Quote rosa
Si parla di quote rosa per indicare il numero di posti riservati alle donne nell’organico di determinate strutture pubbliche e private: imprese, istituzioni educative, organismi decisionali… Sono misure che vengono introdotte per garantire la rappresentatività femminile in ogni settore della società.
In politica, le quote sono definite attraverso regole legali (legislative o costituzionali) e disposizioni interne agli statuti dei partiti che fissano una percentuale minima per ogni genere nella composizione delle liste elettorali, al fine di riequilibrare la presenza dei due generi nelle assemblee rappresentative che è, storicamente, a sfavore delle donne.
Ragionando su scala globale, basti pensare che “nel 1975 nei parlamenti di tutto il mondo le donne erano il 10,9 per cento. Nel 2010 sono salite al 18 per cento. Cioè, un aumento del 7 per cento in 35 anni. A questo ritmo ci vorranno 160 anni per raggiungere la parità”[1]. In base a queste considerazioni, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa si è espresso a favore di misure antidiscriminatorie da introdurre nei sistemi elettorali di tutti i paesi membri[2].
L’esperta svedese Drude Dahlerup fissa la “soglia critica”, cioè la percentuale al di sotto della quale non è possibile percepire una “presenza di genere” nelle pratiche politiche, al 40%[3].
Sono numerosi i paesi in Europa e nel mondo che hanno introdotto simili misure correttive per il riequilibrio della rappresentanza. La Svezia, che oggi vanta una rappresentatività di donne in Parlamento di poco inferiore al 50%, l’ha fatto attraverso gli statuti dei partiti. Altri paesi, come la Francia e la Spagna, hanno operato sui sistemi elettorali.
In Italia, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 49/2003, ha riconosciuto che “la finalità di conseguire una ‘parità effettiva’ fra uomini e donne anche nell’accesso alla rappresentanza elettiva è positivamente apprezzabile dal punto di vista costituzionale”. Nel 2003, l’articolo 51 della Costituzione è stato riformato con un’integrazione che recita: "Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini". Questa modifica è volta dare copertura costituzionale a tutti quei provvedimenti legislativi ed amministrativi con i quali si intendono garantire forme di partecipazione paritaria tra donne e uomini, in particolare alla designazione di cariche elettive.
Dopo il fallimento della legge del 2006 sulle “quote rosa”, il Parlamento ha approvato nel 2012 nuove norme che obbligano gli statuti degli enti locali a promuovere la parità nelle giunte e negli enti, aziende e istituzioni da essi dipendenti, a garantire che ciascuno dei due generi sia rappresentato per almeno un terzo nelle liste elettorali e a introdurre la doppia preferenza di genere per i candidati al Consiglio comunale: l’elettore può esprimere due preferenze, purché siano di genere diverso.
Per quanto riguarda il mondo dell’impresa, nel 2011 l’Italia ha introdotto misure di garanzia per la partecipazione femminile ai consigli di amministrazione delle aziende quotate in Borsa e delle società a partecipazione pubblica (cosiddette “quote rosa nei Cda”). Su questo versante, ha anticipato la normativa europea: la Commissione Europea ha adottato una legge simile, su scala comunitaria, a novembre del 2012, su iniziativa della commissaria per la giustizia Viviane Reding.
[1] Euronews, Donne in politica: sì del Consiglio d’Europa alle quote rosa, 28 gennaio 2010.
[2] Recommendation 1899 (2010), Increasing women’s representation in politics through the electoral system.
[3] D. Dahlerup, Using Quotas to Increase Women's Political Representation, in International IDEA, Women in Parliament. Beyond Numbers, 1998.
L’espressione “quote rosa” è imprecisa e considerata fuorviante da molte esperte perché induce a credere che si tratti di un meccanismo che porterebbe ad assegnare una quota di posti alle donne (il genere “rosa”) a prescindere dal merito, dalle competenze e dalle capacità. In realtà, si tratta di norme antidiscriminatorie che hanno lo scopo di permettere un’equa partecipazione di entrambi i generi e, a tal fine, stabilisce che una percentuale di posti sia destinata al genere sottorappresentato. Nella loro formulazione, queste norme non contengono il riferimento alle donne ma sono gender neutral, garantendo quindi in modo paritario i due generi. E non intendono sostituirsi alla valutazione del merito ma favorire l’impiego di professionalità e competenze femminili, pari (o superiori) a quelle maschili, attualmente sottoutilizzate.
Rosa i sistemi di quote si chiamano solo in Italia: in inglese e nel linguaggio delle istituzioni europee sono chiamate quote di genere, gender quotas.
L’espressione fa il paio con centinaia di altre diciture coniate quotidianamente da giornalisti e comunicatori che colorano di rosa ciò che è dedicato o destinato alle donne: dai più classici “romanzi rosa” e “fiocchi rosa” ai “parcheggi rosa”, ai “treni rosa”, ai “farmaci rosa”, alle “aziende rosa”, fino al “potere rosa”. Il rosa, insomma, come sinonimo di femminile, dove però è difficile non ravvedere un’associazione con una rappresentazione della femminilità fatta di fragilità, delicatezza, sensibilità, emotività… (vedi Gentil sesso). Veicolando un simile insieme di caratteristiche, l’aggettivo rosa associato a quote tende a rafforzare l’interpretazione di queste misure come strumenti di tutela e protezione, anziché di promozione e garanzia di un diritto alla rappresentanza paritaria.
I movimenti e le organizzazioni delle donne hanno inoltre da diverso tempo sostituito il concetto di quota con quello di democrazia paritaria. Le donne sono la metà del genere umano, pertanto non esiste rappresentanza democratica se non si rispetta la proporzione del 50 e 50 nelle assemblee elettive e nelle istituzioni, vertici compresi. In Italia si sono susseguite numerose proposte politiche e campagne per la parità di genere nelle assemblee elettive: la proposta di legge di iniziativa popolare dell'UDI concernente "Norme di democrazia paritaria" (50e50 ovunque si decide); le iniziative del "Laboratorio 50&50" dell'AFFI, di "Aspettare Stanca", della "Lobby Europea delle Donne"; quelle dalle Commissioni Nazionali di parità. Nel 2011 numerose associazioni di donne unite da questo obiettivo si sono messe in rete all’interno di un “Accordo di azione comune per la democrazia paritaria”.
Dall’inizio della storia repubblicana, la rappresentanza femminile nelle istituzioni politiche italiane è stata esigua, passando dal 7,7% del 1948 al 21,1% del 2008. Nel 2013 si è assistito però a un netto incremento (+ 33%) nelle due camere, che è passata al 30,8%.
Per quanto riguarda le elezioni al Parlamento europeo, dal 1979, anno della prima legislatura, al 2009, la presenza femminile italiana è passata dal 14% al 25%, “mentre in altri paesi – nel corso di trent’anni – la quota percentuale di donne raddoppiava: in Germania si è passati dal 15% al 37%, in Francia dal 22% al 44%, così come in Spagna, che in soli vent’anni dal 15% ha raggiunto il 36%. Per non parlare infine di Finlandia (62%) e Svezia (56%) che, per la prima volta, hanno eletto al parlamento europeo un numero più alto di donne che di uomini”[1].
Per quanto riguarda infine le amministrazioni locali, l’incidenza delle donne sul totale degli amministratori è pari al 21,5 %. I dati confermano un’evidente segregazione verticale della presenza femminile: le donne registrano una presenza maggioritaria tra le cariche inferiori, mentre incontrano difficoltà a rompere il cosiddetto “soffitto di cristallo” e raggiungere posizioni apicali, per la stragrande maggioranza riservate agli uomini. Fra i sindaci, infatti, le donne rappresentano solo l’11,8%. La categoria dove l’incidenza femminile all’interno della singola carica è maggiore è quella delle donne assessore (23,7%), ma se accorpiamo le cariche di presidente del consiglio comunale e consigliere, è in questa categoria che si registra la quota maggiore (38,1%)[2]. Va ricordato che la legge 23 novembre 2012, n. 215, ha introdotto disposizioni volte a promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nelle amministrazioni locali.
Guardando al mondo dell’impresa, la percentuale media di donne nei consigli d’amministrazione delle aziende è del 13,8%, e scende al 7,9% circa per le società quotate in borsa. Anche sotto questo rispetto, quindi, l’Italia si posiziona ai gradini bassi nelle graduatorie: è infatti al 26esimo posto sui 40 paesi considerati dall’Ocse in uno studio sulla diseguaglianza tra i generi nel mondo dell’impresa[3]. Ai primi posti la Norvegia, dove si sfiora il dato del 40%, la Svezia, l’Indonesia, la Francia, la Finlandia. Considerando i 27 paesi dell’Unione Europea, l’Italia è al 22esimo posto per percentuale di donne nei consigli di amministrazione delle grandi aziende[4].
[1] A. Sarlo e F. Zajczyk, Dove batte il cuore delle donne?, cit., p. 6.
[2] La rappresentanza di genere nelle amministrazioni comunali italiane, Anci, Roma 2013.
[3] OCSE, Gender Equality in Education, Employment and Entrepreneurship, 2012.
[4] European Commission, Women in Economic Decision-Making in the EU: Progress Report, 2012.