Etimologicamente, il termine jihad discende dal termine jahada, che definisce uno “sforzo costante diretto verso un obiettivo”.
Jihad è una parola che significa “sforzo”, ma molto spesso viene usata come sinonimo di “guerra santa”, “crociata”. L’islam prevede quattro tipi di jihad: i primi tre, rivolti ai singoli fedeli e alla comunità islamica, sono considerati il grande jihad, quello volto alla pacificazione delle passioni individuali e al mantenimento del benessere della collettività. L’ultimo è invece considerato il piccolo jihad ed è indirizzato all’esterno della comunità, sia per difenderla, sia per far trionfare la parola di Dio. Il jihad è obbligo di tutti i credenti, ma solo in caso di aggressione, e coloro che lo eseguono per difesa sono detti mujahidun o mujahidin, come ad esempio i patrioti afghani che combatterono contro i sovietici durante l’invasione dell’Afghanistan.
Il significato di questa espressione è abbastanza ampio, e viene diviso in due categorieprincipali: iljihad minore e quello maggiore (detti anche piccolo e grande). Ilprimo è quello più noto: getta le sue radici nella cultura araba pre-islamica in cui le varie tribù si fronteggiavano in combattimenti dalla duplice valenza economica e rituale[1], che vennero - in seguito alla Rivelazione- inglobate dalla religione islamica allo scopo di garantire alle prime tribù islamiche l’indipendenza economica, che getto le basi per la conquista araba. Dopo la morte del profeta queste battaglie presero sempre di più la connotazione di guerre “sulla via di Dio” che aggiungevano alla dimensione economica anche lo scopo di instaurare e poi ingrandire l’area di influenza islamica.
Il jihad è menzionato diverse volte nel Corano con sfumature molto differenti tra loro, ragion per cui si presentò la necessità per i giuristi-teologi di sistematizzarne la natura, viste le numerose contraddizioni riguardo come, quando e verso chi indirizzarlo.
Vennero così formulati i concetti di dar-al-Islam, regno di Dio , contrapposto al dar-al-harb, il regno della guerra, prescrivendo l’obbligo per tutti i musulmani di contribuire fisicamente o economicamente allo sforzo atto all’estensione del regno di Dio o verso la sua difesa dagli attacchi esterni (come nel caso delle Crociate).
L’altra concezione parallela a questa, ossia il jihad maggiore, prevede un constante sforzo per il miglioramento e la crescita individuale “sulla via di Dio”: la lotta in questo casi è incentrata verso sé stessi, verso i propri limiti di peccatori. Questo tipo di jihad viene considerato come il principale dai musulmani cosiddetti moderati e modernisti e dalle correnti sufi.
[1]Cfr. S.Mervin L’Islam. Fondamenti e dottrine, Bruno Mondadori, 2001
Come abbiamo visto, la traduzione del termine con l’espressione a noi più familiare di “guerra santa” non è completamente errata, ma certamente parziale e fuorviante.
L’immagine che si evoca infatti è quella di una crociata colonizzatrice volta all’instaurazione di una teocrazia islamica planetaria; in realtà spesso la retorica del jihad viene pensata dai propri fruitori o come una guerra di resistenza all’invasione “degli infedeli”, o come tensione verso la crescita individuale come musulmani.
Dai fatti occorsi negli Stati Uniti nel settembre 2001 a oggi, si è sentito parlare molto diffusamente di jihad islamico e jihadisti.
I jihadisti contemporanei definiscono la loro missione come una difesa rispetto ad un’invasione talvolta militare e certamente culturale ed economica messa in atto dagli ‘infedeli’, nella fattispecie dalle cosiddette potenze occidentali.
Si può dunque notare come sia presente una discrepanza tra la visione veicolata dai media occidentali, dove il jihad islamico è percepito come un progetto terroristico, come attacco allo stile di vita e sistema di pensiero e valori democratici, e la visione propriamente islamica jihadista dove questi atti vengano visti come una difesa dagli attacchi esterni.
Questa visione dicotomica meriterebbe di essere messa più in evidenza per favorire la comprensione di determinati avvenimenti che segnano l’epoca attuale.
È molto facile infatti favorire una lettura parziale che crei confusione fra azioni pensate dagli esecutori come facenti parte del jihad da atti svicolati da esso. Un esempio per tutti può essere il titolo di un articolo apparso su un noto quotidiano nazionale nel Dicembre 2011, quando si iniziava a parlare dei probabili risultati delle imminenti elezioni egiziane, paventando una svolta “fondamentalista”:
Ora è chiaro a tutti: la jihad dominerà il "nuovo" Egitto
Quotidiano nazionale, 4 dicembre 2011
In questo caso probabilmente la giornalista voleva riferirsi più alla Shari’a che al Jihad, e questa confusione la dice lunga sulla superficialità con cui spesso ci si approccia a concetti inerenti la religione islamica. L’utilizzo dei termini appropriati infatti garantirebbe non solo una maggiore chiarezza sui fatti esposti, ma favorirebbe le basi per una maggiore comprensione della natura degli eventi che ci circondano.