La parola naufrago è molto poco usata dai media italiani quando si parla dei ‘boat people’, cioè dei migranti che attraversano il Mediterraneo per raggiungere le coste dell’Europa. Le operazioni di soccorso in mare di queste imbarcazioni di fortuna (vedi Sar) sono chiamate erroneamente sbarchi (vedi). Anche quando si riferisce di tragici naufragi e di morti in mare o di superstiti raramente quelle persone vengono indicate come ‘naufraghi’. Si parla di ‘clandestini’ e di emergenze per un’invasione inesistente. Quindi per maggiore aderenza alla realtà dei fatti, suggeriamo di usare questo termine negli articoli di cronaca che si riferiscono all’arrivo della minoranza dei migranti via mare. A questo proposito, ci pare utile riportare la lettera pubblica del sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini dopo una strage in mare.
15.11.2012
Lettera aperta del Sindaco di Lampedusa
Sono il nuovo Sindaco delle isole di Lampedusa e di Linosa.
Eletta a maggio, al 3 di novembre mi sono stati consegnati già 21 cadaveri di persone annegate mentre tentavano di raggiungere Lampedusa e questa per me è una cosa insopportabile. Per Lampedusa è un enorme fardello di dolore. Abbiamo dovuto chiedere aiuto attraverso la Prefettura ai Sindaci della provincia per poter dare una dignitosa sepoltura alle ultime 11 salme, perché il Comune non aveva più loculi disponibili. Ne faremo altri, ma rivolgo a tutti una domanda: quanto deve essere grande il cimitero della mia isola?
Non riesco a comprendere come una simile tragedia possa essere considerata normale, come si possa rimuovere dalla vita quotidiana l’idea, per esempio, che 11 persone, tra cui 8 giovanissime donne e due ragazzini di 11 e 13 anni, possano morire tutti insieme, come sabato scorso, durante un viaggio che avrebbe dovuto essere per loro l’inizio di una nuova vita. Ne sono stati salvati 76 ma erano in 115, il numero dei morti è sempre di gran lunga superiore al numero dei corpi che il mare restituisce.
Sono indignata dall’assuefazione che sembra avere contagiato tutti, sono scandalizzata dal silenzio dell’Europa che ha appena ricevuto il Nobel della Pace e che tace di fronte ad una strage che ha i numeri di una vera e propria guerra. Sono sempre più convinta che la politica europea sull’immigrazione consideri questo tributo di vite umane un modo per calmierare i flussi, se non un deterrente. Ma se per queste persone il viaggio sui barconi è tuttora l’unica possibilità di sperare, io credo che la loro morte in mare debba essere per l’Europa motivo di vergogna e disonore.
In tutta questa tristissima pagina di storia che stiamo tutti scrivendo, l’unico motivo di orgoglio ce lo offrono quotidianamente gli uomini dello Stato italiano che salvano vite umane a 140 miglia da Lampedusa, mentre chi era a sole 30 miglia dai naufraghi, come è successo sabato scorso, ed avrebbe dovuto accorrere con le velocissime motovedette che il nostro precedente governo ha regalato a Gheddafi, ha invece ignorato la loro richiesta di aiuto. Quelle motovedette vengono però efficacemente utilizzate per sequestrare i nostri pescherecci, anche quando pescano al di fuori delle acque territoriali libiche.
Tutti devono sapere che è Lampedusa, con i suoi abitanti, con le forze preposte al soccorso e all’accoglienza, che dà dignità di esseri umane a queste persone, che dà dignità al nostro Paese e all’Europa intera. Allora, se questi morti sono soltanto nostri, allora io voglio ricevere i telegrammi di condoglianze dopo ogni annegato che mi viene consegnato. Come se avesse la pelle bianca, come se fosse un figlio nostro annegato durante una vacanza.
Giusi Nicolini
La lettera del sindaco di Lampedusa riporta anche un tema spesso taciuto nei racconti mediatici dei naufragi, vale a dire il fatto che si tratta di vittime della repressione della libertà di movimento e le responsabilità della Fortezza Europa (leggi anche la scheda sugli Accordi Italia-Libia) con le politiche migratorie che hanno chiuso le frontiere europee all’accesso legale di molti richiedenti asilo. Spesso i naufragi vengono raccontati in una cornice pietistica, come se si stesse parlando di “disperati”, di cui si può provare pena ma per le cui scelte non siamo moralmente e politicamente responsabili. È scorretto e discriminatorio non riconoscere i legami profondi che legano le tristi vicende del Mediterraneo allle azioni di chiusura messe in atto dagli Stati dell’Unione europea. “Una parola contro cui lotto spesso è ‘poveretti’ perché è quella forma di pietismo che costruisce la stessa distanza dell’uso del termine clandestini, il meccanismo costruito è una de-responsabilizzazione, è come se alle persone toccasse in sorte un destino indipendente dalla nostra vita, destino amaro e triste, rispetto al quale il massimo che possiamo fare è provare pietà- spiega il regista Andrea Segre, autore di film sul tema - Poveri, poveretti, disperati, è un giudizio. Serve per fare sentire meglio le persone che lo leggono. Quando è uscito il nostro documentario Come un uomo sulla terra, ci è spesso capitato che i giornalisti ci dicessero ‘vogliamo parlare dell’aspetto umano’ (legato a quella cosa del poveretto) e io dicevo ‘perché? Non volete parlare dell’aspetto politico?’ Molto spesso collegato a queste dinamiche della compassione che mantiene la distanza c’è quell’errore di chiamare i Cie (vedi) centri di accoglienza. È una comunicazione che produce distanza, sono centri in cui diamo accoglienza ai poveretti”. [1]
I naufraghi cominciano a entrare nell’immaginario collettivo, come dimostra il fatto che il regista Emanuele Crialese abbia girato un film sul tema sull’isola di Linosa, dal titolo “Terraferma”, in cui dei pescatori siciliani sfidano le leggi dello Stato per salvare e accogliere dei naufraghi del Corno d’Africa. Si tratta di finzione, perché una donna con un bimbo piccolo proveniente dalla Somalia o dall’Eritrea avrebbe immediato accesso alla procedura d’asilo e, in teoria, vige ancora l’obbligo internazionale del soccorso in mare per salvare le vite umane. C’è un caso che ricorda il film “Terraferma”, ma la realtà supera la finzione cinematografica. Protagonisti non i lampedusani, ma coraggiosi pescatori tunisini che hanno salvato 44 naufraghi di un gommone affondato nel Canale di Sicilia. Per sbarcare al porto di Lampedusa un bambino con una crisi epilettica denutrito e disidratato e una donna al nono mese di gravidanza con minacce di parto, hanno sfidato l’alt della guardia costiera, ingaggiando con le motovedette una battaglia navale in mezzo al mare grosso. Si chiamano AbdelKarim Bayoud e Abdlbasset Zenzeri e sono appena usciti da un incubo giudiziario durato 4 anni per avere fatto soltanto il proprio dovere. Hanno seguito la legge del mare che impone di salvare le vite umane sopra ogni cosa e sono finiti in carcere per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Sotto processo in Italia, hanno perso la loro unica risorsa: i pescherecci sono stati sequestrati e sono ormai inutilizzabili, ancora accasciati nel cimitero delle barche di Lampedusa. Il 21 settembre la Corte d’appello di Palermo li ha assolti dalle accuse di resistenza a pubblico ufficiale e atti di violenza contro una nave da guerra. La vicenda ha avuto eco internazionale. Intervistato dal giornalista tedesco Christian Jacob mentre attendeva l’esito della sentenza dalla sua casa vicino Monastir, Zenzeri ha ribadito: “io lo rifarei”. La storia dei due motopesca “Morthada” e “Mohamed El Hedi” ha insegnato ai pescatori delle due rive del Mediterraneo che è meglio lasciare affogare la gente in mare, piuttosto che salvarla, visto che si rischia, oltre al carcere e a processi lunghi anni, la perdita della barca e la rovina finanziaria. “"Non avevo lavoro e non potevo sfamare i miei figli. Ho vissuto a credito e di elemosina”, ha raccontato Zenzeri. Ma più della perdita del suo peschereccio, gli ha fatto male sentirsi chiamare “bugiardo” in tribunale e “mercante di uomini” dalla stampa italiana.
Semisepolto dai barconi arrivati nel 2011, corroso dalla ruggine e dalle intemperie, con un grosso pesce disegnato sulla cabina, il Morthada non sembra proprio un’inbarcazione in grado di causare “violenza a una nave da guerra”, accusa per la quale Zenzeri e Bayoud rischiavano fino a due anni e mezzo di carcere. Le associazioni Asgi e Borderline Sicilia “si augurano che dannosi e paradossali processi come quello che ha coinvolto i sette pescatori tunisini non vengano più avviati, a garanzia dello stato di diritto e delle convenzioni del mare, ritenendo che nessuno debba essere incriminato per aver adempiuto a un obbligo di legge oltre che a un dovere etico”.
E’ ormai chiaro che i pescatori hanno agito in adempimento del dovere in una situazione di necessità, secondo l’ art.490 del codice della navigazione che sancisce obbligo del salvataggio in mare, e l’ art.98 “obbligo di prestare soccorso” della convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, nota come convenzione di Montego Bay, ratificata dall’Italia.
La storia: sfondarono il blocco navale della guardia costiera per sbarcare i profughi a Lampedusa
E’ il pomeriggio dell’8 agosto 2007, uno dei due pescherecci tunisini, “Morthada” e “Mohamed El Hedi” , lancia un Sos via radio a Lampedusa da 34 miglia al largo. Chiede aiuto per un bambino che sta molto male dopo aver recuperato 44 persone da un gommone affondato. Tunisi chiede l’intervento di mezzi italiani per i tempi di intervento troppo lunghi dalla Tunisia. A 18 miglia da Lampedusa, due motovedette della Guardia Costiera e la nave Vega della marina militare affiancano i pescherecci provenienti da Monastir con a bordo i profughi, fra cui due bambini e due donne incinta. Alla distanza di 14 miglia, con il mare forza 4 e le onde alte due metri, non si può effettuare il trasbordo per la visita medica. L’ufficiale medico controlla a vista le condizioni di salute e stabilisce che nessuno è da soccorrere. A questo punto, a sole due miglia dalle acque territoriali italiane, il comandante italiano intima ai pescherecci di tornare indietro, nonostante il porto più vicino sia Lampedusa. Andare in Tunisia con il mare in quelle condizioni e tante persone a bordo di cui alcuni che stanno veramente male? “N’est pas possible” risponde il comandante Zenzeri a gesti. E’ la decisione di un attimo che cambia per sempre la sua vita e quella di tutte le persone a bordo. Due motovedette della guardia costiera si affiancano cercando di farli tornare indietro. L’Alt viene comunicato con il megafono, con sirene, civette accese e anche gesticolando. A questo punto, nella disperazione e determinazione di portare in salvo i naufraghi, il comandante tunisino ordina al timoniere di fare una virata di 10 gradi. Il peschereccio procede a zig – zag con bruschi cambi di direzione e si mette in rotta di collisione. La motovedetta italiana è costretta a fermarsi e lasciarli passare per evitare lo scontro. Arrivati in porto, i due comandanti, Zenzeri e Bayoud vengono arrestati con i loro equipaggi. Il bambino disabile e la donna incinta vengono trasferiti in elicottero in ospedale a Palermo. Il bimbo ha una crisi epilettica ed è affetto da “grave denutrizione e disidratazione”. La donna non riesce a reggersi in piedi e ha un dolore acuto all’addome, con possibile minaccia di parto.
I sette pescatori tunisini vengono processati per direttissima e rilasciati soltanto a settembre 2007. Nel frattempo la moglie di Zenzeri si dispera a casa. Non ha notizie del marito e apprende dagli altri pescatori al porto che lui è in carcere in Italia e potrebbe rimanerci per anni. Nell’autunno 2009, in primo grado tutti vengono prosciolti dall’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il Pm aveva chiesto tre anni e mezzo di carcere a testa e un risarcimento di 10mila euro a migrante soccorso, pari a 440mila euro. Il tribunale però condanna a due anni e mezzo di carcere soltanto i due capitani per un’altra accusa: resistenza a pubblico ufficiale e violenza a nave da guerra. La terza sezione di Corte d’appello di Palermo li ha completamente scagionati, affermando che il fatto non costituisce reato a causa dello stato di necessità nell’azione di salvataggio
[1]Intervista realizzata ad aprile 2012
Secondo le statistiche del blog Fortress Europe[1], dal 1988 sono morte lungo le frontiere dell'Europa almeno 18.673 persone. Di cui 2.352 soltanto nel corso del 2011. Il dato è aggiornato al 10 novembre 2012 e si basa sulle notizie censite negli archivi della stampa internazionale degli ultimi 24 anni.
Il 3 ottobre 2013 si è verificata la più grave catastrofe marittima nel Mediterraneo dall'inizio del XXI secolo con 366 morti accertati, tra cui molti bambini, e un numero imprecisato di dispersi. Un peschereccio con oltre 500 persone, prevalentemente di nazionalità eritrea partite dalla Libia, ha preso fuoco e si è rovesciato nella notte a poca distanza dal porto di Lampedusa. I superstiti salvati sono stati 155, di cui 41 minori. La vicenda viene riportata anche su Wikipedia con la voce: "Tragedia di Lampedusa".
"Non hanno lanciato l'allarme con il satellitare come di solito avviene, non hanno contattato nessuno, per questo quando il motore si è fermato a circa due miglia dalla costa e l'imbarcazione ha iniziato a caricare acqua hanno deciso di fare fuoco incendiando gli indumenti per segnalare la presenza". È quanto racconta Veronica Lentini operatrice dell' Organizzazione internazionale delle migrazioni da Lampedusa all'agenzia di stampa Redattore Sociale nelle ore seguenti la strage.
La nave con circa 500 migranti non è stata intercettata in tempo per evitare il naufragio, contrariamente a quanto avviene di solito con le operazioni di soccorso in mare. Quasi sempre è una chiamata di sos da parte dei naufraghi o di loro parenti in Italia a mettere in moto le unità di salvataggio. "È stata un' imbarcazione privata ad averli avvistati e prestato i primi soccorsi" spiega Lentini.
[1] “Un cimitero chiamato Mediterraneo”, http://fortresseurope.blogspot.it/