Con questo termine si indica a volte il quartiere capitolino di Torpignattara. A differenza della cosidetta ‘Chinatown’ milanese in cui il 90% dei residenti sono in realtà italiani, nella ‘Banglatown’ romana, gli asiatici vivono con le loro famiglie. Ma neanche in questo caso, secondo il professor Francesco Pompeo, antropologo dell’università di Roma Tre, si può parlare a cuor leggero di ‘Banglatown’, termine peraltro usato anche da alcuni esponenti della comunità del Bangladesh. In una ricerca focalizzata su questo tema, Pompeo mette in guardia da “comparazioni troppo facili” e ricorda “le enormi differenze” tra il territorio del VI municipio di Roma e “i quartieri omogenei per nazionalità già presenti in Europa come Brick lane il quartiere storico dei bangladesi a Londra”[1].
Tra gli stranieri del municipio, quasi la metà sono asiatici e le prime due comunità di residenti provengono dal Bangladesh e dalla Cina (rispettivamente 2.382 e 2052 persone, dato riferito al 2009)[2]. Tuttavia non è corretto parlare di ‘Banglatown’ o di Chinatown’ perché i migranti costituiscono solo l’11,5% della popolazione totale (dato 2009)[3], anche se la percentuale è superiore alla media cittadina arrivata al 10,3%. Inoltre sullo stesso territorio convivono numerose altre comunità straniere: romeni, filippini, egiziani, peruviani, polacchi, marcchini, albanesi, indiani.
Frasi fatte
Mito: Quando un quartiere è densamente abitato da immigrati, l’area si degrada e le case si svalutano.
Realtà: l’esperienza delle metropoli italiane dimostra il contrario. Le famiglie immigrate si trasferiscono in quartieri dove le abitazioni erano già da prima fatiscenti e insicure, perché lì trovano affitti più bassi e condividono gli alloggi. Inoltre, quando un quartiere degradato viene abitato da stranieri, si aprono nuove attività commerciali e tutta l’area si rivitalizza. È il caso della cosidetta ‘Banglatown’ romana.
Come per via Paolo Sarpi a Milano (la cosidetta ‘Chinatown’ meneghina) la zona del VI municipio di Roma, ha subito una riqualificazione e la trasformazione da periferia popolare a zona di ‘semicentro’ imborghesita. Situato fra le vie Prenestina e Casilina, delimitato dai binari del tram, il municipio era mezzo secolo fa quello delle famose e povere borgate romane dei ‘Ragazzi di vita’ e di ‘Accattone’ di Pier Paolo Pasolini. Con il termine “Banglatown” ci si riferisce alla zona di Torpignattara – Marranella, che è contigua all’area del Pigneto, su cui si è attuata una forte speculazione immobiliare negli ultimi anni. L’area è stata venduta come un nuovo San Lorenzo, un quartiere per i giovani con le caratteristiche del ‘paese in città’. Nel processo di rivalutazione speculativa, secondo l’analisi dell’antropologo Francesco Pompeo, i migranti asiatici sono stati un fattore essenziale, anche se in posizione di subalterni.
Il VI municipio è stato infatti caratterizzato da spopolamento e invecchiamento della popolazione, a partire dagli anni Ottanta. Un fenomeno già verificatosi nel centro storico che preclude all’espulsione degli abitanti originari verso la periferia, a causa dell’aumento degli affitti. I migranti sono riusciti a prendere in fitto molte case in nero, in condizioni abitative precarie e sovraffollate. Il territorio presenta “un quadro a due velocità, con una componente italiana demograficamente declinante cui si contrappone un’altra straniera in espansione […] sono tutti elementi che indicano l’avvenuto passaggio da una migrazione economica a una migrazione da popolamento”[4]. Si tratta infatti di famiglie numerose con bambini nati in Italia che vanno a scuola negli istituti del municipio. Secondo la ricerca dell’università di Roma Tre, la presenza delle famiglie immigrate ha ridato vita alla zona, popolando le scuole, riequilibrando l’abbandono da parte dei residenti italiani e con numerosi esercizi commerciali gestiti da bangladesi e cinesi ha costituito “l’unico vero antidoto alla desertificazione della zona”[5]. L’arrivo degli immigrati non ha causato maggiore degrado, al contrario ha preparato il terreno a una rivalutazione di tutta l’area da parte degli speculatori immobiliari che hanno potuto vendere case alla ‘middle class’. “In questi termini l’insediamento, perlopiù intensivo e legato ad un mercato illegale dei fitti, determina speculazioni fortissime – scrivono i ricercatorie - producendo insieme ulteriore svalutazione degli immobili e forte liquidità in nero, elementi questi che consentono ristrutturazioni facili”[6]. Il motivo della forte concentrazione di bengalesi e cinesi è che esistono network migratori noti come ‘catene migratorie familiari’ [7], i quali coinvolgono parentele estese e vicinato. “Torpignattara rappresenta un territorio di elezione in cui queste reti trovano radicamento”[8], dicono gli studiosi del fenomeno. Questo fa del quartiere un laboratorio dell’Italia futura, non un ghetto. Secondo Pompeo “è una frontiera del conflitto della/sulla cittadinanza”[9].
Mito: I quartieri dove c’è una forte concentrazione di immigrati sono più pericolosi a causa della loro presenza.
Realtà: Anche in questo caso, esistono prove del contrario. Restando sul caso di Torpignattara a Roma, la ricerca “Pigneto- Banglatown’ afferma: “stando alle testimonianze di molti intervistati, proprio la presenza di migranti avrebbe messo in moto la trasformazione di alcuni quartieri. In particolare l’area di Torpignattara, da zone elettive della criminalità romana, particolarmente presente negli anni Settanta e Ottanta, a zone residenziali, abitate da nuclei familiari, con un gran numero di ragazzi a rendere “tranquille” zone un tempo pericolose e malfamate”.[10]
Effettivamente, nel quartiere può essere pericoloso camminare da soli di sera. Ma non per gli italiani, per gli stranieri che sono facili vittime di rapine e violenze. A partire dal 2008, i probashi (termine con cui sono chiamati in Bangladesh gli emigrati oltremare), sono stati vittime e non autori di aggressioni e violenze, da parte di bande di giovani italiani che li hanno derubati e malmenati approfittando del buio e della superiorità numerica. Con un picco di atti razzisti nel 2009, si sono ripetuti negli ultimi anni i raid contro negozi, alimentari, bar e phone center della zona gestiti da bengalesi. Come anche le aggressioni notturne a giovani ambulanti in attesa alla fermata dell’autobus o di ritorno a piedi verso casa dopo una giornata di lavoro. Tra gli episodi più gravi, l’assalto da parte di circa 15 italiani agli stand di una festa per il capodanno bengalese nel parco di Villa Gordiani nel cuore della notte fra il 22 e il 23 maggio 2009. Bilancio del raid: sei lavoratori probashi feriti a bastonate e strutture danneggiate.
Tutto questo accadeva mentre da parte di residenti e commercianti italiani della zona si levavano numerosi allarmi sulla mancanza di ‘sicurezza’ nel quartiere a causa della ‘presenza incontrollata’ e ‘dell’eccessiva concentrazione’ degli stranieri.[11]
Un altro caso che ha suscitato sdegno a livello nazionale è stato quello della rapina di via Giovannoli, sempre in zona Marranella, in cui sono morti il padre, Zhou Zeng, commerciante cinese di 31 anni, e la sua figlioletta di 6 mesi che teneva in braccio, nella tarda seraya del 4 gennaio del 2012. Il duplice omicidio ha portato una manifestazione di migliaia di cinesi, provenienti da tutta Italia, che hanno sfilato con le fiaccole in mano e con le gigantografie delle vittime dal quartiere Esquilino fino al luogo del delitto, chiedendo ‘più sicurezza’ alle autorità italiane.
Un altro esempio di una zona popolare divenuta più sicura grazie a una massiccia presenza di immigrati, questa volta in gran parte irregolari (vedi), è quello del famoso ‘Ballarò’ di Palermo. Gli stranieri approdati in un centro storico degradato, hanno contribuito con la loro presenza e le attività commerciali a restituirlo alla città. “Da luogo pericoloso a luogo vissuto, grazie alla vita di piazza e agli stranieri”[12] secondo Clelia Bartoli, docente di Diritti Umani all’Università di Palermo. Hanno contribuito positivamente a restituire il centro storico alla città, i loro figli, nati a Palermo, sono spesso più bravi a scuola degli italiani, ma per i palermitani del centro storico sono ancora tutti indistintamente “i turchi”. In realtà provengono dall’Africa sub sahariana, da Eritrea ed Etiopia, da paesi asiatici come il Pakistan, il Bangladesh e lo Sri Lanka. Sono le comunità di immigrati che a partire dagli anni Ottanta si sono insediate nei quartieri popolari famosi per i mercati tradizionali: da Ballarò alla Vucciria al Capo. Un processo che si è mescolato a partire dalla metà degli anni Novanta con la ‘primavera palermitana’ dell’allora sindaco Leoluca Orlando. Con l’apertura di locali notturni per i giovani, tavernette e ristorantini, alla Vucciria come a Ballarò sono diminuiti drasticamente gli scippi e i quartieri, un tempo proibiti, sono ora fruiti da tutti anche di notte con una certa sicurezza.
“Il quartiere non vive l’altro come un pericolo, abbiamo settecento anni di convivenza e i palermitani di Ballarò sono famiglie allargate che vivono in una stessa casa, un po’ come gli stranieri” spiega Don Giovanni D’Andrea. Nel quartiere gli africani non sono gli ultimi, c’è chi è più disagiato di loro. “C’è un forte abbandono scolastico precoce tra gli italiani, i figli degli immigrati a scuola sono più avanti dei ragazzi italiani – continua il salesiano – la prima circoscrizione ha uno dei tassi più alti di dispersione scolastica, circa il 23% e poi oltre al lavoro nero c’è lavoro minorile, i ragazzi, sia stranieri sia italiani, sono impiegati al mercato dalle 7 alle 21 per 50 euro a settimana”. Qui il pericolo viene dalla mafia italiana. Gli stranieri devono sottostare come tutti alle regole dettate dai boss. “I capi mandamento sono i D’Ambrogio e i Gravanti – dice il sacerdote – dentro il quartiere lo Stato è poco presente”[13].
[1] Pompeo F. (a cura di), Pigneto-Banglatown. Migrazioni e conflitti di cittadinanza in una periferia storica romana, Meti Edizioni, Roma 2011, pag.166
[2] Dato contenuto in Pompeo, op. cit. pag. 38
[12] Cosentino R., Ballarò più sicuro grazie agli africani, Redattore Sociale, 6 agosto 2010