Negro/Nero/Persona di colore
La parola negro deriva dal latino nĭger -gra –grum. In origine era la forma arcaica dell’aggettivo ‘nero’. Fu usato in questo modo dai sommi poeti. In Mongibello a la focina negra (Dante);Vedova, sconsolata, in vesta negra (Petrarca); Sotto due negri e sottilissimi archi Son duo negri occhi (Ariosto)[1]. Nei secoli è diventata anche sostantivo. Secondo il vocabolario Treccani, “in passato, con l’espressione razza negra si intendeva il complesso delle popolazioni del ceppo negride o, più ampiamente, del ramo negroide, mentre l’aggettivo negro veniva usato genericamente per qualificare tutto ciò che si riferiva a tali popolazioni o vi apparteneva” ed “è stato frequente anche l’uso sostantivato: un negro, i negri (talvolta con l’iniziale maiuscola, i Negri); la discriminazione, l’affrancamento dei negri ; , un negroamericano”[2]. Segnaliamo che il concetto desueto di razza biologica è stato accantonato per ragioni storiche e scientifiche. Tra le prime, rientrano le traumatiche esperienze di persecuzioni ed eccidi nel corso del Novecento, in primis lo sterminio nazista. Ma anche per gli studi sul Dna e la mappatura del genoma umano, in base ai quali “si può affermare senza ombra di dubbio che nella specie umana non esistono razze dal punto di vista genetico” [3] perché “geneticamente parlando sono più diversi due italiani che un italiano e un africano presi a caso”[4]. La stessa cosa vale per le etnie. Infatti, in ambito scientifico si è affermata “l’idea che la visione corretta non sia quella di dividere la popolazione umana in razze o etnia, ma di considerare ogni singolo individuo come un contenitore di variabilità genetica a sé stante, che gli deriva dalla storia della propria evoluzione e migrazione e dall’origine comune con tutti gli altri membri della comunità umana”. (vedi anche la voce etnia). Tuttavia i dizionari continuano a proporre il concetto di etnia in modo simile a quello di razza, come possiamo vedere, sempre con Treccani, sulla definzione della parola “negro”.
Secondo il dizionario online vuol dire “in antropologia fisica, appartenente alle etnie (sudanese, nilotica, cafra, silvestre, batua, andamanese, aetide), viventi per lo più in Africa e in poche regioni dell’Asia, comprese nel ceppo negride”. Una definizione che è quasi identica a quella di ‘razza negra’ riportata all’inizio. Continuando a spulciare il dizionario, il ceppo negride risulta essere quello “nel quale vengono compresi i negri dell’Africa (etnie sudanese, nilotica, cafra, silvestre e batua), caratterizzati dal colore della pelle da bruno scuro a nero, arti allungati rispetto al tronco, fronte diritta o prominente, spesso sfuggente ai lati, camerrinia, prognatismo alveolare molto diffuso, occhio poco aperto, labbra everse”. Anche per Wikipedia, “il termine negro indica una persona appartenente a una delle etnie originarie dell'Africa subsahariana e caratterizzate dalla pigmentazione scura della pelle”.
[1] Vocabolario Treccani online
La parola negro e le sue alternative nero e di colore rappresentano i cambiamenti che avvengono nel tempo in ambito linguistico. Non si tratta di essere politicamente corretti, ma di avere rispetto per il modo in cui i diretti interessati vogliono essere chiamati. E questo è uno dei pochi casi in cui c’è accordo internazionale su un termine perché negro è associato storicamente allo schiavismo. Secondo il sociologo Enrico Pugliese “l’uso della parola negro va evitato perché chi la usa, lo fa esprimendo ignoranza o scarso aggiornamento o perché vuole offendere”[1]. Nel linguaggio corrente e soprattutto in quello scientifico, quando si parla della popolazione nera non bisogna mai usare la parola negro. “Ma ciò per un preciso motivo- spiega Pugliese - In America i diretti interessati hanno preteso che il termine non si usasse, perché ritenuto offensivo (e forse perché usato anche in modo offensivo) da una certa epoca in poi. In effetti negli ultimi cinquanta anni le organizzazioni di sostegno alla popolazione nera non hanno mai usato questo termine orientandosi progressivamente verso altri (black, afro-american, coloured). L’uso del termine è considerato inopportuno ed è diventato desueto. Questo è un caso inequivocabile in cui la parola non va usata perché la popolazione interessata, o almeno i suoi portavoce legittimati, non vogliono che si usi e la ritengono offensiva per un richiamo implicito a un passato di schiavitù. Però si può dire che una volta in America invece di black si diceva negro (e in slang degli stati del sud nigger)”.
Il vocabolario Treccani sottolinea che “nell’uso attuale, negro (corrispondente all’angloamericano nigger) è avvertito o usato con valore spregiativo , sicché in ogni accezione riferibile alle popolazioni di colore e alle loro culture gli si preferisce (analogamente a quanto avvenuto in Paesi in cui la questione razziale era particolarmente viva) l’aggettivo e sostantivo nero (corrispondente all’ingl. black e al fr. noir)”.
Su Wikipedia si legge: “sebbene la sua etimologia e il suo significato tecnico non siano né dispregiativi né volgari, sotto l'influenza dei rispettivi termini di lingua inglese e lingua tedesca, la parola ha assunto col tempo un significato comune prevalente con accezione dispregiativa verso i soggetti di pelle scura” e ancora che “ nell'uso comune contemporaneo negro viene generalmente percepito come dispregiativo e razzista”.
Nel suo libro “Non chiamatemi uomo di colore”, il camerunense Esoh Elamé ha fatto un’analisi dei principali dizionari italiani, concludendo dalla loro lettura che per chi ne ha scritto le voci “esisterebbe una razza negra”[2], ravvisandovi ancora una certa legittimazione all’uso di questo termine.
Il problema della parola ‘negro’ è che si è diffusa nel mondo anglosassone dalla lingua spagnola nel periodo schiavistico. Treccani la collega con “particolare riferimento alla tratta dei negri e alle condizioni di schiavitù cui furono sottoposti molti africani soprattutto in America e in Africa”. Di qui, alcune espressioni figurate ancora in voga, del tipo lavorare come un negro, letteralmente “di chi in un ufficio, in una azienda e simili, lavora molto e con scarsa soddisfazione per una retribuzione bassa o insufficiente”.[3] Oppure la parola negriero , che è passata a indicare da “chi esercitava la tratta dei negri, e, per estensione, mercante di schiavi in genere” a “in senso figurato (anche scherzoso), datore di lavoro, padrone, capoufficio e simili, che sfrutta i propri dipendenti e, con scarso senso di umanità, li costringe a turni e a prestazioni di lavoro eccessivamente onerosi o mal retribuiti, spesso oltre i limiti stabiliti dal contratto di lavoro e dalla legge”.[4]
Negro come sinonimo di schiavo, che ricorda la deportazione forzata degli africani nelle piantagioni di cotone americane. È questa la ragione per cui non va usato. “Il termine ha assunto un significato dispregiativo con la tratta atlantica nota come “traffico degli schiavi” o “commercio triangolare” che durò oltre quattro secoli, dalla fine del XV al XIX”, spiega Esoh Elamè.[5] Nonostante l’abolizione della schiavitù, il vecchio linguaggio ha continuato a esistere. Infatti il termine ‘negro’ è stato a lungo di uso corrente. Compare nel romanzo abolizionista “La capanna dello zio Tom” e nei capolavori della letteratura americana scritti da Mark Twain, che sicuramente non era uno scrittore razzista. Tuttavia, proprio la vicenda della ristampa di un suo libro, “Le avventure di Huckleberry Finn” (uscito per la prima volta negli Stati Uniti nel 1884), mostra il segno dei tempi per la parola in esame. Ancora nel 2005, Giuseppe Culicchia traduce l’opera per la collana ‘Universale Economica’ dell’editore Feltrinelli e nell’introduzione scrive che “è anche una grande satira sulla democrazia americana e sugli americani, in genere timorati di Dio ma sempre felici di impiccare un negro”. A questo proposito, ricorda alcune battute che “lette oggi restano magistrali (“Si è fatto male qualcuno?” “No, ha solo ucciso un negro.” “Per fortuna!”) e afferma ancora che Huck è “politicamente scorrettissimo”[6]. Appena cinque anni più tardi, nel 2011 la casa editrice NewSouth Books decide di sostituire con ‘slave’ (schiavo) la parola ‘nigger’ (negro) che compare nel testo 219 volte ed è considerata ormai un insulto razzista. Decisione molto contestata negli States e anche all’estero, compresa l’Italia. “Perché schiavo è meno offensivo?” si chiede sul New York Times la scrittrice Francine Prose, autrice del libro “Anna Frank. La voce dell’olocausto” (titolo originale: Anne Frank: The Book, the Life, the Afterlife.). Nell’articolo sul quotidiano newyorchese[7] viene espressa una posizione che vede nel linguaggio originale usato da Twain per i suoi personaggi “un ponte che ci connette alla mente dello scrittore e al momento storico che sta descrivendo”. Prose afferma che ‘schiavo’ non è meglio di ‘negro’ perché, per quanto “indiscutibilmente disgustosi” siano gli epiteti razziali, non saranno mai “così disgustosi come un’istituzione che tratta gli esseri umani come una proprietà da picchiare, comprare e vendere”. Un testo fondamentale per la causa dell’eguaglianza degli afroamericani ha la parola ‘negro’ nel titolo. An American Dilemma: The Negro Problem and Modern Democracy fu scritto nel 1944 dall’economista svedese Gunnar Myrdal (futuro premio Nobel), commissionato dalla Carnegie Foundation,[8]. All’epoca non si pensava che usarla potesse offendere i diretti interessati. Al contrario Myrdal riuscì a fare emergere la consapevolezza che esisteva un ‘dilemma’ sugli afroamericani, ma che questo era un problema ‘dei bianchi’ in realtà. Gli statunitensi, infatti, vivevano un forte contrasto fra gli ideali di libertà e di uguaglianza, per i quali avevano appena combattuto il nazifascismo nella seconda Guerra mondiale, e la realtà della segregazione razziale dei neri. Il sistema di leggi razziali “Jim Crow” rimase in vigore soprattutto negli Stati del Sud fino alla metà degli anni Sessanta. Lo studio di Myrdal contribuì in modo decisivo a smantellare la segregazione legalizzata. Fu infatti citato come base scientifica dalla Corte Suprema degli Stati Uniti nella sentenza del 1954 sul caso Brown contro il Board of Education, che dichiarava fuori legge la segregazione razziale nelle scuole pubbliche. Anche Martin Luther King usava questa parola nei suoi comizi pubblici. Il famoso discorso “I have a dream” ricorda i cento anni dall’abolizione della schiavitù. Al Lincoln Memorial di Washington nel 1963, il reverendo King iniziò dicendo: “But one hundred years later, the Negro still is not free”. Secondo il professore camerunense Esoh Elamé, quello di Martin Luther King è l’esempio più autorevole del termine ‘negro’ usato dai neri come strumento di lotta. La scelta di King, scrive il docente di Pedagogia interculturale dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, è quella di usare l’espressione Negro People “per assumersi la responsabilità nei confronti della storia e onorare pubblicamente i suoi antenati che hanno lavorato come schiavi per fare dell’Europa e degli Stati Uniti quello che sono oggi”[9]. Il premio Nobel per la pace Nelson Mandela e il rivoluzionario anti-imperialista Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso, usavano la parola negro nei loro discorsi. Alcuni intellettuali africani francofoni hanno anche teorizzato negli anni Trenta la “negritudine”, termine coniato dallo scrittore e presidente del Senegal Léopold Sédar Senghor, che la definisce “un insieme dei valori che costituiscono fondamentalmente il modo di essere africano, l’africanità”.[10] Ciò non impedisce tuttavia allo stesso Elamé di dire chiaramente che “il termine negro non è neutro, è dispregiativo, offensivo. Ricorda ai neri i momenti tragici e dolorosi della loro storia”[11].
Infine, possiamo ricordare che alcune locuzioni esplicitamente razziste come “sporco negro” sono state giudicate condannabili dalla magistratura italiana come incitamenti all'odio razziale.[12]
Un caso giudiziario che ha fatto scalpore è stato quello di Emmanuel Bonsu, un 22enne di origine ghanese da 9 anni in Italia, aggredito a Parma il 29 settembre 2008 da una squadra di vigili in borghese durante un’operazione antidroga, fermato, portato in caserma, sequestrato per ore, picchiato, insultato e umiliato. Alla fine, i suoi effetti personali gli sono stati riconsegnati in una busta con la scritta “Emanuel negro”. Per questo 8 vigili uomini e donne, sono stati condannati in primo grado per le violenze a 40 anni di carcere in totale, con l’aggravante della discriminazione razziale e a risarcire il ragazzo innocente con 135mila euro.[13]
Un altro esempio di come anche in italiano la parola ‘negro’ abbia un forte connotato razzista, viene dal titolo scelto dal giornalista del Corriere della Sera Gian Antonio Stella per il suo libro sull’eterna guerra contro l’altro, edito da Bur-Rizzoli. Appunto “Negri, froci, giudei & Co”.
[1] Contributo del professor Enrico Pugliese come membro del comitato scientifico
[2] Elamé E., Non chiamatemi uomo di colore, Emi, Bologna 2007, pag. 28
[3] Vocabolario Treccani online
[4] Vocabolario Treccani online
[5] Elamé E., Non chiamatemi uomo di colore, Emi, Bologna 2007, pag.13
[6] Culicchia G. (traduzione e cura di), Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain, Feltrinelli Editore Milano, 2005 – Prima edizione nella collana “Universale Economica I Classici “
[9] Elamé E., Op. Cit. pag. 23
[12] Per la Cassazione, si tratta testualmente di «espressione idonea a coinvolgere un giudizio di disvalore sulla razza della persona offesa». Fonte: La Cassazione: «Dire 'sporco negro' è reato da tribunale», www.unita.it, 24 febbraio 2011. La notizia è che “Dire 'sporco negro' costituisce reato e l'autore dell'ingiuria dovrà essere giudicato dal Tribunale” perché lo ha deciso la Corte di Cassazione cui si erano rivolti gli avvocati pordenonesi di un senegalese offeso da un cittadino italiano( http://www.unita.it/italia/la-cassazione-dire-sporco-negro-br-e-reato-da-tribunale-1.273943) In precedenza la Cassazione ha emesso due pronunce, fra loro di segno opposto, sull’epiteto offensivo ‘sporco negro’. La prima volta, nel 2005 (Cass. sez. V, Paoeletich, n. 44295/05), ha escluso l’aggravante della finalità di discriminazione razziale, facendo rientrare l’espressione nel semplice reato di ingiuria, punibile ai sensi dell’art. 594 c.p. Il caso riguardava un uomo che a Trieste aveva detto ‘sporche negre’ a due donne colombiane nel corso di una rissa. L’anno seguente, la stessa sezione della Suprema Corte ha stabilito che rivolgersi con l’epressione ‘sporco negro’ a un soggetto appartenente a una minoranza razziale costituisce sempre e comunque un’aggravante di finalità di discriminazione e di odio razziale. (sent. Cass. Sez V, n.9381/06). Il caso riguardava un uomo che si era rivolto in questo modo a una bambina di sei anni. I giudici di Cassazione hanno stabilito che “nel caso tale epiteto sia diretto inequivocabilmente nei confronti di una persona di pelle scura non abbia alcun rilievo un’analisi sulla motivazione soggettiva dell’agente”. Da: http://www.piemonteimmigrazione.it/PDF/approfondimento%20leg_sporco%20negro.pdf?ID=1210.
Il sostituto più accettabile di ‘negro’ è semplicemente nero, o quando è possibile, una connotazione più specifica come “africano” (afroamericano per riferirsi ai neri statunitensi) e meglio ancora la nazionalità precisa (senegalese, ghanese, nigeriano,ecc..). E’ ovvio che questi termini non sono sempre equivalenti. Ci sono molti europei neri, spesso sono i discendenti delle schiavi delle colonie, le cui famiglie vivono in Europa da secoli. È il caso anche di famosi calciatori come il francese Lilian Thuram, che ha giocato nella Juventus e nel Barcellona e oggi è ambasciatore dell’Unicef. “Chiamare un nero nero non è offensivo e non si tratta di mascherare una realtà – dice il già citato Esoh Elamé – senza alcuna connotazione negativa. Dire nero è come dire bianco, ma dire negro non è come dire bianco. Nero e negro non sono etimologicamente e storicamente sullo stesso piano”[1]. Infatti il secondo è associato storicamente all’epoca schiavista, il primo no. Black people ("neri") e afroamericani sono termini associati invece agli anni Sessanta e Settanta, e alle grandi battaglie per i diritti civili della popolazione nera. Non consigliamo invece di usare l’eufemismo “uomo, donna di colore”, al quale dedichiamo qui di seguito un paragrafo a parte.
- L’espressione persona di colore
Si tratta di un’espressione troppo politically correct, che però ha il vizio contrario di scadere nella discriminazione. Ricalca l’inglese colored e il successivo ‘people of color’. La prima obiezione sull’uso di questa locuzione è di tipo logico: è evidente che tutti abbiamo un colore della pelle e quindi non si capisce perché ‘di colore’ debbano essere solo le persone non bianche. Da questa banale considerazione deriva la seconda, sul carattere discriminatorio di questa espressione, che al momento in cui scriviamo, resta quella di maggiore successo in Italia per indicare una persona di pelle nera. Per Esoh Elamè è uno stereotipo, un luogo comune, “fa parte della visione etnocentrica” della realtà da parte dei bianchi “che non si rendono nemmeno conto di avere anche loro un colore”[2]. Dunque, il principale problema nell’uso della locuzione di colore è che sembra neutra, ma in realtà “è frutto di una rappresentazione del mondo”[3] legata al periodo della segregazione razziale negli Stati Uniti. Infatti uomini di colore era il modo in cui venivano chiamati inizialmente coloro che erano stati liberati dalla schiavitù, ed essendo ‘ex-schiavi’ per loro la parola ‘negro’ non andava più bene, non potevano essere confusi con gli schiavi. Ma, anche se erano uomini formalmente liberi occorreva segnare “una separazione netta tra loro e i bianchi”.[4]
Non deve trarre in inganno il fatto che una delle più antiche associazioni antirazziste americane, fondata negli Usa nel 1909 si chiami ancora National Association for the Advancement of Colored People. In passato infatti l’espressione colored era percepita come più rispettosa rispetto a negro, ma ora viene messa in discussione. Se “nero è diventato il termine preferito perché l’Associazione nazionale per la promozione delle persone di colore mantiene il suo nome?” si chiedeva già nel 1988 il New York Times in un articolo di William Safire[5]. L’allora portavoce dell’associazione, James Williams rispondeva: “I tempi cambiano e le parole cambiano” e motivava la scelta dell’organizzazione di mantenere nome e sigla perché con un secolo di vita alle spalle, ormai appartiene alla memoria collettiva degli statunitensi.
Secondo l’articolo di Safire, già alla fine degli anni Ottanta, ‘colored’ era percepito dalla maggiorparte della popolazione nera come un insulto razziale e rimpiazzato dai terminineri(black) e da ‘persone di colore’, un’espressione che era non più riferita ai soli neri ma a tutti i ‘non bianchi’. Le colonie francofone sarebbero state le prime a usare “persone di colore libere” ( gens de couleur libres/free people of color ). Ma già un quarto di secolo fa ci si chiedeva quale fosse il contrario di ‘persona di colore’. La risposta inequivocabile: ‘bianco’. L’autore dell’articolo notava la contraddizione insita nella lingua inglese che “sembra raggruppare i colori (della pelle,ndr.) tutti insieme e trattare il bianco –il non colore – come una razza e una parola a parte”. Safire notava ancora che i ‘non bianchi’ mai vorrebbero definirsi ‘per ciò che non sono’. Sull’espressione ‘persone di colore’ affermava che se usata dai non bianchi esprimeva solidarietà verso altri non bianchi e sottilmente ricordava ai bianchi di essere una minoranza. Se usata dai bianchi, l’espressione portava con sé una connotazione positiva e rispettosa ma non andava usata come sinonimo di ‘nero’ perché si riferiva a tutti i gruppi che non sono bianchi. Oggi, queste argomentazioni appartengono già al passato perché la consapevolezza linguistica è cambiata ancora.
[1] Esoh Elamé, Op. Cit. pag. 31-32
[2] Esoh Elamè, Op. Cit. pagg. 103-107
Ecco un esempio con stralci dell’editoriale del direttore di un quotidiano nazionale. Si riferisce alla rivolta dei braccianti stagionali africani a Rosarno (Rc) che a gennaio 2010 si sono ribellati con la forza all’ennesimo agguato a colpi di fucile della ‘ndrangheta, al grave sfruttamento che subiscono nella raccolta delle arance e alle condizioni di vita disumane. Abbiamo evidenziato in grassetto le parole più problematiche. Il commento è alla fine del testo. Per approfondire vedi anche Rosarno
Ma questa volta… HANNO RAGIONE I NEGRI
I clandestini non dovrebbero entrare in Italia. Ma una volta che sono qui non li si può sfruttare in modo vergognoso e prendere a fucilate mentre fanno lavori che i nostri disoccupati disdegnano.
(quotidiano nazionale, 09/01/2010)
Certe cose non si fanno. E se si fanno, poi non bisogna stupirsi di quanto succede. Sparare sia pure con carabine ad aria compressa su immigrati che lavorano – sfruttati – per 25 euro al dì, significa giustificare una rivolta violenta con conseguenze anche molto gravi. In questo caso la reazione degli africani di colore va sì condannata senza indugi, ma non si può sorvolare sulle cause che l’hanno provocata. E sono cause complesse, nutrite da molti fattori di cui va tenuto conto per non liquidare l’accaduto come un episodio isolato. Isolato per adesso, forse. In realtà è un segnale allarmante, il sintomo di un malessere che abbiamo sottovalutato e che pertanto è via via cresciuto fino a esplodere nei fatti di Rosarno, provincia di Reggio Calabria. Il ministro dell’Interno Roberto Maroni dimostra di aver capito. Per anni e anni abbiamo trascurato l’immigrazione clandestina. Tollerata se non addirittura incoraggiata dai progressisti predicatori del multiculturalismo e dall’ala cattolica più permissivista in nome del diritto dei popoli alla libera migrazione. Un diritto innegabile che tuttavia va disciplinato affinché non si trasformi in licenza di invadere un Paese, il nostro, che non dispone di risorse illimitate per ospitare chiunque, indiscriminatamente. Solo grazie a questo governo si è cominciato tra mille difficoltà ad affrontare il problema. […] In Calabria gli africani irregolari sono numerosie per campare si assoggettano a una vera e propria schiavit : lavorano nell’agricoltura e percepiscono 25 euro al giorno, 5 dei quali da versare alla criminalità organizzata. La pena per chi sgarra è la disoccupazione (quindi la fame) o l’assorbimento nelle attività illegali. Se a tutto questo si aggiunge la rabbia di vari calabresi contro i neri randagi, il quadro sociale si completa e spiega le tensioni che in questi giorni sono sfociate in guerriglia: sparatorie, gambizzazioni, risse implacabili. Perché diciamo nel titolo che stavolta i negri hanno ragione? E assurdo pretendere di aprire le porte agli stranieri e poi profittare della loro debolezza (dovuta alla condizione di clandestini) per soggiogarli, remunerarli assai meno del lecito, maltrattarli e prenderli a schioppettate perché sono abbrutiti dalla miseria, vestiti di stracci e non conoscono il galateo. Se questo è il prodotto del buonismo – venite venite nel Bel Paese che c’è posto per tutti – meglio il rigore di chi, combattendo la clandestinità, combatte anche i delinquenti che ne fanno un business disumano.
Oltre a molti errori nel contenuto di questo articolo nei fatti sulla vicenda di Rosarno, dove la manodopera immigrata è essenziale all’agricoltura, dove non si può dimenticare il ruolo centrale svolto dalla ‘ndrangheta e dove la maggiorparte dei lavoratori africani risultò essere in regola con il permesso di soggiorno (dunque non irregolari e nemmeno clandestini), l’articolo presenta una serie di espressioni da analizzare. All’interno si parla infatti di ‘africani di colore’ che è una locuzione senza molto senso. C’è anche un epiteto evidentemente razzista come ‘neri randagi’ in cui l’uso di ‘neri’ al posto di ‘negro’ è completamente vanificato dall’insulto ‘randagi’. L’immagine dei lavoratori africani veicolata dall’articolo è fortemente discriminatoria, nonostante sembri sposare – fin dal titolo- una tesi a favore dei rivoltosi. Questo è tanto più grave in un contesto come quello della rivolta di Rosarno, in cui per giorni è stato a rischio l’ordine pubblico e la convivenza civile a causa delle molte violenze dei rosarnesi sugli africani, alle quali i braccianti stranieri hanno reagito solo in minima parte. Molto grave è anche la comparsa (reiterata nell’articolo successivo) della parola ‘negri’ a caratteri cubitali davanti a una notizia (la rivolta di Rosarno) che è stata in prima pagina non sono in Italia, perché ha fatto il giro del mondo, finendo anche sul New York Times.
Sul titolo, proponiamo il commento del professore di Storia Americana e scrittore Massimo Teodori, pubblicato su “Prima Comunicazione” a gennaio 2010. Come è proprio di questa guida, abbiamo evitato di riportare il nome del giornale e dell’autore dell’articolo.
“Negro e nigger erano termini che sembravano scomparsi cinquant’anni or sono quando la campagna antisegregazionista in America si concluse con le leggi sui diritti civili – scrive Teodori - Oggi, invece, sono ricomparsi con iattanza a Rosarno e dintorni, in bocca ai settori poco onorevoli della società calabra sensibile ai richiami della ‘ndrangheta. Come mai il brillantissimo direttore…ha tanto insistito nell’uso di una parola che - piaccia o no - ha nella storia lessicale un significato spregiativo? Ha talmente indugiato sulla parola che, dopo avere sparato titoloni del tipo “Ma questa volta hanno ragione i negri” e “Anziché ai negri, sparate sui mafiosi”, si è compiaciuto di ironizzare su coloro che lo avevano criticato: “Non cambia la mentalità ottusa dei revisionisti del vocabolario italiano… Secondo il dizionario Zingarelli [il termine spregiativo negro] invece ha un significato tranquillo ‘Chi appartiene alla razza negra’”. Anche io, che pure detesto il ‘politicamente corretto’, non posso fare a meno di osservare che l’intelligente direttore, un po’ per fare a tutti i costi il ‘politicamente scorretto’, e un po’ per compiacere i suoi lettori, ha voluto strafare bilanciando con il termine spregiativo verso i negri la ragione data agli stessi rivoltosi”[1].
Ecco l’altro articolo molto discusso dello stesso autore sullo stesso quotidiano pubblicato il giorno seguente. Vale qui quanto detto in precedenza. Con l’aggiunta, in questo secondo pezzo, di un tono fortemente generalizzante anche nei confronti dei calabresi.
Anziché ai negri, sparate ai mafiosi
Se i calabresi combattessero la 'ndrangheta con la stessa foga con cui si ribellano agli immigrati, risolverebbero i problemi della loro regione. Ma preferiscono i criminali agli africani che sgobbano al posto loro: peccato....
(quotidiano nazionale, 10 gennaio 2010)
Alcuni stralci a partire da metà articolo:
La forma sovrasta la sostanza. Sovrasta anche il rispetto delle persone. Per cui se dici che i negri hanno ragione sei un cretino, e la ragione dei negri passa in secondo piano. Donadi (deputato Idv, ndr.) avrebbe preferito avessimo scritto: “Come al solito hanno torto i diversamente bianchi”.[…] Rimane il fatto che i negri hanno ragione. E se anziché sparare a loro, i calabresi esasperati dall’immigrazione clandestina sparassero sulla ‘ndrangheta che la opprime, avrebbero non una ma bensì cento ragioni. Perché non lo fanno?Gli extracomunitari sono poveri e debolissimi, brutti e sporchi: bersagli ideali. Mentre la criminalità organizzata , che tiene in scacco le forze dell'ordine e lucra sul lavoro della gente di qualsiasi colore, è forte violenta e vendicativa e, quindi, conviene non toccarla.Ecco perché a Rosarno (e altrove) preferiscono la mafia agli sfigati africani che sgobbano per venti euro al dì però puzzano e non indossano le giacche di Armani. Peccato. E pensare che se i calabresi si alleassero con i negri e insieme combattessero i delinquenti del pizzo e degli appalti, in dieci giorni la regione più scalcinata del Paese risolverebbe ogni suo problema e cesserebbe di accusare lo Stato di non fare ciò che essa non prova neppure ad abbozzare. […]
La stessa testata, dieci giorni dopo, pubblica altri due articoli con la parola ‘negro’ nel titolo, questa volta non del direttore ma di un giornalista della redazione e riferiti allo sciopero simbolico dei migranti indetto per la prima volta per il primo marzo. I due titoli sono:
Sindacati contro immigrati
SCIOPERO VIETATO AI NEGRI
Gli stranieri che lavorano in Italia vorrebbero incrociare le braccia il primo marzo per far vedere quanto contano. Ma Cgil, Cisl e Uil dicono no: temono di perdere il loro potere.
(quotidiano nazionale, 21 gennaio 2010)
Lotta tra poveri
Lo sciopero dei negri fa nera la sinistra
I sindacati non lo vogliono perché rischia di irritare precari, cassintegrati e operai disoccupati […]
(quotidiano nazionale, 23 gennaio 2010)
Verso l’autore di questi due articoli è stato promosso un procedimento disciplinare dall’Ordine regionale dei giornalisti competente, su segnalazione dell’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar). Dopo averne ricevuto notzia, il giornalista pubblica questo articolo a sua discolpa (attaccando l’Unar). Ne riportiamo alcuni stralci perché la difesa passa per tutte le argomentazioni che abbiamo già affrontato punto per punto nella scheda sull’uso del termine.
Processato dai colleghi perché scrissi "negro"
(quotidiano nazionale, 16 marzo 2010)
Razzista. Questa davvero mi mancava: un marchio d’infamia con firma dello Stato. Forse pochi lo sanno, ma al Ministero delle Pari Opportunità c’è un ufficetto che dovrebbe controllare parola per parola tutto ciò che c’è scritto sui giornali. Se trovano un termine «scorretto», zac, parte la denuncia. Il ministero della Carfagna fa un esposto all’ordine dei giornalisti. È quello che è capitato a me. […] A me sembra una storia un po’ assurda. Razzismo? Boh. Chiamo Bruno Tucci, presidente dell’ordine del Lazio. Mi spiega tutto. La chiave è la parola negri. A gennaio, il 21 e il 23, ho raccontato che Cgil, Cisl e Uil stavano un po’ boicottando lo sciopero degli immigrati, quello del primo marzo. Quelli che si dovevano incazzare, e lo hanno fatto, erano i sindacati. Parlavo del loro imbarazzo, di certe ipocrisie, di una linea politica incerta, che a parole tutela tutti, ma nei fatti un po’ meno. Il primo articolo evocava The invisible man di Ralph Ellison, uno dei più grandi romanzi anti razzisti americani. Il mio pezzo cominciava così: «Invisibili. Li vedono solo da clandestini, quando stanno nelle piantagioni dei nuovi signori del latifondo, sotto la schiavitù della ’ndrangheta. Quando finiscono nel fuoco di certe piazze da far west, sui marciapiedi del sesso, da delinquenti, da rapinatori, da razziatori di ville. Quando lavorano no, non li vede nessuno». Il titolo serve ad attirare l’attenzione su tutto questo: sciopero vietato ai negri. Il secondo articolo, quello contestato, ripartiva da qui. Sciopero vietato ai negri. Ecco il mio marchio d’infamia. Ho scritto negri. Il resto non importa. Non conta. Non serve a nulla. Mi chiedo ora se i burocrati del ministero e i signori dell’ordine hanno letto i due articoli. Mi chiedo se c’è un computer che emette un urlo ogni volta che legge una parola politicamente scorretta. Il computer è stupido, gli uomini non dovrebbero esserlo. Penso a questo ufficio di correttori di bozze della morale pubblica. Penso che questo puritanesimo, che sbianchetta le parole, serva solo a lavare la coscienza dei sepolcri imbiancati. Penso che negro in italiano non ha nulla a che fare con il nigger (negraccio) americano. Viene dal latino niger, esattamente come nero, e non ha mai offeso nessuno per secoli. Non è lì che si vede il razzismo. Penso che Faccetta nera sia più razzista di negro. Leggo quello che ha scritto Mbanga Bauna, giornalista del Tg3: «Io sono un negro. Nera è semmai mia moglie che ha votato per An». Sento la voce di Martin Luther King che nel suo I have a dream parla tranquillamente di «negro is still not free». Ascolto il discorso di Malcolm X nella chiesa metodista di Cleveland, dove negro è negro e non si nasconde. Non ne ha bisogno. È lì per dire «io ci sono». Non sono invisibile. Non nascondete la mia storia perché non ho nulla di cui vergognarmi. Siete voi, bianchi, che dovreste arrossire per la nostra schiavitù. La rivoluzione di Malcom X non faceva questioni di parole, ma di diritti. Non serve questa igiene verbale. Non anestetizza le coscienze. Non basta dire uomo di colore per cavarsela. Chissà se i burocrati del ministero e delle pari opportunità tutto questo lo sanno? […]
Ecco di seguito un esempio sul frequente uso dell’espressione scorretta ‘di colore’ sui media.
Savona, il pm: “Venditori di colore? "Basta crociate. Pensiamo a cose serie"
Circolare del capo savonese Francantonio Granero alle forze dell'ordine e ai giudici. "Inseguimenti per le spiagge e per le strade producono solo gran carta e lavoro d'ufficio. Sarebbe auspicabile altrettanta efficienza per combattere l'evasione fiscale, o la tutela della salute sui luoghi di lavoro"
(edizione online locale di un quotidiano nazionale, 20 luglio 2012)
Uno dei personaggi pubblici che più frequentemente è stato vittima di insulti razzisti è il calciatore della nazionale italiana Mario Balotelli, italiano di pelle nera per la sua origine ghanese, figlio adottivo di genitori bresciani.
Ecco due esempi che lo riguardano, il primo è un articolo che riporta questi gravi attacchi da parte di gruppi xenofobi, l’altro lo incorona come ‘eroe di colore’. I due pezzi sono molto vicini temporalmente perché in quei giorni la nazionale italiana era impegnata nei campionati europei di calcio.
GLI INSULTI SUL WEB
Stormfront contro Balotelli: «Negro ed ebreo»
La protesta della comunità ebraica: «Ora basta»
Il sito neonazista contro il calciatore in visita ad Auschwitz Daniele Nahum: «Bisogna applicare la legge Mancino»
(quotidiano nazionale, edizione online, 8 giugno 2012)
MILANO- Il topic di discussione è chiaro: «I genitori adottivi del negro Balotelli: ebrei». E via con i commenti: «Lo scemo del villaggio, potrebbe chiedere di giocare nella nazionale di Israele, ci libereremmo del personaggio una volta per tutte». Su Stormfront, costola italiana del Ku Klux Klan, torna l'antisemitismo. L'occasione per attaccare il centro avanti della Nazionale è la visita degli Azzurri ad Auschwitz. Ma questa volta la comunità ebraica di Milano non ci sta: «Chiediamo la chiusura del sito e l'applicazione della legge Mancino (norma che condanna l'ideologia nazifascista ndr)». […]
IL PERSONAGGIO | NON È IL PRIMO EROE DI COLORE DEL NOSTRO PAESE:
Mario, il razzismo e l’orgoglio dei nuovi italiani
Dagli sfottò negli stadi alle piazze in festa per i suoi gol. Così Balotelli ha spazzato via decenni di stereotipi
(quotidiano nazionale, 30 giugno 2012)
«Patria e mammà». Vedere Mario Balotelli precipitarsi a far festa alla madre e sentirlo parlare della maglia azzurra fa tornare in mente la chiusa di quella stupenda canzone che è «Foxtrot della nostalgia». Più italiano di così! Piaccia o no ai razzisti, la gioia esplosa l’altra sera nelle piazze per i gol fantastici di quel nostro figliolo nero ha spazzato via per un momento magico decenni di stereotipi. Capiamoci: lo sport è sempre stato un mondo a parte, su queste cose. Gli stessi tifosi juventini che tempo fa stesero contro «Super- Mario» lo striscione razzista «non esistono italiani negri», erano già andati in delirio per Edgar Davids e Lilian Thuram e avrebbero dato un occhio per avere Eto’o o Drogba. E quel Cavaliere che in campagna elettorale sospirava su Milano «città africana» ha riempito per anni il Milan di formidabili giocatori d’origine africana: da Frank Rijkaard a Ronaldinho, da Ronaldo a Cafu, da Serginho a Dida, da Clarence Seedorf a Ruud Gullit. Il quale, intelligente e spiritoso com’era, spiegò un giorno: «Se hai due miliardi in banca sei meno negro di un bianco povero». […] E poi a dispetto di chi come il deputato leghista Erminio «Obelix » Boso voleva «prendere le impronte dei piedi ai negri» o come Umberto Bossi e Roberto Calderoli (cavalcando il razzismo perché come dice Maroni «portava voti») chiamava i neri «Bingo-Bongo». Una storia lunga e brutta di razzismo. Per molto tempo negata e velata, nonostante le accuse di storici come Angelo del Boca, dallo stereotipo autoconsolatorio che «gli italiani non sono mai stati razzisti ». Una storia che ha pesato anche, nei suoi strascichi, su tutti i bambini neri che l’altra sera, pazzi di gioia per quei due gol straordinari di SuperMario, si sono sentiti un po’ più orgogliosi di essere loro pure italiani. […]
Sulla locuzione "di colore", il caso sicuramente più rilevante è quello della nomina della prima ministra nera nella storia del Paese. Qui la 'notizia' è proprio il colore della pelle della titolare del ministero dell'Integrazione nella compagine del governo di Enrico Letta. Quasi tutte le testate hanno però accuratamente evitato di usare il termine "nero" o "nera", ritenendolo evidentemente offensivo. E hanno pensato di 'mitigare' l'impatto con l'uso della locuzione 'di colore'. E' stata poi la stessa ministra Cecile Kyenge Kashetsu nell'ambito di una conferenza stampa a dover chiarire di essere 'nera' e di considerarsi 'afro-italiana'. Di seguito riportiamo alcuni articoli.
Cecile Kyenge, il medico-attivista del Congo è il primo ministro di colore della Repubblica
(edizione online di un quotidiano nazionale, 27 aprile 2013)
Un primato ce l'ha già. Cécile Kyenge, 48 anni, è il nuovo ministro dell'Integrazione. Ma è anche il primo ministro di colore della storia della Repubblica. È nata in Congo ma è cittadina italiana. Una laurea in medicina con la specializzazione in oculistica. La sua è una storia di impegno civico e politico, soprattutto per la tutela dei diritti dell'immigrazione. Dal settembre 2010 è portavoce nazionale della rete «Primo Marzo». Una rete che porta il nome di una data: il 1° marzo 2010, infatti, il movimento ha organizzato una giornata di mobilitazione e sciopero per sottolineare il ruolo dei migranti nell'economia italiana.
«MI FERISCONO, MA NON MI FERMANO»
La ministra Kyenge si presenta: «Sono nera, non di colore e lo dico con fierezza»
Il ministro per l'Integrazione: «Bisogna cominciare a usare le parole giuste». E poi: «La diversità è una risorsa»
(edizione online di un quotidiano nazionale, 3 maggio 2013)
In questi giorni ho letto che dicono di me che sono la prima ministra di colore: io non sono di colore, sono nera, lo ribadisco con fierezza». Cécile Kyenge alla prima conferenza stampa, parla chiaro. Perché, bisogna «cominciare ad usare le parole giuste».In questi giorni ho letto che dicono di me che sono la prima ministra di colore: io non sono di colore, sono nera, lo ribadisco con fierezza». Cécile Kyenge alla prima conferenza stampa, parla chiaro. Perché, bisogna «cominciare ad usare le parole giuste».
«LA DIVERSITÀ» -A cominciare dalla «diversità» che è «una risorsa». O meglio «un'occasione di arricchimento per l'altro» e la sua missione sarà proprio quella di «abbattere i muri della diversità». Lei che è «italo-congolese, appartengo a due paesi e a due culture che sono entrambe dentro di me. Non posso definirmi completamente italiana né completamente congolese, ma è proprio questa l'importanza della diversità».
Kyenge, quattro mesi di insulti e razzismo: la vita agra del primo ministro afro-italiano
Da "scimmia" a "prostituta", l'ininterrotta sequela di offese rivolte contro l'esponente del governo di origini congolesi da parte di parlamentari, dirigenti, amministratori, consiglieri comunali di Lega e Pdl. Con le relative "scuse" e spiegazioni "politiche"
(edizione online di un quotidiano nazionale, 26 agosto 2013)
ROMA - 'Noi non siamo razzisti, è lei che è negra'. Politicamente scorretta, la famosa battuta riassume purtroppo un atteggiamento diffuso nella politica di destra e centrodestra rispetto a Cécile Kyenge, cittadina italiana di origine congolese, primo ministro di colore nella storia della Repubblica. Sin dai primi giorni dopo la sua nomina al ministero dell'Integrazione, in dichiarazioni pubbliche con l'ammicco, in post su blog e frasi su Facebook e Twitter, lo stato d'animo di moltissimi esponenti della destra parlamentare rispetto a Kyenge - la Lega è la prima, ma la 'pancia istituzionale' del Pdl non è stata da meno - ha trasudato una non contenibile insofferenza spesso precipitata nell'insulto razzista. Il metodo è sempre uguale: prima si lancia l'insulto, poi si chiede scusa, si annunciano espiazioni, si assicura che il razzismo non c'entra nulla e che si tratta di ragioni politiche. In realtà, come conferma anche l'ultimo caso dell'assessore di Diano Marina (Imperia), che ha assimilato il ministro a una prostituta (salvo poi pentirsi e scusarsi), le improbabili spiegazioni successive, con la particolarità di epiteti e insulti scelti, rivelano un sostrato culturale colonial-fascista che l'avvento della società multiculturale e multirazziale ha riportato a galla in una parte del paese. Non si può spiegare altrimenti il martellamento a cui Cécile Kyenge è stata sottoposta nei suoi quattro mesi da ministro. Eccone un parziale, ma impressionante, riassunto. Le prime offese contro Kyenge arrivano ad appena due giorni dalla sua nomina. Pesanti insulti fanno la loro comparsa sui siti della galassia nazi. "Scimmia congolese", "Governante puzzolente", "Negra anti-italiana", sono le offese che si leggono su Stormfront, Duce.net e le pagine dei gruppi attivi su Facebook. In concomitanza, l'europarlamentare leghista Mario Borghezio, conia lo slogan "ministro bonga bonga". Per il quale sarà anche espulso dal suo gruppo a Strasburgo (l'EDF). Il 2 maggio sul muro esterno del liceo scientifico Cornar, a Padova, compaiono frasi ingiuriose contro il ministro e quattro giorni dopo è la volta di un consigliere leghista di Prato, che ancora su Facebook dedica alla Kyenge l'epiteto 'nero di seppia'. Prima dell'improbabile autodifesa: soltanto una zingarata. Meno di una settimana dopo l'attacco viene ancora dal Carroccio. L'autore è il segretario lombardo Matteo Salvini. Il triste pretesto è la follia di Mada Kabobo, che uccide tre persone a picconate a Milano. "I clandestini che il ministro di colore vuole regolarizzare ammazzano a picconate: Cecile Kyenge rischia di istigare alla violenza nel momento in cui dice che la clandestinità non è reato, istiga a delinquere". Si scaglia contro il ministro dell'Integrazione, qualche settimana dopo, anche un consigliere Pdl del quartiere San Vitale a Bologna: "Meticcia sarà lei" - scrive Alessandro Dalrio su Facebook - commentando una visita in città della Kyenge. Ma, tra gli episodi più gravi, va senz'altro registrato il post di Dolores Valandro, consigliera leghista padovana che sempre su Facebook, il 13 giugno, riserva parole shock al ministro: "Ma mai nessuno che la stupri, così tanto per capire cosa può provare la vittima di questo efferato reato?". L'autrice sarà poi espulsa dal partito e condannata a 13 mesi per direttissima. Ancora più disarmante la sua giustificazione: "Non sono cattiva, era solo una battuta". Neanche le polemiche che si scatenano frenano però gli esponenti del Carroccio. Sette giorni dopo dalla pagina ufficiale Facebook della sezione della Lega di Legnano (Verona) parte un nuovo attacco alla Kyenge. Colpevole di aver definito gli immigrati una risorsa. "Se sono una risorsa... va a fare il ministro in Congo! Ebete". A metà luglio il caso più grave dal punto di vista istituzionale. E' il vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, a provocare un'indignazione politica bipartisan. "La Kyenge? Sembra un orango", dice alla festa leghista di Treviglio. Scosso il Quirinale, furioso il premier Letta, il Pd che chiede le dimissioni dell'ideatore del Porcellum. Inutile: Maroni condanna l'episodio, ma il partito non forza la mano e Calderoli resta al suo posto." Solo una battuta simpatica, ho telefonato per scusarmi" dirà l'interessato, prima di consegnare un mazzo di fiori in Aula al ministro. La retromarcia non gli evita di essere indagato per diffamazione e discriminazione razziale. Il caso arriva fino all'Onu che definisce scioccante l'affermazione del leghista. Reagisce la società civile e il fondatore di Eataly, Oscar Farinetti, dichiara: "Calderoli a Eataly non può entrare, per motivi di igiene". Sembrerebbe abbastanza per consigliare anche ai più esagitati una pausa di riflessione. Ma quella leghista per la Kyenge è una vera ossessione. Due giorni dopo le offese del vicepresidente del Senato, è il segretario della Lega Emilia, Fabio Rainieri, ad attaccare: "Il ministro Kyenge è entrata in Italia da clandestina". Il 18 luglio è invece la volta di Agostino Pedrali, assessore al comune di Coccaglio (Brescia): "Sembra una scimmia", scrive su Facebook. "Parassita" è invece l'insulto che le riserva Luciano D'Arco, consigliere indipendente (ma ex leghista) di Casalgrande, nel Reggiano. Un climax che porta a un altro episodio inquietante: il lancio di banane contro il ministro intervenuto alla festa Pd di Cervia. "Uno schiaffo alla povertà" e "uno spreco di cibo" è la replica ironica della Kyenge, che riceve solidarietà bipartisan da tutto il mondo politico. Gianluca Pini, segretario della Lega in Romagna invita il ministro alla festa della Lega per provare a riportare il confronto su un piano civile, Terreno non congeniale a tutti. Se è vero che lo stesso giorno è un consigliere ex An di Prato, Giancarlo Auzzi, a scrivere su Facebook: "Banane? E' quello che si merita, un rappresentante di questo governo". Negli stessi giorni, un nuovo affronto leghista si registra a Cantù, quando due consiglieri (e un terzo ex del Carroccio) lasciano l'aula del consiglio comunale all'arrivo del ministro. "Maroni fermi gli attacchi contro di me", replica lei all'indomani, o non vado alla festa della Lega. Appello che resta inascoltato. Anzi un altro esponente leghista di prima linea, l'ex ministro Roberto Castelli, rincara la dose: "E' una totale nullità". Salta così l'incontro, ma non si fermano gli insulti. L'ennesima offesa da un componente della giunta di Lograto, centro del Bresciano: "Vaff... musulmana di m..", scrive su Facebook Giuseppe Fornoni. Ad agosto, infine, Matteo Salvini annuncia un referendum contro il ministero dell'Integrazione: "Inutile e da abolire".