Non è facile definire lo sfruttamento, il lavoro servile e quello para-schiavistico, perché c’è una linea di continuità tra sfruttamento e schiavitù. Si tratta di gradi di diversa intensità di esclusione economica, lavorativa e relazionale. Si può immaginare un asse dove il punto di partenza è il lavoro garantito, poi c’è quello non garantito e il lavoro svolto completamente in nero, con forme di sottomissione violenta. Su quest’asse ci sono quelli che sono sfruttati un ‘poco’, quelli molto sfruttati, quelli sfruttati sull’orlo della schiavitù, per poi oltrepassare il confine. Non c’è un modo facile e perfettamente chiaro per dire se uno è schiavo o no. Secondo i sociologi Francesco Carchedi e Martino Mazzonis[1], la differenza sta nella violenza solo minacciata oppure effettivamente praticata sul lavoratore. Questo distinguerebbe la condizione servile (la prima) da quella para-schiavistica, con totale privazione dei caratteri della persona. I luoghi dove è possibile riscontrare le forme di lavoro paraschiavistico sono tutti quelli del sommerso, come agricoltura ed ediliza. Tornando all’immagine dell’asse, il lavoro para-schiavistico rappresenta il segmento più estremo del lavoro nero, connotato dall’assenza di libertà decisionale. Questo nasce dalla necessità di alcuni immigrati di accettare qualsiasi condizione lavorativa per la propria sussistenza, spesso a causa dell’assenza di permesso di soggiorno o del ricatto del sequestro dei documenti. (vedi anche la voce Caporalato)
Per condizione servile si intende “uno stato socio-economico e socio-psicologico che si instaura tra diverse persone, dove le une detengono il dominio e il potere decisionale incontrastato sulle altre. Il dominio in questi casi non è basato generalmente sulla violenza, ma sulla ricerca del consenso, sul ricatto e sul raggiro finalizzati a perpetuare lo stato di sudditanza. Inoltre un ruolo specifico è svolto dalla vicinanza fisica (in contrasto con la distanza psicologica) e dalle forme di coabitazione”.[2] È questo, ad esempio, un caso riscontrabile tra le assistenti domiciliari (vedi la voce badante)
Per condizione para-schiavistica si intende invece quella condizione “nella quale si registrano forme di sfruttamento basate sul dominio e sulla completa coercizione. Il fattore che la caratterizza è la mancanza di libertà. In questo tipo di relazioni la caratteristica sembra essere la distanza tra le parti in causa, distanza necessaria a mantenere il rapporto sui binari della completa soggezione forzata delle vittime”[3]. Questo rapporto si basa su due aspetti contrapposti: da un alto lo sfruttamento intensivo finalizzato a rapidi guadagni e profitti, dall’altro la necessità di non degradare troppo la fonte di guadagno stessa (ossia le persone sottomesse) per non renderle inattive e impossibilitate a produrre ulteriore ricchezza. È diverso il ruolo della vittima del rapporto di sfruttamento para-schiavistico e il ruolo di quanti accettano volontariamente tale rapporto. Nel primo caso vige l’assenza assoluta di volontà, nel secondo è presente almeno nella fase di ingresso, ed è ipotizzabile un livello minimo di negoziazione.
La tratta (vedi) per sfruttamento sessuale ha le caratteristiche del lavoro servile e di quello para-schiavistico. Da un lato c’è spesso la soggezione affettiva tra le ragazze e il protettore, dall’altro i redditi percepiti sono insufficienti. Esiste poi anche la piaga dello sfruttamento sessuale dei minori.
Vedi anche la voce Caporalato
[1] F. Carchedi, M. Mazzonis, “La condizione schiavistica. Uno sguardo d’insieme” in F. Carchedi, G. Mottura, E. Pugliese (a cura di) “Il lavoro servile e le nuove schiavitù”, FrancoAngeli editore, 2003
Quando usare “schiavo” e “schiavistico” oppure parlare di persone soggette a grave sfruttamento? Sui primi due termini, dice il sociologo del lavoro Enrico Pugliese: “in genere se ne fa un uso puramente evocativo, senza riferimento specifico a una realtà concreta”[1]. Come essere quindi più precisi nell’informazione da dare al lettore? “L’indicatore principale della condizione di schiavitù è ovviamente la privazione – o la pesante limitazione- della libertà personale di un individuo da parte di chi esercita il potere nei suoi confronti- spiega ancora Pugliese – Il concetto è semplice solo all’apparenza, la limitazione della libertà si può esprimere in modi vari e con diversi livelli di gravità”. Innanzitutto, va operata una distinzione tra trafficking , traffico o tratta di manodopera e smuggling che è l’attività di trasporto illegale che rientra nel contrabbando di persone. “Non si può parlare in generale di traffico di manodopera- dice ancora lo studioso - Bisogna comprendere che l’arrivo di manodopera destinata a essere utilizzata in Italia anche attraverso il controllo di caporali o altri intermediari sul mercato del lavoro italiano, non è organizzato da questi intermediari. Dalla partenza alla collocazione lavorativa non è sotto il controllo di una persona o di una organizzazione”[2]. Solitamente, non esiste una sola rete criminale che fa giungere le persone in Europa con il proposito di sfruttarle nel lavoro nero, come succede invece con la tratta ai fini della prostituzione. C’è una sola inchiesta della Dda di Lecce, del maggio 2012, denominata “Sabr” su un “cartello” transnazionale con i datori di lavoro italiani complici dei caporali e, secondo le accuse, ‘promotori’ del sistema di sfruttamento nei campi del Salento. 22 gli arrestati (12 stranieri e 10 italiani) , per associazione per delinquere, riduzione in schiavitù, tratta di persone, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, estorsione, falso materiale in atto pubblico e in atto privato, favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Tra gli imprenditori italiani in manette anche il "re delle angurie" Pantaleo Latino, l’uomo che guidò la rivolta dei produttori salentini contro le importazioni di angurie dalla Grecia e dalla Spagna, arrivando a chiedere gli aiuti dell'Unione Europea. Secondo questa inchiesta giudiziaria, non ancora arrivata a processo mentre scriviamo, ci sarebbe stata una rete di algerini, tunisini e sudanesi che reclutavano direttamente in Nord Africa le persone da fare giungere in Italia destinandole al lavoro nero sui campi. "Questa indagine dimostra che il caporalato è un fenomeno internazionale - ha detto Yvan Sagnet sindacalista Flai - la rete criminale operava dalla Tunisia alla Puglia, passando per la Calabria, con il pieno supporto dell'imprenditore. Con l'agricoltura avviene il riciclaggio dei soldi delle mafie".
Un capitolo a parte riguarda i bambini. “Non sono mancate inchieste giornalistiche su tratte dal Marocco di ragazzini tenuti in condizioni di schiavitù da persone alle quali sarebbero stati venduti dai genitori- scrive ancora Pugliese - A volte si tratta di pure invenzioni. A volte effettivamente si tratta di situazioni particolari, indubbiamente vere, ma presentate – più o meno implicitamente , ma non legittimamente – come fenomeni di massa. C’è poi comunque nell’immaginario collettivo la convinzione radicata dell’esistenza di una tratta di bambini venduti dai genitori o rapiti, come aspetto legato massicciamente all’immigrazione. La mitologia diffusa riguarda molte nazionalità emolti gruppi etnici. Tuttavia i riferimenti più frequenti riguardano la comunità marocchina ele comunità rom. (vedi anche il falso mito della zingara rapitrice alla voce zingaro). Le informazioni su questi temi diffuse dalla grande stampa sono basate spesso sul sentito dire. E, anche, quando esse si fondano su qualche inchiesta seria e documentata, i riferimenti sono sempre rappresentati da casi individuali la cui rappresentatività è di difficile valutazione”[3].
Esiste comunque una differenza fra child worke child labor, che indicano rispettivamente la partecipazione in situazione di povertà dei bambini e dei ragazzi al lavoro spesso familiare e le gravi forme di sfruttamento di bambini con superlavoro e sotto salario.
La schiavitù odierna non è più un male del sottosviluppo, ma, al contrario, appare nei processi produttivi dei Paesi ricchi perché consente eccezionali profitti ed è una “strategia vantaggiosa per l’economia globalizzata”. [4] Si tratta della possibilità di adoperare “forza lavoro gratuita e asservita, indifesa e senza capacità di reazione e mobilitazione”. Attualmente l’impiego di lavoratori – schiavi avviene in settori produttivi che fanno largo uso di tecnologie e comparti labour intensive (artigianato, estrazione metalli, agricoltura, industria del sesso, servizi alla persona) non necessariamente arretrati o in declino, quanto piuttosto segmenti che non possono fare a meno di lavori manuali pesanti e pericolosi. La schiavitù contemporanea è considerata essa stessa una merce.
Lo sfruttamento è rotatorio, per la necessità di continuo ricambio di manodopera. Questo si gioca tutto sul fattore tempo, ovvero sulla durata temporale dello sfruttamento (soggettivo e collettivo) e sulla capacità di reclutamento da parte dell’organizzazione delle nuove vittime. Tra le principali cause di ingresso nella condizione di grave sfruttamento, c’ è l’indebitamento che può avvenire:
- per pagare il viaggio e i documenti,
- per comprare un lavoro a destinazione,
- per fare fronte alle necessità della famiglia.
Spesso il creditore non chiede la restituzione del debito ma la possibilità di sfruttare il debitore (a tempo determinato o indeterminato). Secondo lo schema riportato nello studio di Carchedi,Pugliese e Mottura, c’è un insieme di condizioni sociali, economiche ,giuriche, politiche, psicologiche e culturali che concorrono alla definizione di lavoro servile e para-schiavistico.
- Sociali: emarginazione ed esclusione, isolamento, dipendenza e scarsa socialità, ricatto, necessità vitale a restare nel rapporto.
- Ecomiche: la necessità estrema, la paga uguale a un terzo di quella ufficiale, l’orario di lavoro superiore alle 12 ore, consecutive senza riposo, vitto e alloggio inadeguato, lavoro di fatica fisica e degradante, nessuna possibilità di contrattazione retributiva.
- Giuridiche: mancanza di permesso di soggiorno valido, di documenti d’identità, vulnerabilità giuridica, sequestro dei documenti, impossibilità di accedere alle sanatorie.
- Politiche: invisibilità civile, non riconoscimento di status.
- Psicologica: soggezione, agire servile e corrispondente alla volontà dello sfruttatore.
- Culturale: fedeltà e accettazione al patto, incapacità a decodificare il livello di sfruttamento, non conoscenza delle regole, mancanza di referenti in grado di legittimare i diritti, concepire lo stato di soggezione come temporaneo, continuo autocontrollo per non rovinare il rapporto lavorativo ritenuto necessario.
La differenza fondamentale fra la schiavitù delle epoche passate e quella di oggi, è che lo schiavo contemporaneo non è contemplato come tale dalle leggi, la sua condizione può essere tollerata o gravemente sfruttata ma è sostanzialmente illegale. A differenza del passato, gli schiavi oggi: non sono di proprietà legale di chi loi sfrutta, hanno basso costo d’acquisto, garantiscono profitti elevatissimi, il rapporto è di breve periodo, sono “schiavi usa e getta” secondo i tre sociologi.
“La schiavitù contemporanea ha necessità di possedere la vittima – scrivono - controllarla da vicino, scaricare il più possibile i costi di mantenimento alla vittima stessa nella prospettiva dell’ottimizzazione del profitto. Essere proprietari di schiavi non rende, è più vantaggiosa la schiavitù a breve termine”.
Infine, ecco i 5 criteri individuati dal Ccem (Comitè contre l’esclave modern) a partire dai quali una persona può essere definita schiava:
- confisca del passaporto
- sequestro o auto segregazione indotta
- condizioni di vita e lavoro particolarmente difficili
- rottura dei legami familiari
- rottura dei legami culturali (spaesamento, non conoscenza della lingua).
A questi si aggiungono elementi a favore del padrone: esercizio della violenza (reale o minacciato) e paura della vittima rispetto alle autorità locali.
La questione della violenza è controversa perché nelle relazioni di grave sfruttamento può esserci o non esserci. Secondo alcuni autori la violenza è il discrimine fra schiavitù e sfruttamento. Una persona è schiava se trattenuta con la violenza contro la sua libera volontà, se è economicamente sfruttata in situazioni di arbitrio, se lavora e non è pagata. "Sono pochissime le segnalazioni all'autorita' giudiziaria - ha spiegato il giudice Anna Canepa della Direzione Nazionale Antimafia alla presentazione del rapporto Flai Cgil su Agromafie e caporalato a dicembre 2012 - l'autorita' giudiziaria su questo arriva troppo tardi. Il rapporto e' la conferma che il fenomemo esiste anche se non ci sono processi. C'e' un legame fra vittima e carnefice perche' per uno straniero senza permesso di soggiorno chi lo sfrutta viene visto come uno strumento di sopravvivenza. Si crea un legame perverso fra caporale e persona sfruttata e il problema e' fare emergere il fenomeno."[5]
Il fatto che molto raramente si rinviene traccia di “tratta” a scopo di sfruttamento lavorativo, rende difficile applicare le norme dell’articolo 18 del Testo Unico sull’Immigrazione, che permette di ottenere un permesso di soggiorno per protezione sociale alle vittime di tratta che denunciano la rete di sfruttamento sessuale. Si è parlato spesso di estendere queste tutele che prevedono anche l’alloggio in comunità protette anche ai lavoratori agricoli. Ma, sottolinea ancora una volta Enrico Pugliese, queste non sono le protezioni che interessano ai lavoratori, i quali desiderano “condizioni di lavoro ufficiali fuori dal supersfruttamento e migliori condizioni di vita. In particolare (il lavoratore,ndr.) non vuole correre il rischio di deportazione dopo essere stato supersfruttato”.[6]
In tal senso è intervenuta la cosiddetta Legge Rosarno, approvata dal governo Monti nell’estate 2012 che introduce pene più severe per chi impiega stranieri irregolari e un permesso di soggiorno per l’immigrato che denuncia uno sfruttamento grave.
[1] E. Pugliese, “Schiavi e non: questioni concettuali e problemi per la ricerca”, in F. Carchedi, G. Mottura, E. Pugliese (a cura di), Op. Cit. pag.49
[5]Fonte: Agenzia di stampa Redattore Sociale
[6] E. Pugliese, “Gli immigrati nel mercato del lavoro: Bossi-Fini punto e a capo”, in G. Naletto (a cura di), Sicurezza di chi? Edizioni dell’Asino 2008 pag. 83
Caporalato in aumento al Nord Italia, costa 420 milioni alle casse dello Stato
"Forte esplosione del caporalato" nelle regioni del Centro Nord dell'Italia: Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Veneto e Lazio. E' l'allarme lanciato dalla Flai Cgil con il primo rapporto "Agromafie e caporalato" che riscontra il fenomeno in tutto il territorio nazionale, oltre alle regioni del Sud come Calabria, Campania, Puglia e Sicilia. Da gennaio a novembre 2012 sono 435 le persone arrestate per riduzione in schiavitu', tratta e commercio di schiavi, alienazione e acquisto di schiavi. Solo 42 le persone denunciate o arrestate per caporalato dall'entrata in vigore del reato (agosto 2011) a dicembre 2012. [1] Sempre di piu' il caporalato si associa ad altri reati come gravi sofisticazioni alimentari, truffa e inganno per salari non pagati, furto dei documenti, contratti di lavoro inevasi.
Sono 400.000 i lavoratori in nero in tutta Italia, di cui circa 100.000 (prevalentemente stranieri) costretti a subire forme di ricatto lavorativo e a vivere in alloggi di fortuna. In agricoltura, secondo dati Istat, il sommerso occupazionale dei lavoratori dipendenti e' pari al 43%. Secondo la Flai il caporalato costa alle casse statali 420 milioni di euro l'anno in termini di evasione contributiva.
Mafie e sfruttamento nella filiera del made in Italy agroalimentare.
Agromafie e caporalato sono in forte aumento anche per la crisi economica, secondo il primo rapporto dell'Osservatorio Placido Rizzotto del sindacato Flai Cgil (pubblicato a dicembre 2012). La quota di reddito sottratta dai caporali alla manodopera è del 50% in meno rispetto ai contratti provinciali del lavoro. I braccianti pagati a cottimo percepiscono 25 o 30 euro al giorno, per una media di 10- 12 ore di lavoro. I caporali impongono tasse quotidiane ai lavoratori: 5 euro per il trasporto, 3,5 euro per il panino. Vendono anche bottiglie d'acqua al prezzo di un euro e 50 centesimi. La contraffazione alimentare e' aumentata del 128% negli ultimi dieci anni con un giro d'affari di circa 60 miliardi e 27 clan coinvolti. Su questo le agromafie da sole valgono un business illecito stimato in 12-17 miiardi l'anno, pari a circa il 10% dei guadagni della criminalita' mafiosa.
[1] " E' evidente che c'e' una mancata applicazione e incisivita' di questa legge" ha commentato durante la presentazione lo scrittore Alessandro Leogrande.
Quattro esempi. I primi due si riferiscono alla stessa notizia, con l’evoluzione giudiziaria dell’indagine ‘Sabr’ di cui abbiamo riferito nella scheda sull’uso del termine. Vediamo come nel primo titolo si parla di “tratta degli schiavi” e nel secondo di “sfruttamento”, pur trattandosi della stessa inchiesta. Uno dei capi di imputazione è proprio la ‘riduzione in schiavitù’ e probabilmente, la condizione dei braccianti a Nardò (Le) e a Rosarno (Rc) rispecchia quella che gli studiosi definiscono ‘schiavitù’ o lavoro ‘para-schiavistico’.
L’articolo qui di seguito racconta bene l’indagine in questione e le accuse di coinvolgimento degli imprenditori salentini nello sfruttamento schiavistico, ma contiene alcune frasi che contribuiscono a dare un’immagine distante e stereotipata del migrante che arriva in Italia con la speranza di una vita migliore, evocando i ‘barconi’ e le ‘orde di affamati’ pronte a invadere l’Europa. Ne riportiamo alcune sottolineate.
IL BLITZ La tratta degli schiavi dei campi, 16 arresti in manette imprenditori e caporali
Coinvolto anche "il re delle angurie" salentine che l'anno scorso guidò la rivolta dei produttori contro le importazioni. E' ritenuto uno dei promotori dell'organizzazione che reclutava manodopera in Africa per sfruttarla in condizioni disumane, smistando gli stagionali nelle campagne di Puglia, Sicilia e Campania
(edizione online locale di un quotidiano nazionale, 23 maggio 2012)
Tramite i referenti algerini, tunisini e sudanesi, infatti, si individuavano in Africa orde di persone affamate, alle quali si offriva un biglietto di sola andata per l'Italia sui barconi della speranza, con la promessa di un posto di lavoro. Sbarcati in Sicilia, gli extracomunitari venivano smistati verso le zone dove c'era bisogno di braccia a poco prezzo: nella stessa Sicilia, oppure in Calabria o in Puglia. Nardò, venti chilometri da Lecce e una lunga e fiorente tradizione di imprenditoria agricola, era diventato il cuore dell'inferno degli immigrati. Per tre stagioni estive i militari hanno documentato le condizioni di vita disumane dei lavoratori, le attività "para-schiavistiche" a cui erano costretti tra i filari di angurie e pomodori, le retribuzioni misere, i ricatti e le estorsioni a cui erano sottoposti. All'opera hanno visto i reclutatori in terra straniera, ma anche i caporali e i capisquadra, che imponevano il terrore nei campi del Salento, minacciando ritorsioni e non esitando a mostrare le armi. I raccoglitori finivano in un limbo da cui era difficile uscire: sistemati in tuguri privi di servizi igienici lontani dai centri abitati, costretti a versare la tassa agli "autisti" per essere portati sui campi, a comprare panini per sfamarsi e bottigliette d'acqua per dissetarsi, privi dei permessi di soggiorno e con documenti di lavoro clamorosamente falsi. Proprio grazie allo sfruttamento portato alle estreme conseguenze, secondo l'Antimafia leccese, i produttori si arricchivano. Anno dopo anno. Sempre di più. Nonostante i tentativi dell'amministrazione di Nardò e di alcune associazioni di volontariato di riportare la legalità tra i campi. L'estate 2011 è stata quella della svolta. Dopo anni di lavoro silenzioso gli immigrati hanno superato la paura e cominciato a raccontare cosa accadeva tra i filari. La masseria Boncuri, gestita dalle associazioni Finis terrae e Brigate di solidarietà attiva, è diventata un presidio di legalità e il punto di partenza di una rivolta culminata nello sciopero di metà agosto. Per la prima volta i braccianti hanno incrociato le braccia e chiesto di essere trattati come esseri umani e lavoratori a tutti gli effetti. I produttori hanno fatto buon viso a cattivo gioco, reclutando altri raccoglitori e lasciando passare la stagione nella speranza che con l'estate si spegnesse anche il clamore delle rivendicazioni. I carabinieri del Ros, però, erano già all'opera. L'inchiesta "Sabr" già avviata e, dopo l'orrore dell'estate 2011, ormai impossibile da fermare.
Immigrazione
Sfruttamento masseria Boncuri gli imprenditori in libertà.
Il giudice ha revocato gli arresti domiciliari per cinque dei sette accusati di sfruttamento della manodopera extracomunitaria
(edizione online locale di un quotidiano nazionale , 25 novembre 2012)
Il problema principale quando si parla di ‘schiavi’ è il rischio di disumanizzare le persone e negare loro qualunque dignità. Uno schema pietistico che contribuisce a creare ‘distanza’ fra il lettore e le vittime dello sfruttamento, come anche in questo terzo esempio. Sottolineamo che spesso l’intenzione del giornalista è quella di denunciare le condizioni tremende alle quali sono sottoposte queste persone sotto il giogo dei caporali. Tuttavia l’effetto non è positivo quando è inserito in una cornice troppo incline alla pietà e quando si appiattisce tutto nell’immagine della massa degli ‘schiavi’ dei campi.
La bidonville fra gli agrumeti
"Sono i fantasmi di Rosarno"
Una situazione insostenibile per un migliaio di braccianti: "E c'è meno lavoro di prima". La lotta solitaria di un sindaco. Ecco perché, in due anni, non è cambiato nulla
(edizione online di un quotidiano nazionale, 17 dicembre 2012)
Abayomi ha appena finito di piantare i quattro legni del perimetro. E ora sta tentando di dare forma al telone che ha trovato in una discarica. Non sa ancora che tra qualche ora la sua capanna non ci sarà più. […]In mezzo agli agrumeti calabresi c'è una polveriera, pronta ad esplodere come accadde a Rosarno due anni fa. Stesse dinamiche, simili le situazioni, identici i volti di migranti stagionali. Una sola differenza, "qui di lavoro per tutti purtroppo non ce n'è" e la crisi ne ha fatti arrivare ancora di più, a migliaia bivaccano nella Piana dove crescono gli alberi delle clementine più dolci d'Italia. Dopo i fatti di Rosarno, quando la rabbia degli africani esplose in tutta la sua violenza, il Ministero dell'Interno, la Regione e la Protezione civile si misero assieme per cercare una soluzione. Si realizzarono alcune tendopoli e arrivarono i container. C'era almeno un pasto caldo al giorno e un minimo di assistenza. A distanza di 24 mesi "sono spariti tutti", dice Madafferi. E i sindaci "sono rimasti soli". Per fortuna i rapporti con la popolazione locale sono buoni, le tensioni di un tempo si sono attenuate. I Pianigiani per mesi hanno fatto quel che hanno potuto per aiutare i braccianti neri. Ora però non basta più, sono troppi e ne continuano ad arrivare. A San Ferdinando c'erano 40 tende, un medico, una cucina da campo e un salone per farli mangiare. In primavera sono finiti i soldi e la situazione è precipitata. Oggi nel campo che poteva ospitare fino a 250 persone ce ne sono oltre mille. Nelle tende dove si dormiva in sei, trovano riparo 10 o 12 persone. E tutto intorno ci sono centinaia di capanne costruite con qualsiasi cosa. Legna, plastica e cartone sono diventati merce rara da queste parti. L'acqua calda è un miraggio, così come tutto il resto. Il prefetto si chiama Vittorio Piscitelli, è quello che ha sciolto il comune di Reggio Calabria per infiltrazioni mafiose. Sarà un caso, ma prima c'erano i soldi, ora non più. E anche lui non può"La vuole vedere l'ultima - continua il sindaco - la Presidenza della Repubblica ci ha mandato poco meno di 500 coperte, costo 5mila euro e 17 centesimi. Sono coperte di "materiale di seconda scelta, non commerciabile", così c'è scritto nella fattura. Lo sa cosa significa? Che quel che non va bene per la gente normale può andar bene per questa gente. Come se non fossero persone come tutte le altre. E' umiliante". […] A sera i migranti stanno attorno ai fuochi, bruciano tutto quello che possono per scaldarsi. Da queste parti li chiamano i "fantasmi della Piana", perché sembrano invisibili alle istituzioni. All'alba proveranno ancora a trovare una giornata di lavoro. I "capi neri", li conoscono tutti qui. Sono loro che al mattino ne prendono 10 o 20 per volta. Li portano sui campi e dicono cosa fare. Una volta a settimana danno loro quello che vogliono, da 25 a 35 euro, a qualcuno 5 centesimi a cassetta per le arance e un euro per le clementine. Il resto lo tengono loro. I migranti non vedono mai i proprietari delle terre su cui lavorano. Qualcuno si arrabbia, prova a ribellarsi. Soprattutto quelli che hanno la carta d'identità italiana in tasca. Prima erano registrati al nord, a Brescia o in Romagna. Per questo sanno cos'è un contratto e un salario veri. Poi la crisi li ha portati in Calabria. Ma se provano a protestare restano al campo, senza la giornata. I "capi neri", quelli che procurano rogne non li vogliono tra i piedi. Il documento italiano qui non vale. Qui siamo alla bidonville di San Ferdinando.
Qui di seguito, infine un esempio positivo dal quale emerge come i migranti si siani ribellati allo sfuttamento e alla violenza agendo sulla politica e riuscendo a ottenere importanti conquiste per la società italiana nel suo complesso. Non si tratta più di ‘ultimi senza diritti’, ma di un soggetto con una chiara dignità sociopolitica.
Dal caporalato al succo d`arancia, le tre leggi `fatte` dagli africani
Lavoro agricolo, migranti e politica L`onda lunga dello sciopero di Nardò e della rivolta di Rosarno ha prodotto tre importanti leggi. Due di queste anche a beneficio degli italiani. La norma contro il caporalato, le regole per il quantitativo minimo di succo di frutta nelle bibite e quelle che permettono di denunciare gli sfruttatori sono direttamente o indirettamente frutto delle azioni dei lavoratori africani.
(sito internet, 10 settembre 2012)
Le norme contro il caporalato. La "legge Rosarno` che permette di ottenere il permesso di soggiorno a chi denuncia gli sfruttatori. Le regole che disciplinano la presenza del succo d`arancia neisoft drinks. Le azioni dei braccianti africani - da Nardò alla Calabria - hanno prodotto tre importanti leggi. Direttamente o indirettamente. La norma contro il caporalato nasce dopo lo sciopero – il primo di quel tipo – avviato dai braccianti impegnati in Salento nella raccolta delle angurie e dei pomodori. Era l`estate del 2011, e la pressione dei lavoratori sulla Prefettura si incrociò con una iniziativa del sindacato, una lunga campagna in fase di stallo. Paradossalmente, le regole che puniscono il caporalato furono uno degli ultimi atti del governo Berlusconi. Ma, senza le giornate di sciopero nelle assolate campagne pugliesi, non ci sarebbero mai state. Percorso tutto sommato simile per la 'legge Rosarno` varata dal governo Monti nelle scorse settimane e attuata in questi giorni. Nata per dare attuazione a una direttiva europea, rischia di diventare l`ennesima sanatoria truffa. Positiva, tuttavia, l`impostazione per cui viene concesso il permesso di soggiorno in caso di denuncia dello sfruttamento. Una pratica che dovrebbe essere permanente e non legata a un singolo mese. Anche queste regole risentono della rivolta di Rosarno del gennaio 2011. Infine, una norma apparentemente marginale prevede che la frutta nelle bibite sia pari ad almeno il 20% del totale. Una vertenza partita dalla Coldiretti e da Rosarno, in seguito alla denuncia del comportamento di Coca Cola in Calabria. Anche questo frutto della lunga onda emotiva seguita ai fatti del 2011. La stampa inglese, infatti, era venuta a documentare le condizioni dei lavoratori africani soprendendo la multinazionale USA a usare e sottopagare le arance raccolte – anche – dai braccianti stranieri. Azioni dirette di soggetti apparentemente emarginati hanno comunque prodotto cambiamenti di rilievo, seppure parziali e indiretti. Eppure i media non hanno saputo fare di meglio che descriverli come disperati, poveri e vittime di un degrado che sembra seguirli dai paesi di origine alle campagne italiane. Non è così, ovviamente. I braccianti africani hanno semplicemente messo in evidenza paradossi e storture del paese che li ospita. In qualche caso offrendo delle soluzioni. Nessuno li ha mai ringraziati. La situazione abitativa dei braccianti stranieri – da Nord a Sud – è ancora affrontata con gli strumenti dell`emergenza umanitaria.