E’ l’equivalente italiano dell’inglese “resettlement”. Il reinsediamento è il trasferimento di rifugiati, già riconosciuti dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), da un paese di primo asilo dove non ci sono possibilità di integrazione e la protezione può essere messa a rischio verso altri paesi. È quindi il trasferimento di rifugiati verso un Paese terzo. In un documento ufficiale dell’Unhcr si legge: “Sebbene costituisca una soluzione adottata solo per un numero ancora limitato di rifugiati, esso rappresenta un importante strumento di protezione internazionale, poiché a volte i rifugiati non possono far ritorno nel proprio paese né restare nel paese di primo asilo in adeguate condizioni di sicurezza. Vi sono situazioni in cui il reinsediamento costituisce l’unica soluzione praticabile che garantisca la sicurezza dei rifugiati. Attraverso il reinsediamento – soluzione che fornisce ai rifugiati l’opportunità di ricominciare una vita del tutto nuova - i rifugiati beneficiano di protezione legale e ottengono una residenza stabile. Spesso dopo un certo periodo di tempo viene anche concessa loro la cittadinanza. Alcuni paesi offrono regolarmente la possibilità di reinsediamento – cioè di stabilirsi permanentemente sul proprio territorio - mentre altri offrono il reinsediamento su base individuale. L’UNHCR opera a stretto contatto con le autorità di questi paesi per promuovere e mettere in pratica in modo efficiente questa soluzione. Negli ultimi cinquant’anni, centinaia di migliaia di rifugiati – soprattutto ungheresi, cileni, ugandesi, vietnamiti e bosniaci – hanno potuto reinsediarsi grazie all’assistenza dell’UNHCR in una decina di paesi di reinsediamento ‘storici’, che prevedono quote annuali per questi progetti. Di recente nove paesi ‘emergenti’ hanno seguito questo esempio[1].
[1] Unhcr, IL REINSEDIAMENTO: trasferimento di un rifugiatoin un paese terzo (2012), www.unhcr.it
Esistono due modi di ottenere lo status di rifugiato. Il primo è arrivare fisicamente nel territorio dello Stato ospitante e presentare la domanda di persona. Naturalmente il problema è che i rifugiati, a differenza dei turisti, non hanno il tempo e la possibilità di ottenere passaporti e visti e, di conseguenza, l’ingresso irregolare rimane l’unica via percorribile, con le tragiche conseguenze che ne possono derivare (leggi naufrago, Lampedusa, sbarchi).
Il secondo canale di ingresso, è quello del resettlement che prevede la possibilità di fare domanda di protezione internazionale ‘a distanza’, ad esempio nei campi profughi spesso allestiti in Paesi confinanti con quelli in conflitto, e spostarsi nel Paese ospitante solo quando (e se) lo status di rifugiato è stato ottenuto.
Il termine non è molto usato nè conosciuto in Italia perchè il nostro paese solitamente non partecipa ai programmi di reinsediamento dell'Unhcr e quindi l'unica strada per chiedere asilo è arrivare in Italia in modo irregolare.
Carlo Devillanova (professore associato di Economia politica alla Bocconi e all’Università Pompeu Fabra di Barcellona) e Francesco Fasani (Università di Londra) su "lavoce.info" evidenziano le carenze dell’Italia nel percorrere la strada più battuta nel contesto internazionale in tema di asilo (vedi la scheda dati).
Le tragedie come “meccanismi di selezione”. Perché l’Italia non prende parte a questi programmi? “La risposta più ovvia (‘se lo facessimo verremmo sommersi di domande di asilo’) – affermano gli autori dello studio - ha una conseguenza importante: ammettere che l’Italia, come molti altri paesi europei, utilizza la difficoltà di raggiungere le nostre coste come meccanismo di selezione per limitare le domande, scaricando il costo direttamente sui profughi (e creando il mercato per gli scafisti)”.
Paesi di reinsediamento ‘storici’
Australia, Canada, Danimarca, Finlandia, Norvegia, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, USA,
Svezia, Svizzera.
Paesi di reinsediamento ‘emergenti’
Argentina, Benin, Brasile, Burkina Faso, Cile, Irlanda, Islanda, Regno Unito, Spagna.
Nel 2009 si registra il numero più alto di rifugiati reinsediati negli ultimi 16 anni: oltre
100mila persone hanno avuto l’opportunità di ricominciare una nuova vita al riparo da
guerre e persecuzioni in paesi terzi. Nel 2011 quasi 80mila rifugiati sono stati reinsediati
principalmente negli USA, in Canada, Australia, Svezia e Norvegia[1].
Italia, solo lo 0,01% dei rifugiati ha ottenuto lo status “a distanza”
Nel nostro Paese solo 288 su 35 mila rifugiati sono arrivati regolarmente attraverso il resettlement, a causa della non partecipazione italiana al programma internazionale.
La percentuale di asili accordati attraverso programmi di “resettlement” supera il 50 per cento del totale dei rifugiati accolti in Nuova Zelanda (85%), Usa (72%) e Australia (55%), ed è piuttosto elevata anche in Canada (36%), Finlandia (34%) e Danimarca (27 %). Gli Stati Uniti hanno permesso il resettlement nel loro territorio a oltre 260 mila rifugiati, seguono l’Australia e il Canada con circa 30 mila rifugiati “resettled” ciascuno.
Al contrario l’Italia si colloca fra i paesi in cui il numero di richiedenti asilo accolti attraverso programmi di resettlement è risibile: 288 rifugiati nel periodo 2008-2012, meno del 0,01 per cento dei circa 35 mila rifugiati accolti in totale durante lo stesso periodo. Il motivo è semplice: l’Italia non partecipa, se non occasionalmente, al programma di resettlement dell’Unhcr.
È molto importante conoscere il ‘reinsediamento’ perché a oggi costituisce l’unico canale d’ingresso legale per i rifugiati nel nostro Paese e in Occidente. In Italia queste esperienze sono state poche e mal riuscite. Un peccato, perché questo sistema potrebbe salvare molte vite umane, evitando ai richiedenti asilo del Corno d’Africa e del Maghreb di affidarsi ai trafficanti e di affrontare pericolosi viaggi via mare. Uno dei pochi casi di resettlment è stato quello di una comunità di rifugiati palestinesi che vivevano nel campo profughi siriano di Al Tanf dopo la guerra in Iraq.
Tornano i rifugiati palestinesi fuggiti da Riace
(sito internet di un settimanale nazionale, 28 novembre 2011)
Tornano in Italia i primi 47 palestinesi che facevano parte del gruppo di 150 rifugiati scappati in Svezia dal progetto di reinsediamento di Riace e Caulonia. Un caso che ha fatto scalpore in Europa e la cui eco è giunta fino in Medio Oriente, perché i palestinesi hanno accusato l’Italia di averli messi in una situazione di pericolo, sotto la minaccia della mafia, o meglio della ‘ndrangheta della Locride. Sono fuggiti in massa in Svezia tra maggio e giugno del 2011, dopo che il cadavere di uno di loro è stato trovato impiccato a un albero di ulivo, in avanzato stato di decomposizione. Il 17 maggio scorso, il corpo di Hassan Shibaki, 48 anni, è stato rinvenuto molto lontano da Riace, in un uliveto in località Matoto a Soverato Superiore, addirittura in un’altra provincia, quella di Catanzaro. Hassan era stato strangolato dal laccio del suo giubbotto circa una settimana prima dell’effettivo ritrovamento, nessuno l’aveva mai visto in quella zona della Calabria. Aveva 300 euro in tasca. In quel periodo, come molti altri palestinesi, stava cercando di mettere insieme i soldi per il viaggio in Svezia, secondo quanto raccontato ai giornalisti dagli altri rifugiati. Nessuno sa se l’uomo si è tolto la vita o se è stato ucciso, in una zona della Calabria in cui proprio tra il 2008 e il 2011 si è sviluppata una feroce faida di ‘ndrangheta con decine di omicidi anche in pieno giorno. Difficilmente si arriverà a scoprire la verità sul caso, se Hassan fosse un testimone scomodo che qualcuno voleva eliminare o se abbia deciso di farla finita per lo sconforto. Di sicuro per i palestinesi non si tratta di un suicidio. Così sono partiti in massa e hanno cercato di creare un precedente al regolamento di Dublino, chiedendo di non essere rispediti in Italia dalla Svezia. Ma le autorità svedesi e italiane negano questa possibilità in base agli accordi internazionali, dunque a scaglioni i palestinesi dovranno rientrare tutti nel nostro paese. Nell’area Schengen un rifugiato non può circolare per più di tre mesi e i termini sono scaduti. Le accuse dei palestinesi, uscite anche sul quotidiano libanese Daily Star, hanno portato perfino Hamas a prendere posizione. Da Gaza, il dipartimento per i rifugiati palestinesi ha chiesto all’Unhcr di intervenire per salvarli “dopo le notizie che li mostrano sotto attacco e sequestro da parte della mafia italiana”. Alcuni dei rifugiati palestinesi che hanno vissuto a Riace tra la fine del 2009 e maggio del 2011, hanno raccontato ai giornalisti di aver sentito spari vicino casa e di aver visto l’incendio doloso di una macchina. Il gruppo di 180 rifugiati provenienti dal campo siriano di Al Tanf faceva parte di un reinsediamento (resettlement) dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) finanziato dal ministero dell’Interno. Il progetto sarebbe dovuto durare due anni, da dicembre 2009 a fine 2011, ma di fatto a Riace si è chiuso a giugno per la partenza di tutti i beneficiari, a Caulonia invece sono rimaste una trentina di persone. Nel corso dei due anni, il gruppo aveva più volte protestato con le autorità, ricevendo la visita di rappresentanti del Viminale e dell’Unhcr. Lamentavano una scarsa professionalità degli operatori del programma e di non avere la possibilità di fare formazione professionale. Erano in contatto telefonico con amici e familiari che l’Unhcr aveva trasferito in Svezia e sapevano che in quel paese le condizioni di integrazione dei rifugiati sono migliori. Ritrovandosi in un piccolo comune del sud Italia, con gli stessi calabresi che emigrano in massa perché non c’è lavoro, la preoccupazione dei palestinesi è stata subito quella di capire cosa sarebbe accaduto al termine del progetto di due anni. Sentivano di non avere possibilità di trovare lavoro in una zona economicamente depressa della Calabria e chiedevano garanzie per la casa, il lavoro e anche la pensione di anzianità al termine dei due anni del resettlement. Garanzie che in Italia non esistono. Il sindaco di Riace, Mimmo Lucano, che aveva accolto con gioia insieme alla popolazione l’arrivo delle famiglie palestinesi con tanti bambini grazie ai quali le scuole non avrebbero chiuso, spiega: “Dal primo minuto le rivendicazioni sono state pesantissime, nonostante il progetto prevedesse cifre più alte del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) normale, con 35 euro pro capite al giorno e 200 euro al mese a persona come pocket money”. Per il sindaco il problema dei palestinesi non era la ‘ndrangheta. “Vogliono l’assistenza a vita e stanno creando un caso, in realtà sono iracheni, figli della Nakba, privilegiati con Saddam Hussein e finiti nel campo di Al Tanf dopo la sua caduta”. Anche secondo Daniela Di Capua, direttore del servizio centrale Sprar, prima dei palestinesi non è mai arrivata una segnalazione su aggressioni mafiose da parte dei rifugiati che vivono a Riace: “Non abbiamo precedenti di situazioni del genere, nessuna minaccia o pericolo per le persone in un comune dove sentirsi parte della comunità non è mai stato un problema, il problema è l’inserimento lavorativo, soprattutto con grandi numeri su territori così piccoli, infatti i posti ordinari dello Sprar a Riace sono solo 15”. In via eccezionale, i palestinesi di ritorno saranno ospitati fino a fine anno in altri progetti Sprar sparsi per l’Italia. I primi tornano in Calabria, vanno in provincia di Cosenza.
Rifugiati palestinesi, Boldrini: “volevano l’assistenza che c’è in Svezia”
Secondo la portavoce dell’Acnur, i palestinesi non sono contenti di tornare in Italia. Difende la serietà dei progetti di Riace e Caulonia. Sulle minacce della ‘ndrangheta dice: “non ci risulta, ma non possiamo escluderlo”
(agenzia di stampa nazionale online, 25 novembre 2011)
Laura Boldrini, portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, interviene a difesa del comune di Riace, dopo le accuse mosse al progetto di reinsediamento da parte dei 150 palestinesi fuggiti in Svezia. “Ero presente all’arrivo dei rifugiati palestinesi, in due momenti diversi a novembre 2009 e gennaio 2010 – dice - e ricordo benissimo con quale attenzione e partecipazione queste persone sono state accolte da parte delle autorità locali e anche da parte della gente. Riace è un piccolo paese di duemila abitanti che ha fatto dell’accoglienza un simbolo, il sindaco Domenico Lucano crede molto che l’accoglienza vada a vantaggio del territorio perché Riace è ritornata ad animarsi, la scuola non ha chiuso i battenti per mancanza di bambini, sono state aperte le botteghe e questo gli ha consentito di essere rieletto al secondo mandato. Ma con i palestinesi ci sono stati subito dei problemi”. Boldrini racconta le difficoltà incontrate dal progetto. “Queste persone avevano a modello una forma di assistenza che altri parenti e amici stavano ricevendo in Svezia, erano in contatto con le persone trasferite lì dall’Unhcr – spiega – La Svezia è un paese di antica tradizione di reinsediamento, ha degli standard di riferimento, ma è altrettanto vero che in Calabria, a Caulonia e a Riace, è stato fatto tutto il possibile per rendere la vita di queste persone accettabile e dignitosa, la collaborazione dei rifugiati stessi spesso è mancata. Nelle mie visite ho avuto la sensazione che queste persone si mettessero in una posizione passiva, di chi deve ricevere senza nulla fare, senza avere un atteggiamento di costruire qualcosa su quel territorio”. Secondo Boldrini, i palestinesi “frequentavano poco i corsi di lingua che erano stati organizzati, quando ci sono state possibilità di trovare spazi lavorativi non sono stati considerati interessanti, la loro attenzione si basava sugli oggetti materiali: spesso c’erano tensioni perché a Riace venivano consegnati più abiti per i bambini che a Caulonia o un televisore più grande”. Per la portavoce dell’Acnur, è stato l’atteggiamento degli stessi rifugiati a fare fallire il reinsediamento. “I rifugiati non sono delle persone messe a riposo – afferma - Sono persone che devono integrarsi nel tessuto sociale per rifarsi una vita con le loro risorse. Purtroppo la mentalità prevalente perché alimentata da alcuni di loro, da tre o quattro personaggi, si basava sulle richieste di una garanzia a vita che nessuno poteva dargli perché il progetto del ministero durava due anni”. Sulla questione della ‘ndrangheta invece, la posizione dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati è più cauta. “Siamo al corrente di queste accuse che i palestinesi fanno, di avere ricevuto minacce dalla mafia – dice Boldrini - A noi non risulta che questo sia accaduto ma non possiamo neanche escluderlo, perché noi non facciamo indagini di polizia. Sappiamo che quelli sono territori difficili anche per gli italiani. Su queste accuse penso bisognerebbe fare chiarezza, se le minacce ci sono state bisognerebbe andare fino in fondo, se non ci sono state bisognerebbe intimare a chi lo dice di smetterla. Dunque ci auguriamo che venga fatta luce su questo”. I palestinesi hanno anche parlato di un progetto gestito in modo ‘amatoriale’ e di non essere soddisfatti dei livelli di assistenza, proprio a Riace, noto a livello internazionale per essere un’esperienza ben riuscita. “Per quanto riguarda la poca professionalità devo dire che un progetto come quello di assistenza a 180 persone è comunque ambizioso e non semplice – spiega la portavoce dell’Acnur - Il ministero dell’Interno ha dato molta fiducia a questi sindaci che sicuramente la meritavano, ma quando si arriva a un progetto così consistente è bene che ci siano degli esperti in grado di poterli consigliare. Posso testimoniare sulla serietà con cui i due sindaci hanno svolto il progetto e anche con molta partecipazione emotiva”. Questo era uno dei primi resettlement messi in atto dal governo italiano. Il reinsediamento è il trasferimento di rifugiati, già riconosciuti dall’ Acnur, da un paese di primo asilo dove non ci sono possibilità di integrazione e la protezione può essere messa a rischio verso altri paesi. Ora che i palestinesi sono obbligati a rientrare dalla Svezia, la portavoce dell’Acnur spiega che “queste persone non sono molto contente di essere state riportate in Italia e non tutte vorranno sottoscrivere l’impegno a sottostare alle regole dell’ Sprar”. Ma non c’erano altre possibilità legali. “Né le autorità svedesi né quelle italiane hanno messo in dubbio che sarebbero dovuti tornare in Italia – continua - Le regole di Dublino parlano chiaro, non c’è un margine”. I rifugiati palestinesi si ritrovano così senza alternative, come sempre nel resto della loro vita. Le loro famiglie sono fuggite dalla Palestina con la Nakba e si sono rifugiate in Iraq. Con il crollo del regime dopo la guerra del Golfo e l’invasione statunitense sono scappate in Siria, dove il governo ha deciso di non consentirne l’ingresso perché nel paese ci sono già oltre un milione e 200mila rifugiati palestinesi. Così sono finiti ad Al Tanf. “Una striscia di deserto al confine tra Iraq e Siria, uno dei luoghi più ostili all’essere umano – testimonia Laura Boldrini - una zona desertica con le tende sradicate dal vento, centinaia di persone bloccate nella terra di nessuno. L’Unhcr ha sollecitato i paesi della comunità internazionale a offrire quote di reinsediamento, l’Italia ha risposto offrendo la possibilità a 180 persone di essere trasferite, il ministero dell’Interno ha deciso di trasferirli a Riace e a Caulonia”. Purtroppo non è andata bene.