Disperato è un aggettivo, participio passato del verbo disperare. Riferito alle cose, significa "che non dà luogo a speranza, irrimediabile: è un caso davvero disperato; impresa disperata ;un tentativo disperato, un pianto disperato, urla disperate" (Treccani). In questa accezione ha anche un senso simbolico, riferito alle persone, ad esempio viene dato per disperato il malato giudicato ormai inguaribile.
Riferito alle persone significa: "che non ha più speranza in qualche cosa", "che è in preda alla disperazione". E qui si passa all'uso sostantivato: urlare come un disperato. "Di persona che riconosce inutili tutti i suoi sforzi, o che non vede via d’uscita da una situazione, che non sa più a che santo votarsi". Ma anche "che non possiede più nulla, spiantato, squattrinato: è gente disperata. In questo senso ha anche un'accezione negativa di "persona malvagia, che vive di delitti e di ribalderie".
Disperato nasce come aggettivo ma è frequente l'uso sostantivato di questa parola, soprattutto al plurale. Si legge spesso, ad esempio, di un "esercito di disperati". Come nel caso di altri aggettivi sostantivati (ad esempio 'clandestino'), la parola porta con sé un forte giudizio morale e quindi un rischio di stigmatizzazione e di riduzione dell'essere umano a una sola caratteristica, quella, appunto della disperazione.
Questa parola potrebbe essere considerata un "falso amico", perchè a differenza di 'clandestino' di cui è evidente la portata negativa, 'disperato' può sembrare un termine che giustifica la condizione di disagio e che la colloca in un'ottica caritatevole, quindi positiva tutto sommato. Ma in realtà è un termine che è fuorviante nella rappresentazione dei fatti fornita all'opinione pubblica. Il regista Andrea Segre spiega il perchè.
"Una parola contro cui lotto spesso è ‘poveretti’ perché è quella forma di pietismo che costruisce la stessa distanza della parola clandestini - commenta Segre - il meccanismo costruito è una deresponsabilizzazione: è come se alle persone toccasse in sorte un destino indipendente dalla nostra vita, destino amaro e triste, rispetto al quale il massimo che possiamo fare è provare pietà. Poveri, poveretti, disperati, è un giudizio e serve per fare sentire meglio le persone che lo leggono". Secondo il regista di documentari sociali importanti come "Il Sangue Verde" sulla rivolta di Rosarno e di "Come un uomo sulla terra" e "Mare chiuso" sulle questioni dei migranti forzati, del controllo delle frontiere e dei respingimenti in mare, "questo è un approccio frequente sul caso Rosarno."
"Quando è uscito Come un uomo sulla terra, ci è spesso capitato che ci dicessero ‘vogliamo parlare dell’aspetto umano’ (legato a quella cosa del poveretto) e io dicevo ‘perché? Non volete parlare dell’aspetto politico? - continua Segre - Molto spesso collegato a queste dinamiche della compassione che mantiene la distanza c’è quell’errore di chiamare i Cie, centri di accoglienza. (vedi). E' una comunicazione che produce distanza, vengono descritti come centri in cui diamo accoglienza ai ‘poveretti’. Non è semplice cambiare una parola, alcune nascono come fortemente stigmatizzanti, altre possono assumere un significato stigmatizzante con l’uso".
Un'altra etichetta frequente in questi casi è la parola invisibile. "E' un’etichetta che piace ai giornalisti per denotare un fenomeno che in realtà è visibilissimo ma che va guardato con occhi diversi, l’invisibile non è colui che non vedi, è colui al quale passi accanto senza neanche accorgertene - dice Paolo Pezzana, presidente di Fio.PSD (Federazione italiana organismi per le persone senza dimora) - Questo termine viene usato sempre di più per denotare la povertà. Non viene usato, ad esempio, per i Rom che secondo lo stereotipo comune sono anche troppo visibili. Quella di invisibilità è una categoria che a noi piace, ci teniamo a precisare che si tratta di un’invisibilità relazionale e sociale. Invisibile rispetto alle politiche, all’inclusione sociale". Con questa accezione è frequente trovare anche la parola "fantasmi".
“Hotel dei disperati” iniziata la demolizione
Lo stabile in via Trento, una ex falegnameria, era stato sgomberato più volte. Rifugio per immigrati clandestini e sbandati, era diventata sede di spaccio
(quotidiano locale, 5 gennaio 2012)
La maggior parte degli articoli che riportiamo inquadra anche la questione dei "disperati" nell'ottica della 'sicurezza' e della lotta al cosiddetto "degrado". Un cliché che si ripete è la definizione "hotel dei disperati" oppure "albergo dei disperati" per indicare giacigli e ripari di fortuna ai margini della società, ma spesso nel cuore delle città. Come vediamo si tratta di termini che creano distanza con un approccio pietistico. Una volta creata la distanza fra il pubblico e i cosiddetti "disperati", diventa facile inneggiare al loro 'sgombero' o al 'blitz'. Si plaude alla reclusione nei Cie dei migranti irregolari rintracciati, senza però descrivere le condizioni disumane dei centri di identificazione e di espulsione, l'informazione sembra dunque 'orientata' e monca. Per le parole 'clandestino' e 'Cie', oltre che l'uso scorretto delle nazionalità e della parola 'etnia' rimandiamo alla sezione immigrazione, così come per la questione Rosarno, sfruttamento e caporalato.
Infine riportiamo un articolo sugli 'invisibili più famosi d'Italia' che ben esemplifica quanto detto sull'uso di questa parola a proposito di una condizione di esclusione sociale e relazionale. E subito dopo un articolo che stigmatizza l'uso di questo termine che viene sempre riferito ai migranti con una buona dose di vittimismo. I migranti, si dice, sono in realtà 'visibilissimi' mentre chi non compare mai nelle cronache e nelle campagne italiane è la vasta rete di sfruttatori insospettabili e multinazionali, responsabili di un modo di produzione basato sull'economia in nero e il lavoro paraschiavistico.
Stazione, blitz nell’albergo dei disperati: sgomberati 20 immigrati
La polizia ha trovato una ventina di persone, tra cui tunisini, italiani e africani. Convivevano in alcuni giacigli nell’ex area di carico delle merci
(edizione online di un quotidiano locale, 14 marzo 2012)
PADOVA. L’albergo dei disperati sorge a due passi dal binario 1, a qualche centinaio di metri dall’ingresso della stazione ferroviaria, nel luogo in cui ogni giorno transitano migliaia di pendolari, manager, studenti, impiegati, operai e turisti. Un gruppo di persone senza più speranze né futuro aveva accatastato cartoni e coperte, creando giacigli per trascorrere giorno e notte, in una città che evidentemente non ha offerto altre soluzioni. La scoperta è stata fatta ieri mattina dalla task force della questura, coordinata dal vice questore aggiunto Vincenzo Resta e dal commissario capo Pasquale Scognamiglio. Polizia ferroviaria, squadra volante, nucleo cinofili e alcuni addetti alla “protezione aziendale” di Trenitalia si sono presentati all’alba nella baraccopoli ricavata lì dove un tempo venivano caricati i treni merci. In questo piano rialzato poco lontano dal binario 1, un gruppo di senzatetto aveva allestito quella che nell’ultimo mese era diventata quasi come una casa. Il 7 marzo scorso proprio la rete di “protezione aziendale” di Trenitalia aveva segnalato alla polizia la presenza ormai costante dei senzatetto. Così il questore Vincenzo Montemagno ha organizzato il blitz scattato ieri mattina all’alba. In tutto sono state accompagnate in questura 8 persone, tra cui 6 tunisini, un marocchino e un iracheno: tutti clandestini. I loro nomi sono stati inseriti nella banca dati della polizia e su di loro ora pende un ordine di espulsione firmato dal questore. Ma tra gli ospiti di questo albergo dei disperati c’erano anche 6 italiani, tra cui due donne: persone senza lavoro, senza una casa, senza una famiglia. Persone che forse provano vergogna anche a chiedere aiuto ai servizi sociali e che per questo hanno scelto la vita di strada, all’addiaccio, nell’altra Padova, quella della disperazione. Del gruppo facevano parte anche alcuni giovani africani richiedenti asilo politico, che probabilmente hanno smarrito la strada delle istituzioni e dei benefici previsti dall’ordinamento. Il servizio organizzato dalla questura però era iniziato già il giorno prima, con i controlli a Chiesanuova, all’Arcella e alla Stanga. Tre tunisini clandestini sono finiti in questura e due di questi saranno spediti al Cie (centro di identificazione ed espulsione) di Bologna. Sul fronte polizia resta sempre in piedi infatti il cosiddetto “modello Padova”, voluto e istituito dal questore Vincenzo Montemagno per togliere il degrado dalle strade cittadine. L’obiettivo primario infatti resta quello di individuare i clandestini che bivaccano in città alimentando la microcriminalità e di allontanarli da Padova. In pochi mesi il conteggio totale degli stranieri finiti nei centri di identificazione ed espulsione dislocati in tutta Italia ha superato abbondantemente quota 200. E i servizi ad hoc continuano ad essere organizzati a cadenza regolare, con un impegno veramente massiccio da parte degli agenti di tutti i reparti della questura, compreso ovviamente l’ufficio immigrazione diretto dal funzionario Francesca Cimino.
Ex foro boario di corso Australia, albergo dei disperati: sgomberati 39 clandestini
Intervento dei carabinieri in corso Australia, negli edifici dell’ex Foro Boario. L’assessore Carrai: «L’area sarà presto recuperata per evitare il degrado»
(edizione online di un quotidiano locale, 30 ottobre 2013)
PADOVA. Era stata occupata nuovamente da senzatetto l’area dell’ex Foro Boario di corso Australia. I carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale hanno trovato e denunciato a piede libero 39 cittadini stranieri di etnia Serba e Rumena che abusivamente occupavano gli edifici dismessi. Non è la prima volta che l’area diventa l’albergo dei disperati, persone senza fissa dimora fanno del posto il loro ricovero notturno, vivendo in condizioni igienico-sanitarie a dir poco precarie e creando una situazione di degrado non indifferente. E pensare che un’idea per la riqualificazione della zona ci sarebbe ormai da tempo, «L’ex macello dovrebbe diventare uno spazio dedicato alla cultura. Da un luogo di degrado con poco si potrebbe trasformare in punto di aggregazione per giovani, favorendo anche un rilancio occupazionale», questa la visione di Piero Ruzzante consigliere regionale del partito democratico, «il luogo sarebbe ideale per questo tipo di iniziative ed eventi dedicati ai ragazzi, non ci sarebbero problemi di rumore, non ci sono case nelle immediate vicinanze, la zona è vicina al centro e ci si può raggiungere comodamente a piedi o in bici, grazie alla pista ciclabile» continua Ruzzante, «il teatro Geox ha già contribuito notevolmente a riqualificare la superficie limitrofa a corso Australia, imponendosi come presenza importante per quel che riguarda il panorama degli eventi musicali nel nord Italia. Il massimo sarebbe poter sfruttare positivamente anche l’area dell’ex macello. Potremmo caratterizzarci come città della musica, del rock, del live, del teatro. Per ora questa rimane un’idea che più volte però il pd ha cercato di rilanciare». Favorevole al recupero dell’area dell’ex Foro Boario anche l’assessore alla Polizia municipale, Marco Carrai: «È una zona che si presta ad essere occupata da questi personaggi, generalmente dell’Europa dell’est, che creano il loro asilo notturno ma che spero presto venga recuperata e destinata ad occupazioni decisamente più positive. Ad esempio uno degli edifici dell’ex macello sarà a breve ristrutturato e dato alla protezione civile, 150 volontari si trasferiranno in quella sede. Per riqualificare completamente la zona bisognerà poi trovare qualcuno investa sul resto degli immobili», spiega Carrai, «c’è da dire però che le forze dell’ordine attualmente seguono l’area con grande attenzione per evitare proprio che si instauri una situazione di degrado permanente».
Video
Le ruspe nell’hotel dei disperati
(video all'interno dell'edizione online di un quotidiano nazionale, 18 febbraio 2014)
Collegno, abbattuta l’ex acciaieria Mandelli
Questa mattina le ruspe hanno iniziato ad abbattere baracche e muri dell’ex acciaieria Mandelli di Collegno. Dalla metà degli anni 2000 era diventato rifugio di centinaia di rom dove tra rifiuti e macerie hanno vissuto e giocato molti bambini. Un vero e proprio «hotel disperazione». Da oggi iniziano i lavori di ripulitura che dureranno sei mesi circa. Poi verranno realizzate vie interne e aree verdi e a seguire anche un primo insediamento abitativo.
Esodati, immigrati e clochard viaggio tra le roulotte dei disperati
Da Prati all'Eur la mappa della città-dormitorio
(edizione online locale di un quotidiano nazionale, 21 febbraio 2014)
C'è chi dopo tre matrimoni falliti ha perso tutto. Chi per sopravvivere fa il parcheggiatore abusivo e chi, segnato dagli anni a cielo aperto, ha finalmente trovato un tetto sotto cui dormire e ricambia ripulendo i marciapiedi dalle erbacce. Sono i tanti invisibili della capitale che vivono in mezzo alla strada ma lontani dalla gente, eccezione fatta per i volontari di associazioni come la Caritas e la Croce Rossa che li assistono con coperte, vestiti nuovi e pasti caldi. Un'emergenza sociale ignorata dai più, tranne quando l'indigenza non si trasforma in tragedia. Come è stato per Joseph White Clifford, l'indiano di 57 anni che lunedì notte è uscito dalla sua roulotte di via Garibaldi e ha ucciso a colpi di cacciavite Claudio Macro perché disturbato dalla musica troppo alta. Sono circa 2000, forse 2500, i senzatetto che d'inverno sfuggono al freddo della capitale trovando rifugio in minicaravan, camper, furgoni o semplici automobili parcheggiati sul ciglio delle strade. Alloggi di fortuna comprati con i pochi risparmi oppure offerti dalla Comunità di Sant'Egidio, che negli anni ne ha donati ai più bisognosi circa una ventina. Oltre a quelle ferme al Gianicolo, le roulotte di Sant'Egidio sono sparse un po' per tutta Roma. Se ne trovano a via Ramazzini (nel quartiere Gianicolense), a via Giovanni da Empoli (Testaccio) e a via Giustiniano Imperatore (San Paolo). Vere e proprie "case con le ruote" che, spiega Rinaldo Piazzoni, "la Comunità riceve in regalo per poi metterle a disposizione di chi ne ha bisogno". Ma, denuncia Fabrizio Santori, consigliere regionale della Destra che nei giorni scorsi ha chiesto le dimissioni dell'assessore alle Politiche Sociali, Rita Cutini, perché legata a Sant'Egidio, "le roulotte non potrebbero stare lì: per posizionarle servirebbe un permesso a costruire. Poi è una questione di sicurezza, oltre che di degrado".[...]
Tendopoli Rosarno, fra gli invisibili più famosi d'Italia
Senza acqua né luce, aspettano ogni giorno un ingaggio dei caporali, per la raccolta delle arance. I sindaci: "Non ce la facciamo più". L'altro giorno, un immigrato è morto. E il suo posto in tenda è stato subito occupato
(edizione online di un quotidiano nazionale, 16 dicembre 2013)
SAN FERDINANDO (RC) - Guardano il cielo, dicono che "non è buono". Dal freddo si riparano nei sacchi a pelo portati dalla Prefettura o tra le coperte pesanti che la gente della Piana di Gioia Tauro ha regalato, ma quando piove non c'è verso. E' un disastro. L'acqua filtra dalle cuciture delle tende, si infila tra i teloni di plastica, sale da sotto il nylon del pavimento. E inzuppa tutto. Ti raccontano che "dopo un po' la senti nelle ossa e che con il gelo della notte diventa ghiaccio. Ti blocca le ginocchia, i gomiti e la schiena e non ti muovi più. Speri solo che venga l'alba per fare qualcosa, qualsiasi cosa pur di uscire, di andare a cercare un po' di luce e di calore, speri di muoverti, di lavorare".
Quest'anno è anche più dura del solito per i migranti che vivono ammassati nella tendopoli di San Ferdinando. Non hanno luce, niente con cui scaldarsi, non ci sono i pentoloni dei volontari che al mattino e alla sera facevano bollire latte e minestra. Quest'anno non c'è nessuno. Settantadue tende del Ministero dell'Interno, alcune altre decine di baracche improvvisate con legni, cartoni e teloni raccattati in giro. Ci vivono accatastati in 800, forse di più. Solita storia, sono gli invisibili più noti d'Italia, eppure continua a non vederli nessuno. Non c'è elettricità in quel fazzoletto di terra incastrato tra i capannoni vuoti dell'area industriale a ridosso del Porto di Gioia Tauro. Niente luce e niente acqua calda. Ufficialmente neanche fredda, poi qualcuno impietositosi ha fatto un allaccio abusivo. Uno di loro tira fuori la testa da una tenda e ne indica una che sta di fronte: "Se cerchi la il posto dove è morto il liberiano è quello". Il liberiano si chiamava Man Addia, aveva 31 anni, ed è morto la notte tra il 27 e il 28 novembre. Stava male da prima, si era portato nel cuore della Piana la bronchite che si trascinava da mesi. Ma il freddo è stato decisivo, se lo è preso nel giro di pochi giorni. Per seppellirlo, il comune di San Ferdinando ha messo duemila euro, per il resto delle pratiche ci ha pensato il sindaco di Rosarno Elisabetta Tripodi. Il posto di Addia alla tendopoli lo ha preso il giorno stesso un altro. Anche i tetti di telo sono merce rara da queste parti. I più disperati se li vendono. Se non trovi un "padrone" che ti fa raccogliere le arance o i mandarini per 20 euro al giorno, diventa persino più dura di quello che è normalmente. Devi essere bravo a raccogliere, veloce e preciso. Non devi rovinare gli alberi e devi avere un caporale a cui stai simpatico. La simpatia si traduce in due semplici parole: "forza" e "silenzio". Arrivano con i furgoni alle 6 del mattino, li caricano e poi li distribuiscono nei campi. La paga è di 25 euro, 5 vanno al caporale, gli altri al "nero". Chi resta a terra inizia a vagare per il paese o nelle campagne. E spera. Per fortuna non ci sono tensioni con la gente del posto. "Per ora va bene. Per ora", sottolinea il sindaco di San Ferdinando, Domenico Madaffari. Anche domenica mattina Madaffari era alla tendopoli. "Non so più che fare. Sono rimasto solo, con tutti questi disperati sotto gli occhi e niente che io riesca ad ottenere per loro. [...] Camminiamo che sembra di stare nelle favelas. [...]
I migranti di San Ferdinando sono "invisibili", come i 120 che vivono nei container di Rosarno e gli almeno altri 2 mila che stanno nascosti nei casolari e nelle baracche in mezzo alla campagna. Un popolo di fantasmi. Di invisibili loro malgrado [...]
Lavoro migrante in agricoltura: emergenza o modo di produzione?
I veri invisibili delle campagne: multinazionali e grande distribuzione
Gli schiavi e i caporali. Gli africani “poverini”. Le tendopoli e l’accoglienza. Una retorica paternalista che nasconde i veri invisibili della campagne. I migranti sono ripresi, fotografati, raccontati. Le multinazionali no. Eppure quello del Sud Europa è un vero modo di produzione: sfruttamento estremo, migranti ricattabili. E costi bassi
(sito internet, 23 aprile 2014)
Sembra di leggere sempre lo stesso articolo. Gli schiavi, i disperati, i caporali e i clandestini. La questione del lavoro migrante in agricoltura è affrontata da anni sempre allo stesso modo. Pietismo e complottismo. Da Rosarno a Foggia, da Latina a Cassibile. Testi, rapporti e video mortalmente noiosi. Che raccontano una rete paramafiosa di “cattivi” che sfrutta e trasporta “i nuovi schiavi” da una campagna all’altra. Povere vittime “a una dimensione” senza volontà e capacità di rivalsa. Una visione falsa che nasconde una realtà difficile da raccontare, specie per i media a corto di risorse pubblicitarie. Esistono davvero gli invisibili delle campagne. Sono le multinazionali del pomodoro e del succo di frutta. Sono i padroni dei vini pregiati. Sono gli intermediari mafiosi padroni di aziende. [...]