La pratica e la parola della contenzione rimandano senza dubbio allo stereotipo del matto da legare.
"Contenzione è una parola morbida che camuffa un gesto estremamente brutale. Viene quindi usata una parola emotivamente sopportabile per tutti perchè evoca un 'tenere con', ben lontano dalla realtà di immobilizzare fisicamente - scrive la psicologa Giuseppina Gabriele - Il suo uso, a mio avviso, va interpretato come un deterrente, simbolico e reale, affinchè regni l'ordine istituzionale. Legare equivale a incrinare la relazione terapeutica e la fiducia del paziente nel servizio".[1] Il fronte di coloro che vogliono venga abolita la contenzione è vasto e raccoglie quell'area dell'antipsichiatria, dei basagliani, che sono contrari agli apparati coercitivi/repressivi. Un fronte che si va estendendo dopo i diversi casi di morti per contenzione degli ultimi anni, di cui riportiamo gli articoli nell'apposita sezione.
Per superare la pratica del legare bisogna quindi riflettere contemporaneamente sulla questione delle "porte aperte/luoghi aperti" e cioè degli spazi fisici e mentali a disposizione del paziente ricoverato. La scelta di tenere le porte aperte e non legare i pazienti nei luoghi di trattamento, e l’importanza attribuita all’alleanza con l’utente e alla ricerca del suo consenso sono state il cuore della riforma della legge 180.
Dopo oltre 35 anni dall'approvazione di quella legge, negli ultimi anni sono stati numerosi i casi di contenzione fisica nei Servizi ospedalieri di Diagnosi e Cura. Ma questo secondo gli psichiatri Luigi Attenasio, Luigi Benevelli, Giovanni Rossi, che hanno scritto in anni recenti un appello contro la contenzione fisica, reintroduce "gli stereotipi della pericolosità sociale superati dalla legge 180/78 di riforma dell’assistenza psichiatrica". L'assistenza nei servizi di salute mentale è oggi più difficile, non perché i pazienti siano diventati diversi da quelli di prima, ma per i tagli del personale e delle ore di apertura dei servizi. "Tuttavia la diminuzione delle risorse non giustifica il riuso di sistemi custodialistici e violenti" scrivono i tre psichiatri.
Psicoradio, una testata radiofonica realizzata dal Dipartimento di Salute mentale di Bologna con l'associazione Arte e Salute onlus, i cui redattori e redattrici sono persone in cura presso il dipartimento, ha realizzato una ricerca su 234 titoli con termini riguardanti la salute mentale pubblicati da 8 quotidiani nazionali in 8 mesi compresi fra novembre 2007 e ottobre 2008. Nelle sezioni di cronaca, le parole usate per parlare di cura rivelano un dato interessante: nel 58% dei casi sono nominati metodi di cura che prevedono la contenzione o comunque un ruolo non attivo del paziente, nel 34% dei casi si parla genericamente di 'cura psichiatrica', nell'8% dei casi è presente la psicoterapia. [2]
[1]Digilio G. (a cura di), Vade retro del pregiudizio. Piccolo dizionario di salute mentale, Armando Editore, Roma 2005 pp. 23-24
[2] Follia scritta, I quaderni di Psicoradio
MALASANITÀ
Legato, sedato e infine ucciso
L'assurda morte di Giuseppe Casu per trattamento sanitario obbligatorio
Un uomo è morto dopo sette giorni di ricovero nel reparto di psichiatria dell'ospedale di Cagliari. Ora i giudici d'appello hanno confermato l'assoluzione dei medici. Scrivendo però che si tratta di un "macroscopico caso di malasanità". E la figlia chiede: "Diventi un esempio". Perché non si ripetano vicende come questa
(sito internet di un settimanale nazionale, 28 marzo 2014)
Si chiamava Giuseppe Casu. Faceva l'ambulante. Ed è morto dopo essere rimasto per sette giorni legato a un letto d'ospedale. I medici che lo hanno tenuto in queste condizioni sono stati assolti, anche in secondo grado. Ora però i giudici della corte d'appello di Cagliari hanno chiarito le motivazioni della sentenza. Di una assoluzione che, dicono, ha molti “ma”. Perché si tratta, scrivono i magistrati, di un «macroscopico caso di malasanità». Di una vicenda «dall'evoluzione incredibile» che deve essere conosciuta. [...]
La morte di Giuseppe Casu inizia il 15 giugno del 2006, quando viene ricoverato contro la sua volontà nel reparto di psichiatria dell'ospedale Santissima Trinità di Cagliari: un Tso (trattamento sanitario obbligatorio) attivato d'ufficio di fronte alla sua agitazione contro le forze dell'ordine a causa dell'ennesima multa per abusivismo. Arrivato in corsia viene sedato, legato al petto, alle mani e ai piedi, e portato in una stanza. Quel giorno può vederlo solo la moglie. «Io l'ho visto dopo», racconta la figlia, Natascia : «Era addormentato, faceva fatica a parlare». Le “cure” (il virgolettato è dei giudici) continuano: psicofarmaci, controlli, visite. Nessun elettrocardiogramma. Nessun colloquio verbale: il 20 giugno il primario vorrebbe parlare con lui ma non riesce, è troppo sedato. Nonostante questo stabilisce una diagnosi: disturbo bipolare maniacale. L'unica patologia riconosciuta negli anni al venditore ambulante era stata un disturbo di personalità non meglio identificato e una leggera epilessia giovanile tenuta sotto controllo dai farmaci. Ma nelle mani dei medici arriva col fiato che puzza d'alcol (i parenti e il medico di famiglia informano il giorno stesso del fatto che non era mai stato un alcolizzato - quella mattina sì, aveva una bottiglia di moscato), e in stato di “evidente agitazione”. Fra i fratelli poi ci sono persone con disturbi mentali. [...]
Sui farmaci, le costrizioni, i lamenti, lei e i fratelli non sanno cosa dire. Chiedendo quando sarebbe stato slegato, accettano. Aspettano. Fino a che il 22 giugno non arriva la notizia: è morto. La prima autopsia parla di una tromboembolia all'arteria polmonare. Da questo partono gli avvocati ingaggiati da Natascia, accompagnata da Francesca Ziccheddu, fondatrice del comitato "Verità e giustizia per Giuseppe Casu ", e Gisella Trincas, portavoce di molte associazioni di familiari, per sostenere l'accusa di omicidio contro i responsabili di reparto: la costrizione fisica sarebbe stata, per loro, all'origine di quell'embolia. Ma qui inizia “l'incredibile evoluzione della vicenda” di cui scrivono i giudici della corte d'appello di Cagliari. Perché parallelente al processo che si avvia contro i camici bianchi del servizio di psichiatria, iniziano le udienze per il primario di anatomopatologia dello stesso ospedale, Antonio Maccioni, e di un suo tecnico. L'accusa è di aver occultato parti del cadavere di Giuseppe Casu e di averle sostituite con quelle di un altro paziente deceduto. I giudici di primo e di secondo grado confermano: colpevoli, e condannano il primario a tre anni di carcere. Ma poiché la sentenza non è ancora definitiva, non ha ancora superato l'ultimo grado della corte di Cassazione, il processo sulla morte di Casu non può tenere conto degli esiti. Il dibattimento su cosa (e chi) ha ucciso quindi Giuseppe Casu continua, tralasciando il fatto che i reperti dell'autopsia siano tutti potenzialmente scorretti. La tromboembolia diventa difficile da dimostrare, e i tecnici della difesa convincono i togati che si tratti di "morte improvvisa", una crisi cardiaca di cui è impossibile tracciare sicure fasi e origini certe. In mancanza di prove e di un nesso fra cause ed effetti, i medici responsabili del servizio di psichiatria vengono assolti, anche in appello. [...] emerge come sia stata tolta la dignità, oltre che la vita, a una persona che era stata ricoverata «per proteggere gli altri e sé stessa dal male» ed è morta nelle mani di chi la doveva curare. Perché, scrive il tribunale cagliaritano, una cosa è certa: «se detto ricovero non fosse mai avvenuto, il Casu sarebbe ancora vivo».
«Il primo addebito di colpa è rappresentato dallo stato di contenzione fisica adottato per tutto l'arco di tempo», scrive la corte d'appello: «in contrasto con le più elementari regole di esperienza, che consigliano di mantenere la contenzione il minor tempo possibile e non certamente per giorni». «Mentre nel caso di specie», continuano le motivazioni: «a parte la necessità di applicare la contenzione nel primo periodo, nel rispetto del trattamento sanitario obbligatorio, essendo certo lo stato di agitazione psicomotoria, la fascia pettorale fu rimossa il secondo giorno, mentre quelle impiegate per immobilizzare polsi e caviglie non furono mai rimosse». È normale? Esser legati così, senza poter parlare, spiegare, senza poter intervenire? Quasi. Nella sua testimonianza, resa durante le udienze del processo di primo grado, Maria Rosaria Cantone, il medico di guardia il giorno del ricovero: «dichiarò che la pratica della “contenzione fisica” anche oltre le 48 ore era frequente in quel reparto che presentava dei problemi legati al sovraffollamento», scrivono i giudici: «atteso che il numero dei pazienti ricoverati era di gran lunga eccedente quello massimo stabilito dai regolamenti mentre quello del personale infermieristico era inferiore a quello necessario». «Eravamo costantemente sotto organico dal punto di vista del personale infermieristico», dichiara la dottoressa: «la mancanza di personale per noi è una costante». Oltre i lacci, ci sono i farmaci. In dosi normali ma sufficenti ad addormentare il paziente per giorni: «il Casu non fu mai in condizioni di potersi esprimere a riguardo», scrivono i giudici discutendo la scelta di somministrare un farmaco indicato particolarmente per gli alcolisti in crisi d'astinenza: «perché perennemente sedato o semi sedato». «Io mi son sentita ignorante. Mi sono fidata. Non potevo temere. Non potevo immaginare cosa sarebbe successo», conclude Natascia: «Ora so, però. E voglio fare di tutto, col comitato per la verità su mio padre, le associazioni e un documentario che stiamo per chiudere, per rendere quello ci è successo un esempio. Per informare le persone. Perché la gente sappia». Che, se anche «Non ci sono gli addebiti di colpa, il necessario nesso causale, idoneo ad integrare il reato di omicidio colposo», come scrivono i giudici, nei reparti di psichiatria degli ospedali, ancora oggi, a 36 anni dalla legge Basaglia, può succedere tutto questo. Per "mancanza di personale".
ESCLUSIVO
Così hanno ucciso Mastrogiovanni
Fermato e legato a un letto per più di 90 ore. Senza acqua né cure. Finché muore. Il video integrale sul nostro sito. Un'iniziativa dei parenti della vittima e della onlus "A Buon Diritto" di Luigi Manconi
(sito internet di un settimanale nazionale, 28 settembre 2012)
Ucciso per futili motivi. Si chiamava Francesco Mastrogiovanni, aveva 58 anni e faceva il maestro elementare. Mastrogiovanni non è morto in una rissa casuale con qualche teppista. In una mattina di fine luglio del 2009, un vasto spiegamento di forze dell'ordine è andato a pescarlo, letteralmente, nelle acque della costiera del Cilento (Salerno) e lo ha portato al centro di salute mentale dell'ospedale San Luca, a Vallo della Lucania, per un trattamento sanitario obbligatorio. Tso, in sigla. Novantaquattro ore dopo, la mattina del 4 agosto 2009, Mastrogiovanni è stato dichiarato morto. Durante il ricovero è stato legato mani e piedi a un letto senza un attimo di libertà, mangiando una sola volta all'atto del ricovero e assorbendo poco più di un litro di liquidi da una flebo. La sua dieta per tre giorni e mezzo sono stati i medicinali (En, Valium, Farganesse, Triniton, Entumin) che dovevano sedarlo. Sedarlo rispetto a che cosa non è chiaro, visto che il maestro non aveva manifestato alcuna forma di aggressività prima del ricovero. Aveva sì cantato, a detta dei carabinieri, canzoni di contenuto antigovernativo, come si addice a un "noto anarchico", sempre secondo la definizione dei tutori della legge locali. E poi, sì, aveva mostrato disappunto al ritrovarsi imprigionato. Aveva urlato, addirittura, e sanguinato in abbondanza dai tagli profondi che i legacci in cuoio e plastica gli avevano provocato sui polsi. Aveva chiesto da bere, tentato di liberarsi, pianto di disperazione e, alla fine, rantolato nella fame d'aria dell'agonia. Il personale del San Luca non si è lasciato turbare da questo baccano, come testimoniano le telecamere a circuito chiuso che hanno seguito il martirio del maestro di Castelnuovo Cilento. Queste riprese sono la più schiacciante prova d'accusa di un processo che si avvicina alla sentenza. Martedì 2 ottobre, nel tribunale di Vallo della Lucania, il pubblico ministero Renato Martuscelli pronuncerà la requisitoria contro sei medici e 12 infermieri del San Luca in servizio durante il ricovero di Mastrogiovanni. I 18 imputati saranno giudicati per sequestro, falso in atto pubblico (la contenzione non è stata registrata) e morte in conseguenza di altro reato. [...]
Quasi tre anni di udienze hanno confermato che un cittadino italiano, entrato in ospedale in buone condizioni fisiche e senza avere commesso reati, ne è uscito morto dopo pochi giorni senza che ai parenti fosse consentito di visitarlo. [...]
Vediamo i fatti. La notte precedente il ricovero, il 30 luglio 2009, Franco Mastrogiovanni si trova a Pollica, comune gioiello del Cilento amministrato da un sindaco popolarissimo, Angelo Vassallo. Mastrogiovanni percorre in macchina l'isola pedonale. I vigili urbani lo segnalano al sindaco dicendo che il maestro guida ad alta velocità e ha provocato incidenti. Non è vero ma Vassallo ordina il Tso. Il provvedimento dovrebbe seguire, e non precedere, i pareri di due medici diversi. Ma tanto basta per aprire la caccia. La mattina dopo, Mastrogiovanni viene avvistato di nuovo in auto e inseguito da vigili e carabinieri. L'uomo arriva al campeggio dove sta trascorrendo le vacanze. Lì rifiuta di consegnarsi e si getta in mare. Per due ore resterà in acqua accerchiato dalla capitaneria di porto, dalle forze dell'ordine e da una decina di addetti dell'Asl. I medici che lo visitano da riva lo giudicano bisognoso di Tso e confermano il provvedimento del sindaco di Pollica benché il maestro in quel momento si trovi in un altro Comune (San Mauro Cilento). Mastrogiovanni ha già subito il Tso nel 2002 e nel 2005. Tra i suoi precedenti figurano anche due periodi in carcere. Uno nel 1999, quando Mastrogiovanni contesta una multa, viene arrestato e condannato in primo grado dalla requisitoria dello stesso Martuscelli che è pm nel processo per la sua morte. Il maestro sarà assolto in secondo grado e risarcito per ingiusta detenzione. Altrettanto ingiusta la prima incarcerazione, nove mesi tra Salerno e Napoli nel 1972-1973. Il ventenne Mastrogiovanni, vicino al movimento anarchico, finisce dentro per essersi beccato una coltellata nello scontro che si concluderà con la morte di Carlo Falvella, segretario locale del Fuan, l'associazione degli studenti missini. Nonostante il suo terrore delle divise e i periodi di depressione, Mastrogiovanni ha una vita normale. A metà degli anni Ottanta emigra e va a insegnare a Sarnico, in provincia di Bergamo. Poi torna in Campania, dove le informative di polizia lo marchiano ancora come sovversivo. In realtà, senza rinnegare la militanza passata, Mastrogiovanni non svolge attività politica. Si dedica al suo lavoro e alla passione per i libri. Ma i periodi di carcerazione ingiusta lo hanno segnato. Quando il 31 luglio 2009 si consegna per il suo ultimo Tso gli sentono dire: «Se mi portano a Vallo della Lucania, mi ammazzano». La previsione è azzeccata. Per tre giorni e mezzo, Mastrogiovanni viene trattato con durezza inaudita dal personale che sembra ignorare la presenza delle telecamere. «Il video», prosegue Manconi, «è l'illustrazione attimo per attimo dell'abbandono terapeutico e del mancato soccorso. Mastrogiovanni è stato crocefisso al suo letto di contenzione». [...]
Alcuni pazienti del San Luca hanno parlato di maltrattamenti e della contenzione praticata come terapia abituale. [...]
Micidiale per gli accusati è stato il contributo del professor Luigi Palmieri, sentito nell'udienza del 29 novembre 2011. Ordinario di medicina legale alla Seconda Università di Napoli e convocato in aula come perito dell'Asl Salerno 3, Palmieri ha sostenuto che fin dalla mattina del 3 agosto, il giorno precedente la morte, Mastrogiovanni mostrava segni di essere colpito da infarto, che l'elettrocardiogramma è stato eseguito solo post mortem, che i valori dei suoi enzimi erano gravemente alterati, che non aveva bevuto a sufficienza, che non doveva essere imprigionato e che tutte le linee guida sulla contenzione in vigore in Italia o all'estero sono state ignorate dal personale dell'ospedale San Luca. [...]
DIRITTI
'Restituita la dignità a mio zio'
Grazia Serra, nipote del maestro elementare morto in ospedale dopo quattro giorni di contenzione e abbandono commenta la sentenza di condanna dei medici. "La pronuncia del tribunale rappresenta un precedente importante. Forse i medici, sapendo di correre il rischio di essere accusati di sequestro di persona, da domani ci penseranno bene prima di legare al letto, senza motivo, un paziente"
(sito internet di un settimanale nazionale, 31 ottobre 2012)
Manconi: "E' stato crocifisso"
Il presidente dell'associazione "A buon diritto" commenta il dramma di Franco Mastrogiovanni, morto in un reparto di psichiatria, legato ad un letto, dopo oltre ottanta ore di sofferenza. "La contenzione è una tortura che viene tuttora usata in diversi ospedali italiani", dice. Luigi Manconi, con Valentina Calderone, ha scritto un libro su questo e altri casi simili.
(didascalia di accompagnamento a una videointervista, sito internet di un settimanale nazionale, 28 settembre 2012)
Gli ex primari: pazienti psichiatrici legati ai letti
Polemica tra psichiatri. Attenasio, Benevelli e Rossi criticano la gestione del servizio: è tornata la cultura del manicomio
(quotidiano locale, edizione online, 1 agosto 2012)
MANTOVA. Lo scontro si gioca su un terreno delicatissimo, quello della psichiatria. Da una parte tre figure storiche nella gestione sanitaria della salute mentale, dall’altra gli attuali vertici dei servizi ospedalieri. Prima la preoccupazione delle associazioni dei famigliari per il turnover eccessivo alla guida del reparto di psichiatria del Poma (tre primari in sette mesi), ora anche l’appello di tre ex primari dell’azienda ospedaliera di Mantova che si sono succeduti negli anni: Luigi Attenasio, Luigi Benevelli e Giovanni Rossi. I tre psichiatri hanno firmato un documento dai toni durissimi, in cui manifestano «tristezza e preoccupazione» per un lavoro mandato avanti per 22 anni e che ora rischia di andare in fumo. Il riferimento è agli anni tra il 1988 e il 2010, durante i quali i tre psichiatri hanno concentrato i loro sforzi per superare la cultura del manicomio, abbandonando vecchie prassi assistenziali psichiatriche che avevano portato – sottolineano i tre – i servizi di salute mentale mantovani a riconoscimenti di eccellenza a livello regionale e nazionale. Il passaggio del loro appello più significativo è quello che stigmatizza il ritorno e il riutilizzo ai sistemi di psichiatria restrittiva, con la reintroduzione di pratiche di contenzione fisica e di sistemi violenti. In due parole i pazienti legati ai letti e lo stravolgimento della legge Basaglia di riforma dell’assistenza psichiatria, la 180 del 1978 che chiuse i portoni dei manicomi. Ma chi sono i tre firmatari dell’appello rivolto ai vertici della sanità locale e agli attuali responsabili dei servizi? Luigi Attenasio è stato primario a Mantova dal 1998 al 1997 e oggi è a capo del dipartimento di Salute Mentale dell’Asl Roma C oltre che presidente nazionale della società Psichiatria Democratica, fondata da Franco Basaglia; Luigi Benevelli, primario per cinque anni, ex parlamentare del Pci, è portavoce del comitato Stopg e Forumsalutementale; Giovanni Rossi, alla guida della Psichiatria mantovana dal 2002 al 2010, oggi è direttore scientifico di Quasm, l’associazione italiana per la qualità e l’accreditamento in salute mentale. I tre psichiatri vanno giù duro, attaccando soprattutto gli ultimi mesi di attività nei servizi di salute mentale mantovani, un fuoco di fila respinto in toto (leggere articolo sotto) dal dottor Andrea Pinotti, fino a pochi giorni fa alla guida della Psichiatria del Poma e del dipartimento di salute mentale. Ma che cosa dicono esattamente Attenasio, Benevelli e Rossi: «Negli ultimi mesi – si legge in una nota firmata – nei servizi di salute mentale mantovani è in corso un progressivo abbandono di culture e prassi assistenziali psichiatriche che avevano portato Mantova all’eccellenza: ci riferiamo alla scelta di tenere le porte aperte e non legare i pazienti nei luoghi di trattamento e all’importanza dell’alleanza con l’utente e la ricerca del suo consenso». I tre psichiatri fanno esplicito riferimento a «un’azione di revisione e di decostruzione di una cultura e di pratiche che hanno portato in breve tempo a rilegittimare, dopo quasi 25 anni, la contenzione fisica nei servizi ospedalieri di diagnosi e cura e in quello del Carlo Poma in particolare». Si parla poi dell’aumento del numero dei trattamenti sanitari obbligatori effettuati dei centri psico sociali (Cps) e all’inserimento nei programmi di formazione e aggiornamento del personale della psichiatria di comunità mantovana delle pratiche in uso all’Opg di Castiglione delle Stiviere, nel momento in cui «istanze legislative e nazionali ne prevedono il superamento». Attenasio, Benevelli e Rossi spingono anche sulla questione dei tagli del personale e delle ore di apertura dei servizi: «Sappiamo che fare assistenza nei servizi di salute mentale di comunità oggi è più difficile, tuttavia la diminuzione delle risorse non giustifica il riuso di sistemi custodialistici e violenti». Infine una stoccata anche alle ultime scelte gestionali e organizzative, giudicate discutibili: la riduzione del numero dei primari territoriali e dei responsabili del Cps e l’affossamento delle iniziative di crescita personale del paziente e di socializzazione. A chiudere due parole sull’ultimo cambio di guardia: «Il recente avvicendamento alla direzione del dipartimento del dottor Pinotti con il dottor Magnani documenta una difficoltà e un affanno crescenti».
Pinotti: «Con me a Mantova mai successo»
Lo specialista appena dimesso: «Qualche caso eccezionale a Pieve e Castiglione, ma era inevitabile»
(quotidiano locale, edizione online, 1 agosto 2012)
«E no, così non ci siamo, non si possono affermare cose non vere». Lo psichiatra Andrea Pinotti, primario del servizio psichiatrico di diagnosi e cura a Pieve di Coriano - Basso Mantovano, ex capo dipartimento e fino a ieri (si è dimesso pochi giorni fa) anche primario ad interim al Carlo Poma, non ci sta a passare per quello che lega i pazienti ai letti e contrattacca. «Nel periodo in cui sono stati primario a Mantova, vale a dire dal gennaio 2012 a oggi, al Poma non c’è stata una sola pratica di contenzione. Tra l’altro non abbiamo nemmeno gli strumenti per farla, e parlo di polsini e cavigliere. Prima di affermare certe cose bisognerebbe informarsi. Lo scorso anno, sempre al Poma, abbiamo firmato un protocollo specifico in cui è scritto chiaro che al servizio psichiatrico di diagnosi e cura di Mantova non si contiene, perché sussistono le condizioni per evitare questa pratica e tra queste anche quella di usufruire del servizio delle forze dell’ordine». Pinotti ricorda inoltre che l’autunno scorso l’Urasam, l’associazione lombarda famigliari pazienti psichiatrici, ha fatto visita al reparto di Mantova: «Si sono congratulati con noi – continua lo psichiatra – per il modo di gestione dei pazienti, indicando il modello mantovano da esempio per gli altri dipartimenti lombardi». E sul tema dei tagli? Pinotti è un fiume in piena: «Le risorse soprattutto in quest’ultimo periodo sono in effetti un problema per tutta la sanità, ma anche in presenza di tagli e grazie al sacrificio del personale abbiamo sempre evitato la contenzione». Lo specialista ammette che qualche volta è successo negli altri ospedali mantovani: «A Pieve di Coriano siamo nell’ordine di dieci casi in undici anni, mentre a Castiglione delle Stiviere la cosa può succedere quattro-cinque volte all’anno, però in questi casi parliamo di situazioni eccezionali, che non rientravano nella capacità che ha il Carlo Poma di usufruire di un intervento delle forze dell’ordine. Quei casi erano riferiti a pazienti che potevano fare del male a se stessi o agli operatori». Poi arriva il momento del contrattacco: «Nel periodo in cui sono stato capo dipartimento in effetti ho visto qualcosa che non mi è piaciuta. Mi riferisco a quello che io chiamo il manicomio in città, la sede di viale della Repubblica, Cps, centro diurno e comunità riabilitativa ad alta intensità. Lì sì che c’è da produrre un’evoluzione culturale molto forte, aumentando l’attività domiciliare e trasformando il Cps in un vero centro di salute mentale dove uno viene per farsi curare e non un’area dove uno arriva, si ferma un giorno intero, bivacca e poi se ne va senza cercare di farsi una vita fuori. Così io lo ritengo solo un manicomio in città».