese fa, i commercianti dell'Esquilino si sono già tassati una prima volta. Hanno assunto guardaspalle, sei, quattro italiani di un'agenzia di sicurezza e due di loro che gli fanno da traduttori. "Il problema della criminalità nella nostra comunità è gravissimo", spiega Hu Lanbo, una signora cinese di cinquantadue anni e che da ventidue, dopo aver sposato un italiano, vive a Roma. Hu dirige un mensile bilingue - "Cina in Italia" - dove in ogni numero scrive del disagio e delle paure degli emigranti di Pechino. "La situazione è peggiorata moltissimo nelle ultime settimane, ma mai avremmo immaginato che potesse accadere qualcosa di così crudele". Secondo lei c'è davvero odio per gli italiani, come in queste ore dice qualche cinese in preda all'emozione? "No, non credo che ci sia odio per l'Italia e per gli italiani, c'è odio per gli assassini".
Via Carlo Alberto, un'altra delle strade solo cinesi di Roma. Su un neon c'è scritto Xin Shin, dentro sono in due, fratello e sorella che vendono niente a nessuno. Il locale è pieno di borse, di scarponi, piatti, giocattoli, televisori. Lei al computer e lui è sprofondato in una poltrona. Lei alza gli occhi e racconta: "Noi abbiamo paura, per strada ci insultano, ci trattano male, l'altra settimana hanno fatto uno scippo a una mia amica: così, solo perché era cinese". Lui non apre bocca. Poi si alza e bisbiglia: "Io non voglio parlare di queste cose, io non so niente, non so nulla di quello morto sulla Casilina". Poco più su c'è la parrucchiera Xin Chao. È piena di donne. Shampoo e piega 8 euro. Shampoo, piega e taglio 10 euro. Donne sospettosisime. Dice una: "Chissà perché l'hanno ucciso in quel modo". Dice un'altra: "Non c'è lavoro, noi stranieri siamo troppi e molti italiani si arrangiano, diventano criminali. Magari li prenderanno e diranno che sono sbandati, drogati..".
Via Rattazzi, via di Sant'Antonio all'Esquilino, via Emanuele Filiberto. I nomi dei negozi sono mischiati come i caratteri. Vita bella. Piccola Cina. Lago Azzurro. Ruye Sciarpe. È una linea continua di insegne, di money transfer, di internet cafè. Una folla che va e viene in ogni angolo tranne che nei grandi magazzini di abbigliamento. Lì dentro non vola una mosca. Mai un cliente. Mai una vendita al dettaglio. E sui marciapiedi davanti alle vetrine i Suv dei padroni , Bmw, Mercedes, Volvo. Suzuki. È l'altra faccia della Chinatown romana. Quella più nascosta che poi è anche quella più visibile. Sono lì in bella mostra automobili da 80 mila e da 100 mila euro e non un'anima viva fra i manichini spogli. Sembrano intoccabili questi signori delle griffe fasulle. Altri misteri di una Chinatown che sta scivolando nel terrore.