Per un’analisi storica del trattamento riservato alle persone con disturbi mentali non si può fare a meno dal partire citando i concetti di controllo e di istituzioni disciplinari sviluppati dal filosofo francese Michel Foucault in Storia della follia (1961). La sua opera tenta una ricostruzione storica dell'esclusione e della reclusione della follia, che va dal Medioevo agli inizi del XIX secolo. In epoca medioevale il simbolo per eccellenza è la "nave dei folli", una creazione letteraria che però deriva da una pratica reale in uso a quel tempo di "affidare" i folli ai marinai per allontanarli dalle città.
Successivamente, le persone identificate come "folli" vengono internate insieme ai vagabondi, i criminali, i poveri e i mendicanti, all'interno dei vecchi lebbrosari ormai svuotati. Si inizia a creare un sistema apparentemente di assistenza ma in realtà repressivo per una massa indistinta che viene percepita come una minaccia all’ordine sociale. L'esempio di questo tipo di luogo è L’Hôpital Général di Parigi. In età classica, la pazzia viene considerata una “malattia morale”. Foucault dimostra che i folli vengono associati agli oziosi e agli improduttivi sulla base di una condanna etica dell’ozio. Dunque i folli sono visti come inutili e per questo moralmente condannabili. Questo conduce all’idea del riscatto attraverso il lavoro obbligatorio. Il “ritiro” di Tuke in Inghilterra e l’ “asilo” di Pinel in Francia erano pensati con questa impostazione. A partire dal XVIII secolo si opera una nuova separazione. La follia resta reclusa da sola, si libera di tutta quella massa indistinta di diseredati con cui condivideva l’internamento e per questo diviene l’ambito di una nuova scienza, la psichiatria.
In Italia l'avvento legislativo del termine 'manicomio' si può fare risalire al momento in cui nascono gli ospedali psichiatrici, con la legge 14 febbraio 1904 ossia la “legge sui manicomi e sugli alienati” modellata su una legge francese del 1838. L’art.1 stabiliva “debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualsiasi causa da alienazione mentale quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorchè nei manicomi”. A disporre il ricovero era il pretore oppure la polizia in base a una certificazione medica e il ricovero veniva registrato nel casellario penale. All'inizio c'era un periodo di osservazione, al termine del quale, in caso di decisione di ricovero definitivo, il paziente perdeva i diritti civili. La supervisione degli ospedali psichiatrici era attribuita al ministero degli Interni. Criterio principale a cui il pretore doveva attenersi nel disporre il ricovero era la pericolosità. La legge del 1904 si disinteressava dei pazienti sofferenti e bisognosi di cure che non erano un problema per l’ordine pubblico.
Negli anni Cinquanta inizia l’uso degli psicofarmaci. Nel 1962 negli Usa il presidente Jfk Kennedy istituisce i Centri di igiene mentale. In Italia la legge n.431 del 1968 abolisce l’obbligo di inserire il ricovero nel casellario penale e stabilisce per la prima volta la possibilità del ricovero volontario per chi ne ha bisogno, prescindendo da valutazioni di pericolosità. Nonostante queste piccole modifiche, in realtà fino al 31 maggio 1978 vige in Italia un sistema psichiatrico dominato dalla finalità della difesa sociale e nell'organizzazione manicomiale la cura del malato è un aspetto secondario rispetto alla repressione dei 'socialmente pericolosi'. Per essere ricoverati bastava che qualcuno lo richiedesse al pretore, dietro presentazione di un semplice certificato medico ratificato dall’autorità locale di Pubblica Sicurezza. Fin dagli inizi degli anni Sessanta, il movimento culturale “antipsichiatrico” guidato da Franco Basaglia inizia un percorso di rinnovamento per scardinare la psichiatria intesa soprattutto come strumento di controllo sociale. Queste idee all'avanguardia sfociano nella legge 180 del 1978. La legge 180 ha riconosciuto il diritto alla libertà del cittadino nei confronti del trattamento sanitario, sostituendo il concetto di “pericolosità” con quello di “tutela della salute pubblica”. La legge tende inoltre alla progressiva eliminazione degli ospedali psichiatrici indicati come “luoghi di elusione e sofferenza” di cui si denuncia la reale funzione di controllo sociale sotto il pretesto di cura della malattia, mentre è impensabile qualunque terapia all’interno di istituzioni totali. Restano invece in funzione gli OPG, regolati con legge di ordinamento penitenziario n. 3554/1975 e dal nuovo regolamento emanato nel 2000.
Della riforma da tempo si lamenta l’applicazione incompleta, con il risultato che molti malati vengono affidati esclusivamente alle cure delle loro famiglie. Inoltre se prima per i reati di lieve entità come risse e molestie c’era il ricovero in manicomio, in seguito il rischio per queste persone è stato di essere denunciati alla magistratura finendo negli Opg, dove prima si andava solo per reati più gravi. Così gli Opg hanno dovuto svolgere uno dei ruoli del vecchio manicomio civile, ma con una carica di violenza addizionale, con una gestione carceraria che non può portare al recupero terapeutico.
La legge 180 mutò la risposta della società italiana al problema della malattia mentale, abrogando la legislazione speciale che confinava gli "infermi di mente" nei manicomi e negava loro i diritti riconosciuti a tutti gli altri malati, sostituendo alla logica della rimozione e dell’espulsione quella della cura e del reinserimento.
Il principale obiettivo dei riformisti è stato non solo quello di abolire i manicomi, ma anche quello di rifiutare qualsiasi legislazione speciale, perché essa di per sé avrebbe segnato uno stigma nei confronti delle persone con disturbi mentali. Secondo l’attuale legislazione è scomparso qualunque cenno alla pericolosità in quanto la nuova legge privilegia l’esigenza di cura.
Nel ricordare la disposizione dei reparti nei manicomi, Luigi Attenasio psichiatra basagliano, evoca la "strategia dei poteri" di Foucault. "Bisogna partire dal luogo in cui nascono i manicomi, lontano dalla città - spiega Attenasio - i primi manicomi sono i lebbrosari perché i malati di lebbra nel 1700 non ci sono più e i lebbrosari sono spazi che si sono svuotati, dopo l’atto di separazione di Pinel che dice che i matti sono malati e non devono stare insieme ai delinquenti, lui li toglie dalle catene della delinquenza ma li consegna ad altre catene, quelle più simboliche della psichiatria che nasce in quel momento. Per cui la psichiatria come scienza e il manicomio come luogo in cui viene praticata la scienza psichiatrica sono coevi. In questi luoghi in cui le persone sono rinchiuse, cominceranno ad avere dei comportamenti che non sono della malattia, lo scopriremo dopo, bisognerà che arrivi Basaglia per capire che la sindrome dell’allontanamento sociale è un qualcosa che porta una persona deprivata della sua capacità di stare con gli altri ad assumere degli atteggiamenti che diventeranno per gli psichiatri anche dei sintomi". La sindrome da social breakdown è il deterioramento delle abilità sociali, interpersonali e comportamentali, come la capacità di lavorare, visto nei pazienti psichiatrici cronici ospedalizzati, dovuto all'effetto dell'istituzionalizzazione di lungo termine e non al disturbo mentale in sè.
Questa tendenza all’isolamento degli spazi dove vengono messi i "matti", trionferà anche in Italia dopo legge del 1904 quando alcuni manicomi verranno costruiti sulle isole, ad esempio a Venezia nei casi di San Servolo e San Clemente. Il progetto della costruzione di un manicomio femminile sull'isola di San Clemente di Venezia era stato predisposto attorno agli anni 1855-1857, durante la dominazione austriaca. L'isola abbandonata da tempo aveva ospitato l'antico convento dei canonici lateranensi della Carità ma dell'intero complesso conventuale fu mantenuto soltanto l'edificio della chiesa, il resto venne demolito per far spazio al nuovo manicomio. Quello di San Servolo è stato aperto per oltre due secoli e mezzo, istituito nel 1715 e chiuso nel 1978. Era un ospedale militare e manicomio centrale insieme, dove inizialmente si curavano i militari infermi della Serenissima Repubblica di Venezia. A partire dal 1725, invece, venne utilizzato anche per accogliere alcuni malati di mente di estrazione sociale nobile e dal 1797, per volere del Comitato di salute pubblica, fu aperto a tutte le classi sociali, in particolar modo ai malati "mentecatti" e "miserabili", che altrimenti venivano rinchiusi nelle carceri o abbandonati a se stessi.
"Questa logica dell’allontanamento e della progressione verso la morte che da civile diventa poi reale e fisica era presente nel manicomio di Arezzo dove ho lavorato - racconta il dottor Attenasio - il manicomio aveva l’ingresso rivolto verso la città, poi c’erano dei viali lungo i quali si sviluppavano i reparti. I nomi dei reparti sono interessanti. Mentre nell’ospedale civile i reparti prendono nome dall’organo, dall’apparato o dalla specialità (per esempio in cardiologia vanno gli ammalati di cuore), la divisione del manicomio era invece sul comportamento, per cui avevamo nelle prime aree, più vicine all'ingresso, i reparti per tranquilli, laboriosi e ordinati. Erano le colonie agricole dove si svolgeva la famosa ergoterapia, la terapia riabilitativa occupazionale, che in realtà era sfruttamento perché non era un lavoro che portava ad emanciparsi, era un lavoro che confermava la custodia all’interno dell’istituzione. I tranquilli erano istituzionalizzatissimi e lavoravano nella stalla del manicomio supersfruttati, perché le persone erano disposte a tutto pur di stare fuori dai reparti o guadagnarsi qualche sigaretta".
Attenasio continua a descrivere la struttura manicomiale: "Poi c’erano i reparti di ‘osservazione’. Quando si arrivava in manicomio, si veniva lì con l’ordinanza e si restava in osservazione per 15 giorni, o un mese, e poi si doveva decidere se ricoverare definitivamente in manicomio il paziente oppure dimetterlo. Al 99% le persone venivano trattenute all’interno dell’ospedale e cominciavano la carriera manicomiale. Seguiva il reparto agitati e inquieti per chi era in preda ad agitazione psicomotoria, diviso in uomini e donne, e ‘semi’ (semi-agitati). La disposizione dei reparti all’interno del manicomio era una progressione che portava poi alla morte della persona. Dopo tranquilli, osservazione e inquieti c’era il reparto ‘infermeria’. Se una persona si ammalava non veniva trasferita all’ospedale ma nel reparto infermeria dove veniva 'curato'. Per cui di solito chi andava lì non veniva curato ma si ammalava sempre di più e si allettava. I primi reparti su cui noi siamo intervenuti sono state le infermerie, perché erano veramente dei gironi danteschi. Ricordo un centinaio di persone in un reparto, tutte allettate e con le piaghe da decubito. La prima grande riabilitazione fu di curare le piaghe da decubito. Questi reparti si chiamavano infermerie ma poi diventavano reparto sudici. I nomi dei reparti ricoprivano una funzione istituzionale. Dopo i sudici c’era solo la camera mortuaria. Lo psichiatra del manicomio aveva la delega sociale a tenere le persone dentro. Era il funzionario del consenso. Cioè giustificava con la sua scienza psichiatrica l’emarginazione di alcune persone".
Attenasio, presidente di Psichiatria Democratica, cita spesso Basaglia. "Lui diceva che il manicomio era come uno Stato nello Stato e il direttore del manicomio come il re sole, l’etat c’est moi". Secondo lo psichiatra basagliano, ai manicomi si può associare il termine "eterotopie", dove i concetti di spazio e di tempo sono distorti. "I manicomi, come le prigioni, non sono non luoghi, ma controluoghi, quelli che Foucault chiama eterotopie di deviazione - continua Attenasio -identificabili per il comportamento di chi dentro vi è collocato, deviante la norma e per il diverso funzionamento rispetto alla propria cultura, per l’eterocronia, ossia la rottura assoluta con il tempo tradizionale, per il particolare sistema di apertura e chiusura che li isola e li rende penetrabili. Basaglia capisce subito che il primo atto di salute mentale è la distruzione dei manicomi, che non si può fare psichiatria se esiste il manicomio".
Il complesso delle istituzioni descritte da Foucault si configura dunque come "strumenti di sorveglianza segregativa".
In Italia il concetto di "pericolosità sociale" viene introdotto nel 1930 dal Codice penale Rocco, anche per individui le cui caratteristiche o condotte possono essere spesso collegate a conformazioni biologiche, oppure a comportamenti legati alla condizione di marginalità. La pericolosità sociale (art. 202) stabilisce che per la legge penale è socialmente pericolosa la persona, anche non imputabile o non punibile, che ha commesso un reato ed è probabile lo commetta nuovamente. L’intervento penale non doveva dunque orientarsi solo a punire il reato, ma aveva come fondamento iniziale la necessità di prevenire e difendere la società dal delitto. Tra le categorie individuate ci sono, tra gli altri: «i prosciolti per infermità psichica, per intossicazione cronica da alcool o stupefacenti, per sordomutismo» (art. 222) e i «condannati, per delitto doloso o preterintenzionale, a pena diminuita per infermità psichica o per intossicazione da alcool o stupefacenti o per sordomutismo». La presunzione di pericolosità imponeva l’obbligo di assegnazione al manicomio giudiziario. Questo tipo di applicazione legislativa deriva dall'idea ottocentesca che il "patologico" presente nella società sia una sorta di "cancrena" che mina la società dall'interno e quindi è compito delle autorità intervenire per evitare la "degenerazione". Si parla infatti di individui "anormali", che rappresentano un male per la società e spesso chi ha patologie psichiatriche viene comunque associato al delinquente. Ed è ancora questo lo stigma e il modello che troviamo riproposto nei media oggi quando si trattano i casi di cronaca. Si tratta di un razzismo diverso dal «razzismo etnico». E' il razzismo contro l’anormale contro gli individui portatori di uno stigma, di un difetto. Si tratta di un razzismo che non è per la difesa di un gruppo contro un altro, è un razzismo interno a una determinata società.
In questo hanno giocato un ruolo importante anche i due conflitti mondiali. Nel 1918, ai dieci milioni di morti, invalidi e mutilati, si aggiunge un numero elevato ma imprecisato di persone che hanno perso la salute mentale a causa del conflitto. Matteo Schianchi ricorda che "l’espressione popolare scemo di guerra nasce proprio in questi anni".
Il regime nazista, come è noto, praticava la sterilizzazione forzata e l'eutanasia nei confronti dei disabili psichici e fisici. Adolf Hitler aveva teorizzato la necessità di proteggere la razza ariana germanica da tutti quei fattori di "corruzione" che avrebbero potuto indebolirla. Era l"eugenetica" vale a dire il progetto di ottenere un miglioramento della "razza" germanica coltivando e favorendo i caratteri ereditari favorevoli ("eugenici") e impedendo lo sviluppo dei caratteri ereditari sfavorevoli ("disgenici"). Per i disabili fisici e psichici non era prevista possibilità di cura o di terapia e si apriva la strada alla loro soppressione.
Il 14 luglio 1933, il ministero degli Interni del Reich (sezione sanità popolare) emana la prima legge indirizzata verso il miglioramento della salute genetica tedesca attraverso la sterilizzazione obbligatoria di soggetti con malattie ereditarie: epilessia, schizofrenia, oligofrenia, infermità fisiche congenite, cecità e sordomutismo. L’applicazione della legge era garantita dai “tribunali per la salute genetica” a seguito di diagnosi e denunce di ospedali e case di cura. Le stime dei soggetti da sottoporre alla sterilizzazione forzata erano di oltre quattrocentomila individui: 200.000 persone con debolezza di mente, 80.000 con schizofrenia, 60.000 con epilessia, 20.000 con psicosi maniaco-depressive, 20.000 con gravi malformazioni, 16.000 con sordità, 4.000 con cecità, 10.000 affette da alcolismo ereditario e 600 da corea di Huntington (malattia genetica neurodegenerativa). "Questa politica è sostenuta non solo a livello governativo, ma propagandata anche tra la popolazione - scrive Schianchi - all’interno di un testo di matematica del 1935 per studenti tedeschi si poteva trovare scritto:
Un pazzo costa 4 marchi al giorno, uno storpio 5,50, un criminale 3,50. In moltissimi casi un funzionario guadagna appena 4 marchi al giorno per ogni componente della sua famiglia, un impiegato appena 3,50, un operaio specializzato neppure due marchi. Queste cifre devono far pensare. Da un calcolo prudenziale risulta che in Germania i pazzi, gli epilettici, ecc. ricoverati sono 300.000. a) Quanto costano giornalmente questi individui, data una quota media giornaliera di 4 marchi? b) Quanti prestiti di 1.000 marchi alle coppie di giovani sposi si ricaverebbero all’anno (rinunziando anche alla restituzione) da quella somma?"
Una testimonianza ancora 'viva' di quello che furono i manicomi nella prima metà del Novecento arriva dal grande artista surrealista francese Antonin Artaud (1896-1948) che fu più volte rinchiuso nel corso della sua vita. Nato in una famiglia borghese, Artaud viene colpito a soli quattro anni da una grave forma di meningite e a dieci dal trauma della morte della sorella Germaine a causa delle percosse subite in casa. Durante gli anni della prima guerra mondiale Artaud manifesta i primi sintomi di nevrosi e viene ricoverato in sanatorio. Non ancora ventenne viene curato con il laudano e inizia la dipendenza dagli oppiacei che si porterà dietro per tutta la vita. Nel 1938, mentre si trova a Dublino, viene colto da uno stato mistico-delirante. Arrestato in seguito a un litigio con la polizia, viene imprigionato, rimpatriato in Francia e qui subito ricoverato nel manicomio di Le Havre.
Questo rimpatrio forzato dall'Irlanda è per Artaud un evento traumatico al quale si riferirà sempre come a una deportazione. Poi viene trasferito da Le Havre a Rouen, da Rouen al manicomio Sainte-Anne a Parigi, dal manicomio di Sainte-Anne a quello di Ville-Évrard, dal manicomio di Ville-Évrard a quello di Rodez. Ecco un suo testo in merito:
Conosco le deportazioni, poiché la medicina si conosce attraverso i dolori e per curare i dolori bisogna averli sofferti, e non mi sarei azzardato a parlare della Sua deportazione in Germania nel 1942, anche se è stato Lei stesso a chiedermelo, se le circostanze non avessero posto anche me in stato di deportazione. Effettivamente, essere deportato è un fatto ed una condizione che non affronterò dal punto di vista medico o scientifico, perché odio tanto la medicina, quanto la scienza, ma della quale posso parlarLe come qualcuno che ne abbia lungamente e oserei dire: meticolosamente sofferto. Meticolosamente vuol dire che mi sono visto obbligato, come Lei, a non perdermi nulla dei tormenti della mia deportazione, perché deportato, mi sono inoltre visto internato, ed ho avuto, in effetti, molto tempo in anni di celle e pagliericci, accovacciato sui pagliericci nelle celle, di pensare alla mia condizione di sradicato e di esiliato. […]Ma l'aspetto orribile della faccenda, signor Pierre Bousquet, non è per me nel trapianto, e non è neppure nel fatto di non essere padroni di sé, è, piuttosto, nell'insolito potere di questa cosa senza nome che in superficie, ma solo in superficie, si chiama società, governo, polizia, amministrazione econtro la quale non è servito a nulla, nella storia, neppure ricorrere alla forza delle rivoluzioni. Perché le rivoluzioni sono scomparse, ma la società, il governo, la polizia, l'amministrazione, le scuole, voglio dire le trasmissioni e i contagi di credenze attraverso i totem dell'insegnamento sono sempre rimasti in piedi. E potremmo anche credere che non ci sia nulla da fare.
L’11 febbraio 1943 giunge a Rodez, dove, racconta che subì 51 elettroshock:
durante uno dei quali sono stato dichiarato clinicamente morto e poi risuscitato e rigettato nel terrore del trattamento psicoanalitico [...]. Dal più profondo della mia vita io continuo a fuggire la psico-analisi, la fuggirò sempre come fuggirò qualunque tentativo per imprigionare la mia coscienza in precetti o formule […].
La terapia elettroconvulsivante gli provoca la caduta di tutti i denti, la cura psichiatrica è per lui una tortura alla quale si ribella e scrive lettere di supplica e di denuncia al direttore, il dottor Ferdière. E' proprio nel manicomio di Rodez che Artaud scopre la nervatura essenziale del suo Teatro della crudeltà. I medici di Rodez riconoscono le sue doti artistiche, la sua poetica geniale, eppure cercano di far tacere i suoi pensieri deliranti, giudicano malato quel suo comportamento oltre la normalità .
Nel 1946 Artaud viene dimesso dal manicomio di Rodez e scrive:
ho perso ogni potere di disporre della mia vita, del mio corpo, internato d'ufficio e costretto in manicomio per 9 anni, oggetto nelle mani dell'autorità, e sottomesso a leggi crudeli ed alienanti che mi resero irrimediabilmente altro per sempre.
In Italia, quindici anni più tardi, nel 1961 Franco Basaglia (1924-1980) dirige a Gorizia l’ospedale psichiatrico. Prima a Gorizia, poi a Trieste, Basaglia rifiuta le contenzioni fisiche e l'elettroshock. Apre le porte dei padiglioni e i cancelli del manicomio. Con feste, gite e laboratori artistici cerca di portare una svolta radicale. Basaglia si rende conto che non si può migliorare, bonificare o 'umanizzare' un luogo disumano come il manicomio, è un'istituzione totale che come tale deve essere chiusa. Se ne può fare a meno, visto che non è sempre esistita.
Nel 1973 fonda Psichiatria Democratica, movimento della psichiatria alternativa in Italia. Il 13 maggio 1978 viene approvata dal Parlamento la legge 180 che non solo porta alla chiusura dei manicomi ma anche all'affermazione di un approccio nuovo che parte dal rispetto dei diritti e della dignità delle persone con sofferenza mentale. Il senso della legge 180 è di ridare dignità al malato in quanto persona, superando l'etichetta di "folle" o di "matto da rinchiudere" prevalsa fino a quel momento. [1]
Ecco come la poetessa Alda Merini (1931-2009) ricorda il suo internamento in manicomio:
Quando ci mettevano il cappio al collo
e ci buttavano sulle brandine nude
insieme a cocci immondi di bottiglie
per favorire l'autoannientamento,
allora sulle fronti madide
compariva il sudore degli orti sacri,
degli orti maledetti degli ulivi.
Quando gli infermieri bastardi
ci sollevavano le gonne putride
e ghignavano, ghignavano verde,
era in quel momento preciso
che volevamo la lapidazione.
Quando venivamo inchiodati in un cesso
per esser sottoposti alla Cerletti,
era in quel momento che la Gestapo vinceva
e i nostri maledettissimi corpi
non osavano sferrare pugni a destra e a manca
per la resurrezione degli uomini…
[1] Per la realizzazione di questa voce sono stati consultati i seguenti testi:
Sassano F., La Tutela dell'Incapace e l'Amministrazione di Sostegno, Maggioli Editore, 2004
Van Gogh/Artaud, Le suicidé de la société, Connaissance des Arts, Parigi.
Schianchi M., Storia della disabilità. Dal castigo degli dèi alla crisi del welfare, Carocci, Roma 2012
Crocco S., Follia e potere psichiatrico, tesi di laurea pubblicata da www.mariotommasini.it (sito web della Fondazione Tommasini onlus)
Bellasio A., La ragione altrove. Topologie d’eccezione in Michel Foucault, Materiali Foucaultiani 2010 (www.materialifoucaultiani.org)
Menozzi D. (a cura di), Antonin Artaud...la parola divenne arte, smell.ilcannocchiale.it 2004
Tenta di uccidere moglie e figlia, rinchiuso in manicomio
(sito internet locale, 28 agosto 2012)
Vittoria - Aveva sottratto il telefono cellulare alla moglie per impedirle di chiedere aiuto, aveva chiuso a chiave la porta di casa per impedirle, assieme alla figlioletta, di fuggire, poi aveva aperto i rubinetti dei fornelli della cucina a gas per saturare l’ambiente e provocare un’esplosione. La donna terrorizzata si era ribellata, aveva tentato disperatamente di aprire la porta, ma lui l’aveva minacciata con un coltello. In un’altra occasione aveva afferrato con le mani il collo della moglie, stringendo sempre di più la morsa per provocarne il soffocamento. Nel primo episodio, avvenuto nel maggio scorso, l’uomo, un 40enne di Vittoria, non era riuscito nell’intento per il tempestivo intervento della polizia. Gli agenti erano stati allertati dai vicini di casa che avevano notato che qualcosa non andava. All’arrivo dei poliziotti l’uomo aveva deciso di aprire la porta di casa, ma egli stesso si era barricato in bagno e per più di un’ora aveva minacciato di lanciarsi nel vuoto da un’altezza di sei metri, non riuscendo nell’intento per la rapidità con la quale gli agenti erano riusciti a bloccare l’apertura delle ante della finestra, sbarrandola con un’asse di legno dopo che si erano arrampicati rocambolescamente all’esterno dell’abitazione. La mediazione degli agenti aveva poi riportato alla calma l’uomo che era uscito dalla stanza da bagno ed aveva acconsentito a che gli venissero prestate le cure. Nel secondo episodio, avvenuto nel giugno scorso, era stato un vicino di casa, in visita ad evitare le più gravi conseguenze. E’ così che all’esito di laboriose indagini coordinate dal sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ragusa dr. Marco Rota, il G.I.P. presso quel Tribunale ha emesso l’ordinanza applicativa di misura di sicurezza provvisoria dell’ospedale psichiatrico giudiziario. Infatti, l’attività informativa dai congiunti dell’uomo e presso le strutture sanitarie di alcune province hanno delineato un profilo di pericolosità sociale del soggetto al quale si è dovuto rimediare con l’applicazione della misura.
L'articolo di cronaca locale riportato qui sopra è interessante sotto diversi aspetti. In primis il titolo che riporta a prima del 1978, quando furono chiusi i manicomi con la legge 180. Infatti l'uomo di cui si parla, che ha tentato di uccidere moglie e figlia e di suicidarsi, è stato rinchiuso in un OPG (Ospedale psichiatrico giudiziario) o manicomio criminale. Il titolo risulta quindi scorretto. Inoltre il testo della notizia rilancia lo stigma della 'pericolosità sociale' delle persone con disturbo mentale. Non è poi specificato se l'uomo avesse avuto una qualche diagnosi di disturbo psichico. Per le informazioni riportate, questo potrebbe anche essere semplicemente un caso di violenza sulle donne da parte di un marito e padre violento e irascibile. Per essere rintracciato sui motori di ricerca, l'articolo reca il tag "psicolabile".
A seguire un esempio sulla confusione fra Spdc e Manicomi:
I manicomi non ci sono più ma i matti sono sempre da legare
(edizione online di un quotidiano nazionale,6 marzo 2014)
Hai voglia di dire che i manicomi non ci sono più, il povero Basaglia si sarà rivoltato un milione di volte nella tomba. Parola di uno psichiatra riluttante, al secolo Piero Cipriano, che ha lavorato in vari dipartimenti di salute mentale e da alcuni anni lavora in una SPDC di Roma. Quattro lettere che stanno per Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, reparti collocati nell'ospedale generale. Qui sono ricoverati gli affetti da mal mentale dopo che nel 1978 la legge 180 ha abolito i manicomi. Cipriano per età (è nato nel 1968) non ha conosciuto quei campi di concentramento del malato mentale che erano i manicomi, ma conosce assai bene, per lavorarci giorno e notte, gli SPDC : "Mi ricordano una fabbrica" dice e lì per lì pare un grande cambiamento e in positivo. E certo lo è, almeno in apparenza. Ma Cipriano non a caso è riluttante, ovvero, come ci dice il vocabolario, "uno scarsamente disposto a cedere, concedere, acconsentire". Piuttosto la sua esperienza lo convince che in quei luoghi sta rinascendo, sotto altre forme, una rinnovata cultura manicomiale. Il malato è una macchina biologica rotta che va aggiustata non con le parole, ma con il farmaco e se il farmaco non basta ci sono le fasce o le terapie elettriche. E le cure tranquille? Nel silenzio costoso di studi privati. Una convinzione che è maturata dall'esperienza sul campo e si è tradotta in questo diario di reparto dentro "la fabbrica della cura mentale". Cipriano, lo si avverte sin dalle prime righe, è uomo dalla notevole temperatura interiore. A dispetto della conclamata volontà di darsi a più proficue peregrinazioni nel mondo, nel suo lavoro ci mette passione, competenza e sdegno, anche dietro gli apparenti segni di cinismo: "Che ci faccio qui?". L'incipit del diario ha l'effetto di un pugno nello stomaco ("prendila tienila legala" è l'eloquente titolo di una notte da incubo) seguito dal perfido resoconto del riluttante io narrante alle prese con i colleghi: il sarcastico, la fredda, la disillusa, la suorina, il fatalista, una galleria di personaggi che girano per i reparti in coda al grande timoniere: "Giro finito. Fino al giorno dopo i pazienti ingoieranno pasticche, cibo, nicotina e televisione". Piero Cipriano ci avverte che in questa fabbrica il dogma della reclusione della follia, con il conseguente abuso dei farmaci, è alimentato dagli interessi di multinazionali che hanno creato schiere di sostenitori pronti a dimostrare ch in Italia i manicomi non sono stati chiusi "grazie ai neurolettici tipici e ora atipici che avrebbero reso più docili i malati". I farmaci, dice Cipriano,spesso "servono a sedare più che il malato l'ansia dello psichiatra". C'è poi la questione che più d'ogni altra "fa venire il sangue amaro" all'autore: mai nei libri di psichiatria si parla di legare la gente, mai se ne parla, negli anni di specializzazione: "Ma allora-si chiede - perché è una pratica tanto diffusa, che coinvolge l'80% degli SPDC d'Italia? E' una questione di etica e di cultura: altro che reclamare più operatori, occorre cambiar loro la testa". La testa di Cipriano è ostinata, cocciuta, piena di sogni ma bastano le poche righe del capitolo di una notte al pronto soccorso per capire di che pasta sono fatti questi sogni. Forse il meglio di questa testimonianza è in ciò che non vi abbiamo anticipato, nelle tracce di romanzo, di saggio, di reportage, di manuale di sopravvivenza. Non a caso Cipriano chiede aiuto alle parole di Goethe: "Ciò che qui ho narrato è realmente accaduto, ma niente è accaduto come qui ho narrato".
Un lungo articolo ripercorre le storie degli ex pazienti dell’ospedale psichiatrico sardo. Villa Clara. Ecco alcuni stralci utili a comprendere il contesto sociale che connotava la definizione di ‘matti’, tra internamento, violenze, soprusi e choc.
I matti e l’esercito di terracotta
I sopravvissuti del vecchio manicomio di Cagliari
(quotidiano locale, 2 gennaio 2011)
Fa parte della gigantesca risacca umana che s’è arenata dopo la legge sulla chiusura degli ospedali psichiatrici. Armando e gli altri (un centinaio) si sono ritrovati fuori dal manicomio nella primavera del ’97: ad assorbirli ha pensato l’Aias (associazione per l’assistenza agli spastici) aprendo case protette un po’ ovunque. […] Messi insieme, sono un esercito di terracotta, sopravvissuti del manicomio, gli ultimi testimoni di quello che è stato il santuario-lager d’una psichiatria tronfia e piena di certezze. Bisogna conservarli con cura, Armando e gli altri: perché possono ancora raccontare, correre con la memoria a quando «gli infermieri mi picchiavano con una cinta» oppure quando «per punizione non mi davano da mangiare e mi facevano dormire per terra». […] A reclutare i pazienti in uscita dal manicomio è stato uno psichiatra che, in un passato non proprio remotissimo, ha lavorato in un ospedale pubblico (a Ozieri) e in una clinica privata per matti con solido reddito alle spalle. Si chiama Antonio Brundu, ha 69 anni e confessa con qualche imbarazzo anche una specializzazione in anestesia: «Per fare l’elettroshock bisognava averla». Quanti? «Ne ho fatto un migliaio, non di meno. Mi considero un pentito dell’elettroshock». Oggi esibisce con soddisfazione la sua squadra di naufraghi. Uno di loro ha passato i novant’anni. Il segreto? «Basta farli vivere come noi, basta che abbiano una vita normale». Finora non è andata esattamente così. «Retaggi del passato. Parlatene con loro. Io non facevo lo psichiatra a Villa Clara e dunque non posso testimoniare. Ho lavorato in una struttura privata e debbo confessare che i metodi utilizzati non erano migliori». Per esempio? «Oltre l’elettroshock, strumento di cui ho abusato, penso allo choc insulinico. Serviva per stimolare una reazione nei casi più gravi. Peccato che qualche volta il paziente non si riprendesse». Cioè? «Moriva. Da noi non è mai successo ma ogni tanto morivano. Iniettavamo cinquanta unità di insulina in vena e nell’arco di pochi minuti il paziente andava in coma profondo. Il risveglio avveniva per via rinogastrica, con un sondino che sparava un altro farmaco. Si praticava lo choc insulinico negli schizofrenici, nei depressi gravissimi e in altri malati. Qualcuno è rimasto in coma per anni». […] «Ho avuto proprio qui al Poetto un uomo che era stato ricoverato in manicomio da ragazzino. Le carte dicono che disturbava a scuola. Il medico del paese, senza neppure visitarlo, l’ha spedito a Villa Clara. Ci è rimasto quarant’anni. Non aveva alcun disturbo psichico. A me è andata in modo ben diverso» […] Marcello passa le giornate in falegnameria, sta in reparto solo per i pasti e perdormire. Pare se la cavi molto bene nel riparare le cornici. Quand’era ricoverato a Villa Clara, lavorava clandestinamente da manovale per costruire la casa al mare del direttore (finito poi sotto processo). «In manicomio era molto brutto. Quando sbagliavo, mi picchiavano con una fune grossa così. Faceva male. Mi toglievano il pranzo, anche. E poi mi facevano dormire per terra. Sempre se sbagliavo». […]Hanno ancora paura? «Sa come li lavavano in manicomio? Tutti nudi in una stanza piastrellata, una sorta di grande bagno vuoto. E dall’alto, a pompa, pioveva l’acqua. Così strano che in fondo la paura non li abbia mai lasciati?» Certi ricordi non se ne vanno. «Ogni tanto, all’improvviso, ti raccontano un pezzetto della loro vita. Ed è sempre un pezzetto di ospedale psichiatrico, un pezzetto d’incubo»
Al contrario, in questo articolo un po’ più datato, troviamo la riconferma attraverso notizie di cronaca dello stereotipo della pazzia associata alla pericolosità sociale. L’informazione risulta quindi fuorviante, anche se riporta la testimonianza della celebre poetessa.
Alda Merini: però i matti sono abbandonati, meglio riaprire i manicomi
LA POETESSA: «SONO STATA LÌ DENTRO 12 ANNI, MI HANNO CURATA». LO PSICHIATRA CAZZULLO: BISOGNA CAPIRE I SEGNALI D' ALLARME
(quotidiano nazionale, 10 agosto 2003)
«Però fa ancora paura, una paura superstiziosa. La gente tende a non guardarla in faccia, la malattia mentale, a nasconderla e vergognarsene come fosse una maledizione di Dio». Alda Merini è una grande poetessa, «la pazza della porta accanto» che prima della fama, delle celebrazioni e della candidatura al Nobel ha patito dodici anni di manicomio e quest' anno, ricorda in un sorriso, ha pubblicato un libro che s' intitola la Clinica dell' abbandono, «pensi un po' la combinazione». Perché il problema è quello, «i malati di mente sono rimasti abbandonati a se stessi, molti sono morti, si sono uccisi. Il matto viene soppresso, in questa società, non è produttivo...Quasi quasi vorrei dire di riaprirli, i manicomi. In fondo mi hanno curata, no?, almeno mi hanno accolta». E ride, «la verità è che Basaglia immaginava un amore tra pazzia e società, la non violenza verso il malato, ma la sua legge è stata negata, è rimasta incompiuta, perché ci volevano ospedali, ospedali veri e propri per curare le persone, altro che gli "operatori sociali": la mente umana è vasta come il mare, c' è bisogno di grandi medici, anche perché magari non si riconosce la violenza e si finisce per ritenere "pericoloso" chi è depresso per amore...». Intanto per lo più non succede nulla. La malattia evolve. Giuseppe Leotta teneva un arsenale in casa, ad Aci Castello, si mostrava violento e ombroso. Machete, asce, fucili a pompa e un porto d' armi per uso sportivo. Come Giuseppe Calderini, che nel suo quartiere di Milano chiamavano il «matto» e sul citofono s' era fatto mettere il numero della Bestia nell' Apocalisse di Giovanni, 666, l' Anticristo abbinato alla svastica tracciata sulla porta di casa e fra i capelli. Uno ha ucciso cinque persone, il 2 maggio, l' altro s' è messo a sparare in casa e fuori e ne ha ammazzate due, prima di ferirne altre tre e uccidersi, anche lui. Due casi fra tanti. E guai a parlare di «raptus», avverte il professor Carlo Lorenzo Cazzullo, padre della psichiatria italiana: «Se si intende come una sorta di cesura della vita "normale", non sono d' accordo. Di solito, se si ripercorre con attenzione la storia recente e la storia remota di queste persone, si trovano segnali d' allarme. Sono cose che vengono da lontano, dall' adolescenza e dall' infanzia, l' elemento genetico non ha un peso specifico molto alto». L' essenziale è il controllo. Per questo Roberto Anzalone, presidente dell' Ordine dei medici di Milano, ieri era furibondo: «Si sono eliminati manicomi perché si diceva che erano istituzioni orripilanti. Ma andavano cambiati, non eliminati. Ora si finisce per ricoverare malati psichici in una stanza di ospedale, magari insieme a pazienti qualsiasi. O peggio ancora si scarica tutto sulle famiglie, che non possono fare altro se non amarli».
GLI ALTRI CASI DI MILANO • LA STRAGE Il 5 maggio Andrea Calderini spara e uccide la moglie, una vicina e ferisce tre passanti. Da tempo terrorizzava il vicinato • DELIRIO MISTICO Il 26 maggio 2002 Eugenio Podio, in preda a un delirio mistico, uccide il figlio di 6 anni soffocandolo con un cuscino e tenta il suicidio • CRISI ESISTENZIALE Il 20 luglio 2002 Ruggero Jucker uccide la fidanzata a coltellate. Poi si aggrappa nudo alla finestra e urla: «Sono Bin Laden»
Infine qui di seguito un buon esempio di un articolo che riesce a fare 'memoria' delle torture manicomiali pur restando nell'attualità:
VOGHERA
Nell’ex manicomio le «rotonde dei furiosi» e i teschi dei pazienti
La struttura, 63mila metri quadrati , arrivò ad ospitare 1029 malati psichici: la maggior parte non ne usciva più
(edizione online di un quotidiano nazionale, 10 gennaio 2014)
Tra le siepi del giardino all’italiana sbocciavano ogni anno 5000 tulipani. Migliaia, come le persone che trascorsero una vita intera rinchiuse tra le mura del manicomio di Voghera: respinte come un corpo estraneo dalla società. Oggi che i rampicanti hanno sfondato le finestre e i tetti sono crollati, di quell’immensa sofferenza, come dei progressi scientifici che hanno messo fine alle terapie inumane e gettato le basi per la chiusura dei manicomi, non resta che un ricordo lontano. Eppure, per molto tempo, la casa dei pazzi, oltre a regalare una poco lusinghiera terza «P» alla città (dopo quelle di «peperoni» e «prostitute»), fu, assieme a quella delle ferrovie, la più importante azienda della città, arrivando ad ospitare 1029 pazienti e dando lavoro ad oltre 400 persone. Voluto dall’amministrazione provinciale (presidente Agostino Depretis) negli anni ’70 dell’Ottocento, l’ex manicomio fu concepito come un monumento al positivismo e costituisce un pregevole esempio di architettura sanitaria dell’epoca, sviluppato secondo concetti all’avanguardia. Dai sotterranei di servizio dotati di binari che corrono lungo tutta la pianta della struttura fino alle inquietanti «rotonde dei furiosi». Esiste ancora quella del reparto maschile. Vi si accede attraverso una pesante porta con un oblò, che immette in un corridoio semicircolare su cui si aprono una serie di stanzette con i letti di contenzione. Tutto senza neanche uno spigolo. Negli anni bui, era qui che si eseguivano le pratiche di sedazione più atroci.
Tutto raccontato puntualmente da 16mila cartelle cliniche, che giacciono impolverate nella biblioteca-archivio, assieme ad alcuni teschi di pazienti «prestati» alla ricerca scientifica e agli strumenti chirurgici, tra aghi per la lobotomia e tamponi per l’elettrochoc. Gran parte di queste cartelle (9000 maschili e 6000 femminili, dal 1876 al 1998) furono riordinate e catalogate negli anni ’60 del Novecento da una paziente schizofrenica, moglie di un generale di Pavia, entrata e, come la maggior parte degli «ospiti», mai più uscita dal manicomio. [...]