Non vedente e non udente sono due locuzioni che indicano persone che non vedono o non sentono totalmente o parzialmente. Hanno sostituito i termini cieco e sordo, considerati troppo offensivi. Sono perifrasi che si usano pensando di rendere la realtà meno pesante. Dire non vedente o non udente invece di cieco o sordo non cambia la realtà di chi vive una situazione di minorazione sensoriale, né contribuisce a ridurre lo svantaggio potenziale dovuto alla minorazione. [1]
Non esistono caratteristiche comuni a tutti i ciechi. Sono le leggi a definire quanto poco deve vedere una persona per essere considerata cieca. La legge n. 155 del 5 marzo 1965, all'art. 2 recita: "Si intendono privi della vista coloro che sono colpiti da cecità assoluta o hanno un residuo visivo non superiore a un decimo in entrambi gli occhi con eventuale correzione". Quindi all’interno della definizione, rientrano anche persone che riescono a vedere qualcosa. Questa formula è ripetuta in varie leggi, anche all’articolo 1 comma 4 della legge n. 68 del 12 marzo 1999 sul collocamento obbligatorio dei disabili.
Con la legge 138 del 3 aprile 2001 è stata recepita la classificazione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, che individua i ciechi e gli ipovedenti non solo sulla base del visus, cioè dell'acutezza visiva, ma tenendo conto anche dell' ampiezza del campo visivo, cioè della porzione di spazio che l'occhio è in grado di vedere davanti a sé. La legge definisce i concetti di "cieco assoluto", "cieco parziale", "ipovedente grave", "ipovedente medio-grave" e "ipovedente lieve", ricomprendendo nelle ultime due categorie i soggetti con un'acutezza visiva da 1 a 3 decimi. Le leggi in materia di collocamento lavorativo, adottano tutt'ora esclusivamente il parametro dell'acutezza visiva o visus, che si misura con il tabellone con varie lettere di grandezza decrescente.
Si tratta di un sistema riduttivo e ormai superato dalla scienza medica. Gli strumenti attualmente in dotazione agli ambulatori oculistici consentono di misurare con buona approssimazione la forma e l'estensione del campo visivo, cioè la zona che la persona può vedere con un sol colpo d'occhio. Vi è poi la possibilità di misurare la fotosensibilità, cioè la variazione dell'acutezza visiva al variare dell'illuminazione dell'oggetto da osservare. Così può capitare che vi siano persone che di giorno se la cavano abbastanza bene mentre di notte divengono completamente cieche, ed anche viceversa.
Mentre nel campo del collocamento lavorativo e delle agevolazioni fiscali i "privi della vista" o "non vedenti" sono definiti coloro che vedono meno di un decimo, nell'ambito delle pensioni e delle indennità speciali si distinguono i "ciechi assoluti" (coloro che non vedono nulla o al massimo sono in grado di percepire una fonte luminosa o il movimento di una mano posta davanti all'occhio o, da ultimo, coloro che hanno un residuo perimetrico binoculare inferiore al 3%) e i "ciechi parziali" (tutti gli altri soggetti con problemi di vista il cui visus è inferiore ad 1/10 o il cui residuo perimetrico binoculare è inferiore al 10%).
Chi sono gli ipovedenti?
La parola ipovedente è entrata da poco nel vocabolario italiano e la si rinviene per la prima volta in un testo legislativo del 1984 (decreto ministeriale sulla fornitura di protesi da parte del Servizio Sanitario Nazionale).
Attualmente è stata consacrata nella legge n.138 del 3 aprile 2001, che distingue tra:
- "ipovedenti gravi": coloro che hanno un visus compreso tra 1/20 e 1/10 oppure una riduzione del campo visivo tra il 10% e il 30%;
- "ipovedenti medio-gravi": coloro che hanno un visus compreso tra 1/10 e 2/10 oppure una riduzione del campo visivo tra il 30% e il 50%;
- "ipovedenti lievi" (coloro che hanno un visus compreso tra 2/10 e 3/10 oppure una riduzione del campo visivo tra il 50% e il 60%.
Dal punto di vista semantico l'espressione "ipovedente" è sicuramente una bruttura, risultando dalla fusione di una parola greca e di una latina. Essa sta ad indicare le persone che hanno grossi problemi di vista e che non rientrano nel concetto di cecità assoluta.
In Italia si calcola che gli ipovedenti siano circa un milione. Per la maggior parte si tratta di anziani che hanno subito una diminuzione della loro capacità visiva in età adulta.
È importante sottolineare che solo gli ipovedenti gravi hanno diritto alla pensione e possono usufruire di alcune agevolazioni previste per i ciechi, quali il collocamento obbligatorio come centralinisti o massofisioterapisti. Gli altri ipovedenti possono, invece, rientrare nella categoria degli invalidi con diversa percentuale di invalidità e conseguentemente diversi benefici economici e lavorativi. [2]
A volte per i ciechi si usano anche i termini visulesi o videolesi (di persona che presenta menomazioni della vista) per assonanza con la parola audiolesi.
L'audioleso è colui che ha subito un deficit a livello uditivo prima dell'apprendimento della lingua parlata. Il mutismo o il non emettere, correttamente, i suoni delle parole sono soltanto una conseguenza della sordità e del mancato feed back uditivo, nasce da qui il luogo comune che etichetta gli audiolesi come "sordomuti". Molti di loro hanno un vocabolario d'italiano carente, non conoscono il significato di alcune parole o strutture linguistiche complesse. Per questo motivo la maggior parte scrive anche in un italiano molto approssimativo. Ciò non significa ignoranza o scarsa cultura, ma dipende dal fatto che la lingua italiana rappresenta per loro una "seconda lingua". La loro "prima lingua" è la L.I.S. Lingua Italiana dei Segni, che ha una sua grammatica, sintassi e fonetica. I sordi strutturano il pensiero secondo immagini e non per parole come fanno gli udenti. [3]
[1] Patete A., Le parole per dirlo, inchiesta in "SuperAbile Magazine", febbraio 2012
[2] www.nonvedenti.it
[3] http://www.ing.unisannio.it/
LA RASSEGNA
Film per non udenti e non vedenti
Al via a Lecce «Cinema senza barriere»
(edizione online locale di un quotidiano nazionale, 13 gennaio 2014)
Un navigatore per non vedenti
Bocelli mette al lavoro il Mit
Sistemi elettronici che aumentano l'autonomia delle persone prive di vista.Il primo prototipo segnala ostacoli sul cammino, legge cartelle e riconosce gli amici
(edizione online di un quotidiano nazionale, 14 gennaio 2014)
Usa: Obama risponde ad un non udente col linguaggio dei segni
(video sul sito di un quotidiano nazionale, 23 marzo 2012)
I tre titoli riportati in alto sono scorretti perchè usano espressioni eufemistiche come 'non udente' e 'non vedente'. Qui di seguito invece un esempio molto positivo, in cui viene intervistato un giovane sordo e che ci serve anche a spiegare alcuni punti che abbiamo trattato: «Il termine "sordomuto" non esiste più - ci dice - La legge ha ufficialmente cambiato il termine "sordomuto" in "sordo". E non vogliamo neanche essere chiamati "non udenti", perchè quel "non" rende l'espressione negativa. Allora noi dovremmo chiamarvi "non sordi"?».
"La nostra lingua, il Lis. Lingua, non linguaggio - ci tiene a specificare - perchè non è un modo di comunicare e basta ma una vera e propria lingua, tanto che come la Lingua dei Segni Italiana, esistono innumerevoli altre lingue, una per ogni nazione. Ad esempio, esistono una Lingua dei Segni Inglese, una Lingua dei Segni Francese e così via»
Se i sordi non vogliono essere chiamati "non udenti"
(edizione online di un quotidiano nazionale, 23 settembre 2009)
TORINO Serafino Timeo è un ragazzone biondo dai tratti svedesi che non riesci a far smettere di parlare. Ma "parlare" forse non è la parola giusta, perchè lui si esprime con le mani. Ha portato con sè una traduttrice affinchè fosse più facile raccontare - come un fiume in piena - cosa fa l'associazione di cui è presidente, Lislandia. E prima di tutto ci sgrida. Perchè noi giornalisti usiamo male le parole. «Il termine "sordomuto" non esiste più - ci dice - La legge ha ufficialmente cambiato il termine "sordomuto" in "sordo". E non vogliamo neanche essere chiamati "non udenti", perchè quel "non" rende l'espressione negativa. Allora noi dovremmo chiamarvi "non sordi"?». Il politically correct che a tutti noi è entrato ormai sotto la pelle, ai sordi non piace. Almeno, così li racconta questo trentenne pieno d'entusiasmo. «Quello che veramente ci differenzia da voi è la nostra lingua, il Lis. Lingua, non linguaggio - ci tiene a specificare - perchè non è un modo di comunicare e basta ma una vera e propria lingua, tanto che come la Lingua dei Segni Italiana, esistono innumerevoli altre lingue, una per ogni nazione. Ad esempio, esistono una Lingua dei Segni Inglese, una Lingua dei Segni Francese e così via». «Lo Stato Italiano ha ratificato la convenzione Onu per i diritti dei disabili e si impegna a riconoscere la Lingua dei Segni, ma finora non ha mai mantenuto l’impegno» s'infervora «Se ci fosse il riconoscimento, molte cose cambierebbero. Ad esempio, la Rai ha firmato tempo fa un accordo con l'Ente Nazionale Sordi promettendo che il 60 per cento dei programmi trasmessi sarebbe stato sottotitolato, ma per ora siamo molto lontani da quella percentuale». Quanti sono a oggi i programmi sottotitolati? «A spanne, meno del 20 per cento. Alcuni tg hanno la traduzione, ma per esempio i film sono sempre gli stessi. Noi sordi avremo visto Pretty Woman almeno sette volte! Ogni volta che è in programmazione, quella sera non puoi vedere altro» C'è un problema di democrazia? «No, questo forse no, perchè i programmi scelti consentono di vedere un po' di tutto, ma rimane il fatto che così si crea un divario culturale tra chi è sordo e chi no. Da questo punto di vista, ci sono anche problemi più importanti, ad esempio nella scuola». Ovvero? «Per un sordo, raggiungere lo stesso livello di formazione degli altri è una fatica improba, noi dobbiamo darci da fare cento volte di più, perchè non sempre abbiamo a disposizione insegnanti e scuole preparati che siano in grado di comunicare con la lingua dei segni. Se un sordo vuole andare all'università, poi, non ne parliamo. Certo, ce la può fare, ma deve investire i propri soldi nell'aiuto di qualcuno che faccia da supporto perchè in Italia non esistono università per i sordi». E all'estero si? «Certo, ad esempio negli stati Uniti esiste la Gallaudet University, a Washington D.C., che offre non solo l'insegnamento, ma anche tutti i servizi di un vero e proprio campus, compresi gli alloggi e le attività sportive. Ma vede, non è neanche solo questo il problema. Se lo stato riconoscesse ufficialmente il Lis, ci sarebbero interpreti in tutti i servizi pubblici, mentre ogni giorno noi combattiamo con la difficoltà di farci capire, di essere cittadini come tutti gli altri». Quali sono i problemi che incontra chi è sordo, nella vita quotidiana? «Le faccio un esempio: se io vado in ospedale per prenotarmi le analisi, l'impiegato di solito è dietro ad un vetro e io parlo in un modo un po' gutturale, che so per gli altri è difficile da capire, ma in un modo o nell'altro, di solito riesco a spiegarmi. E ogni volta, l'impiegato mi chiede il numero di telefono». Certo, per eventuali cambiamenti di programma... «Già, ma io sono sordo, non ho un telefono! E quando cerco di spiegarlo, loro pensano che siccome non sento, sia una buona idea ripetermelo a volume sempre più alto... finchè alla fine, improvvisamente, capiscono e allora cominciano a profondersi in scuse e vanno avanti dieci minuti. E' imbarazzante. Per me e per loro. Ecco, quello che vorremmo è trovare persone preparate. Pensi, una volta ho sventato un furto in un supermercato e quando è arrivata la polizia e doveva fare il verbale... s'immagini. Ovviamente non c'era nessuno a tradurre. Noi paghiamo le tasse, siamo cittadini come tutti gli altri, perchè per noi i servizi ai cittadini devono essere così inaccessibili?»[...]
«La Giornata Mondiale dei Sordi è una festa che si celebra in tutto il mondo, una occasione per essere visibili, perchè di solito non lo siamo: lei potrebbe avere incontrato un sordo stamattina per la strada e non saperlo. Chi è seduto su una carrozzella è riconoscibile nella sua diversità, noi no e questo è uno svantaggio». O un vantaggio. Dipende dai punti di vista. «E' possibile, ma noi vorremmo essere visibili, riconosciuti. Sabato sfileremo per Torino con una maglia nera a maniche lunghe, simbolo dei diritti non ancora riconosciuti e una candela accesa, simbolo di speranza per il futuro. Partiremo alle 14 dalla sede di Lislandia, in corso Francia 73, e alle 16 il corteo raggiungerà piazza Castello dove si svolgerà un dibattito cui sono stati invitati il sindaco Chiamparino e i presidenti di Provincia e Regione. Perchè la maglia nera? «Il nero e le maniche lunghe fanno risaltare di più le mani. E le mani sono il nostro mezzo per comunicare con il mondo».
Qui di seguito riportiamo degli articoli che raccontano le storie di due giornalisti, Maurizio Molinari e Fabio Lepore, da cui possiamo notare come chi ha scritto i pezzi su Molinari non usa mai la parola 'cieco', quasi fosse un insulto. Da questo si può vedere lo stigma che ancora circonda questo termine, seppure sia molto più corretto di 'non vedente' o di 'diversamente abile' e 'portatore di handicap' che non andrebbero usati. C' è inoltre molta evidente curiosità sul 'successo' di una vita normale da freelance all'estero per Molinari. E' vero che gli articoli sottolineano le discriminazioni subite da Molinari in Italia rispetto all'estero ma esprimono anche un certo stupore. Insomma il messaggio è del tipo: "è non vedente, ma nonostante tutto ha una vita normale, o di successo". Anche questo approccio lascia intendere quanto sia ancora difficile per i media italiani uscire dalla dicotomia disabile/normodotato.
Infine in entrambi gli articoli sulla storia di Molinari si confonde l'handicap con il deficit. (vedi questi termini) Perchè l'handicap deriva dal contesto, mentre il danno biologico proprio della persona è il deficit. L'handicap cambia a seconda dell'interazione con la società e con le barriere che essa pone, mentre il deficit resta invariato.
Nel caso dell'articolo su Lepore, riportiamo un buon esempio di informazione corretta, di cui in questo caso citiamo la fonte perchè si tratta di un portale specializzato, SuperAbile, dell'Inail.
Giornalista disabile a Bruxelles. “In Italia non posso fare il mestiere che amo”
Maurizio, 34 anni, è non vedente dalla nascita. Nel Belpaese il suo handicap gli impediva di esercitare la professione. Poi, all'estero, la svolta: dopo un master a Liverpool ha iniziato a collaborare con realtà internazionali, tra cui la Bbc. Oggi vive a Bruxelles
(testata online nazionale, 20 agosto 2013)
Se il lavoro di cronista in Italia è duro per tutti, figuriamoci per un ragazzo portatore di handicap. Maurizio ha 34 anni, è di Pescina, un paesino in provincia de L’Aquila, ed è non vedente dalla nascita. Ha fatto la scuola di giornalismo di Urbino ed è professionista dal novembre 2008. In Italia ha provato ad esercitare il mestiere che ama, il giornalismo, ma non ha avuto fortuna. Troppi gli ostacoli, i problemi, le difficoltà di un sistema che ancora non vuole accettare che non è nient’altro che un “diversamente abile”. Maurizio adesso vive a Bruxelles dove lavora come freelance e collabora con realtà internazionali di prestigio come l’inglese Bbc. [...]
Maurizio studia interpretazione all’Università di Forlì ma scopre presto la sua vera passione, ed è qui che iniziano i guai. Fa domanda di ammissione presso una delle più importanti scuole di giornalismo in Italia, ma si vede negare l’accesso al test d’ingresso per il suo handicap, a priori. Per questo scrive una lettera indignata alla scuola che scatena le scuse da parte della direzione e la concessione di ammissione al test. Ma Maurizio non vuole fare strada a gomitate, quindi si iscrive e frequenta con successo la scuola di giornalismo di Urbino. Fa il praticantato propedeutico all’esame per diventare giornalista professionista all’Agi e a Radio Rai. “Mi sono trovato a montare dei servizi al posto di persone assunte che, pur vedenti, non erano capaci di farlo”, racconta con un pizzico di ironia. “Ho dimostrato nei fatti di poter fare il mio lavoro, pur essendo conscio dei miei limiti. Il mio sogno era fare il telecronista sportivo, non lo posso fare per motivi pratici, ma non vuol dire che non posso fare altro – spiega – Avrei preferito trovarmi di fronte a persone che mi dicessero, ‘bene vediamo insieme quello che puoi fare e quello che non puoi fare’, ma senza pregiudizi di sorta. Certo che se ogni volta mi fanno un contratto di una settimana non ho nemmeno il tempo di ambientarmi nella nuova realtà e prenderne le misure”. A Maurizio la Rai non dispiaceva, tant’è che, di fronte alle porte chiuse e appellandosi alla legge sul collocamento obbligatorio delle persone disabili, si è rivolto speranzoso all’Usigrai (sindacato dei giornalisti della Rai). Secca e sconcertante la risposta: “La Rai rispetta le quote di collocamento obbligatorie delle persone disabili indipendentemente delle figure professioniste”. Insomma, come dire che i portatori di handicap sono stati messi a fare altro. Quanto basta per farsi una regione che in Italia, tranne qualche collaborazione saltuaria, non c’è proprio spazio. Nel 2008 arriva a Bruxelles per uno stage all’Ansa. [...] Inizia a lavorare nella comunicazione di alcune Ong internazionali come Equinet Eurochild e Transport and Environment, scrive per Equal Times e con l’Italia mantiene una vecchia collaborazione, quella con il Redattore Sociale. Ma la vera svolta arriva dopo un paio d’anni. “Vista la magra situazione italiana, ad un certo punto ho deciso di aprirmi alla realtà inglese. Mi sono iscritto a un master part time intitolato Post graduate certificate in radio and on line journalism a Liverpool. Le lezioni erano ogni martedì, quindi per due anni ho preso il treno il lunedì sera, mi sono fatto dalle 5 alle 8 ore di viaggio per poi tornare a Bruxelles a lavorare il mercoledì mattina”. Durante il master Maurizio ha l’occasione di mettere un piede alla Bbc. “Da allora ho iniziato una collaborazione continua con la radio dell’emittente inglese dove ho incontrato decine di giornalisti non vedenti. In tutta Italia invece conosco una sola persona non vedente che fa questo lavoro, oltre al sottoscritto”, racconta. Alla Bbc la vita per un giornalista non vedente è davvero diversa. “Qui non solo si riesce a lavorare ma un cronista nelle mie condizioni non si deve occupare solo di disabilità. Ad esempio, conosco personalmente un reporter sportivo e un importante analista politico. Anzi, i miei colleghi britannici si lamentano addirittura che alla Bbc c’è solo il 3 percento di disabili impiegati”. Le differenze con le realtà italiane pesano. “Quando stavo in Rai dovevo portare al lavoro il mio computer, alla Bbc anche per una formazione di due giorni mi hanno messo a disposizione un computer con screen reader, programma di lettura dello schermo fatto apposta per i non vedenti – spiega Maurizio – Sempre a Londra, all’inizio mi hanno messo a disposizione per una settimana un assistente personale per farmi familiarizzare con l’ambiente di lavoro. Poi ovviamente ho iniziato a muovermi in totale autonomia”. Cosa fa davvero la differenza? Maurizio non ha dubbi: “Le leggi e il farle rispettare. In Inghilterra se discrimini un dipendente perché disabile, o per qualsiasi altro motivo, l’azienda rischia serie punizioni e una pessima immagine di fronte all’opinione pubblica. In Italia magari leggi simili ci sono, ma vengono puntualmente disattese”. Le cose per Maurizio iniziano ad andare davvero bene, tanto che può addirittura rinunciare ad un contratto indeterminato e ben retribuito nel settore della comunicazione per lavorare come freelance. E il futuro promette bene. “La Bbc mi offre delle possibilità che in Italia non avrei mai avuto e forse un giorno potrò anche fare televisione”. Oggi Maurizio si occupa soprattutto di tematiche sociali e cooperazione e sviluppo. Alla Bbc cura un programma radiofonico dove racconta storie di persone che si sono distinte per i propri meriti. Ha lavorato anche per un programma di diritti dei consumatori e uno sullo sport, per il quale ha realizzato un’intervista in esclusiva ad Antonio Conte, dopo l’ultimo scudetto della Juventus. Quest’estate la passerà in parte in Russia per studiarne la lingua. E l’Italia? “Al momento non ci penso nemmeno a tornare. Non vedo possibilità di fare il mestiere che amo. Ho cercato di trovare spazio ma non c’è stato verso. L’Italia resta un paese con una buona qualità di vita. Però se devo tornare a meno di mille euro e a fare un lavoro che non mi soddisfa, meglio restare all’estero”. E il futuro? “Mi vedo in Inghilterra, mi auguro sempre con la Bbc. Tornerei in Italia solo a condizione di poter essere valutato per quello che faccio e non per altro”.
MAURIZIO MOLINARI, IL GIORNALISTA NON VEDENTE TRA I 10 ITALIANI PIU' INFLUENTI A BRUXELLES
(testata online locale, 17 novembre 2013)
L'AQUILA - La rivista online Glieuros lo considera uno dei dieci italiani più influenti a Bruxelles e lo definisce “la prova che volere è potere”. È Maurizio Molinari, giornalista professionista di 34 anni, originario di Pescina (L'Aquila), poco incline a montarsi la testa, tanto da affermare “non mi sento una persona influente, il giornalista che ha scelto la mia storia è stato colpito dal fatto che di vite come la mia non ce ne sono molte". E la storia di Maurizio è veramente più unica che rara, perché lui è non vedente dalla nascita e per fare la sua professione, dopo aver ricevuto tante porte in faccia in Italia, si è dovuto trasferire in Belgio, a Bruxelles, dove lavora come freelance e collabora con realtà internazionali di prestigio come l’inglese Bbc. La sua penna continua a scrivere anche per il suo Paese, per la rivista Redattore Sociale, ma "in Italia non è facile fare il giornalista". Ascoltando la sua storia, sentendo le sue parole al telefono, non trapela una briciola di insicurezza, solo tanta determinazione e amore per la vita. E il suo handicap viene subito messo da parte, quasi dimenticato, perché emerge un ragazzo come ce ne sono tanti al mondo, uno di quelli che per trovare fortuna è stato costretto a lasciare casa e a muoversi altrove, dove qualcun altro ha scoperto in lui un tesoro.
È dura per un ragazzo come lei affrontare i pregiudizi delle persone?
Per me è faticoso come per tutti. In molti, soprattutto in Italia, mi hanno detto di lasciar perdere il giornalismo, che non è un lavoro che posso fare.
Ma si sbagliavano. Fa un lavoro che ama. Come si sente?
C'è tanta gente che lavora a 500 euro al mese. Io sono abbastanza fortunato, ho esplorato il mondo dei media inglesi che mi ha dato molte opportunità in più e sono riuscito a diventare il giornalista che volevo.
In Italia non sarebbe stata la stessa cosa?
No.
Cosa le ha permesso di superare il gap con gli altri colleghi?
La tecnologia è stata importantissima. Ho un pc con lettore di schermo e nell'Iphone ho installato un software per non vedenti sia di lettura che per rendere accessibile il touch. La tecnologia mi ha reso sicuramente la vita più facile.
Quando ha deciso di fare il giornalista?
Questa passione l'ho scoperta studiando interpretazione all’Università di Forlì, tanto che, dopo essermi laureato, ho frequentato la scuola di giornalismo di Urbino. Ho fatto il praticantato propedeutico all’esame per diventare giornalista professionista all’Agenzia Giornalistica Italiana (Agi) e a Radio Rai, dove spesso mi ritrovavo a montare i servizi al posto di altri colleghi, meno capaci di me. Dopo molti rifiuti da redazioni italiane mi sono trasferito a Bruxelles, dove ho lavorato all'agenzia Ansa. Ho fatto anche uno stage a Liverpool, viaggiando ogni settimana dal Belgio all'Inghilterra e nonostante sia stato molto faticoso, mi ha insegnato molto. Da lì ho iniziato a collaborare con la Bbc, dove lavoro tutt'ora.
Come fa a raccontare scene e vissuti al di fuori di lei che non può vedere?
Li sento. Sento gli odori, i suoni, si sviluppa una sensibilità diversa, ma pur sempre attinente con la realtà e in grado di descriverla.
Conosce colleghi non vedenti?
In Italia si contano sulle dita di una mano. Che io ne sappia siamo in due. All'estero ce ne sono molti di più. Ma lei non è solo un giornalista, è anche un grande sportivo. Ho sempre fatto molti sport, tra questi c'è il judo, con il quale ho partecipato al campionato nazionale per non vedenti, a quello europeo classificandomi quinto e partecipando anche al mondiale ma sono uscito al primo turno. Ho fatto poi sci, sci nautico, nuoto, subacquea e altri.
Il suo handicap non è mai stato un limite?
Ricordo un evento importante della mia vita, quando avevo sette anni sono tornato a casa in lacrime perché non potevo giocare a calcio con i miei amici. E mio padre mi disse, 'tu nella tua vita ne fai talmente tanti, di sport, che non potrai portarli avanti tutti'. E aveva ragione.
Chi l'ha aiutata alla scoperta dell'indipendenza?
Sicuramente il mio istruttore di bastone bianco, Marco Fossati.
Indipendenza, che poi, le ha permesso di girare il mondo.
Si. In un periodo della mia vita mi trovavo in un campo di lavoro volontario in Palestina e prima ero stato in Corea e pensavo che il viaggio sarebbe stato il mio futuro. Ma poi ho deciso di fermarmi, per la mia famiglia, per farli stare tranquilli.
Nella sua vita ha un modello al quale si è ispirato?
Ho letto molti testi e penso che la sensibilità anarchica sia molto simile al mio pensiero. Credo si debba sempre diffidare del potere e delle autorità. Si dovrebbe pensare a una società con meno gerarchie dando più voce ai bambini.
Cosa ne pensa del clima che si respira oggi in Italia?
Penso che le persone giovani abbiano poca voglia di fare. Sono un po' troppo presi dal clima di decadenza che permea tutta la loro vita. Si deve sempre sognare e fare progetti, provare a realizzarli dà più energia di vivere.
DALL'INDIA ALL'AFGHANISTAN, I REPORTAGE DI FABIO LEPORE, GIORNALISTA IPOVEDENTE
Torinese, 35 anni, ha all'attivo una lunga serie di lavori da ogni angolo del mondo, scritti per molti dei maggiori periodici nazionali. A 16 anni gli è stata diagnosticata la malattia di Stargardt, che ha ridotto la sua vista a un decimo per occhio. "La mia condizione mi ha permesso di superare i limiti che tutti noi ci mettiamo davanti, come degli alibi per non fare ciò che desideriamo"
(SuperAbile.it 13 settembre 2012)
TORINO - È senz'altro la calma la prima cosa che salta agli occhi parlando con Fabio Lepore. Proprio quel tipo di calma che può tornarti utile se decidi di arrampicarti su per un ghiacciaio d'alta quota; o quando, con l'esercito italiano, ti trovi ad attraversare una zona che pullula di guerriglieri insorti. Trentacinque anni, torinese, giornalista freelance con all'attivo servizi e reportage per molti dei maggiori periodici nazionali, Fabio sembra animato da una grande consapevolezza di sé e dei suoi desideri. Una consapevolezza che, come reporter, lo ha spinto ai quattro angoli del globo: dall'India alla Giordania, dall'Afghanistan all'Islanda, nel costante inseguimento di una notizia, di un pezzo di realtà da catturare con taccuino e reflex per farne un racconto giornalistico. Spezzando così gli ostacoli che la vita gli ha messo di fronte: fin dall'adolescenza, infatti, Fabio è ipovedente; una malattia molto rara, il morbo di Stargardt, gli ha ridotto drasticamente l'uso della vista, che si è stabilizzato a un decimo per occhio. "Ho scoperto di avere la malattia di Stargardt a 16 anni - spiega - durante un controllo di routine. Si tratta di una patologia degenerativa che crea delle interferenze nella macula, rendendo sempre più difficile la messa a fuoco del campo visivo centrale. Rientra tra le cosiddette malattie rare, per le quali non esistono cure. [...] La malattia - continua - è una compagna scomoda con la quale devo dialogare in continuazione. Ho dovuto accettarla, ma non è stata affatto una cosa immediata. Quando me l'hanno diagnosticata ero solo un ragazzino. Nel giro di un'estate ho perso tra i 5 e i 6 decimi per occhio e di colpo le mie prospettive sono cambiate: sapevo che non avrei mai potuto guidare e credevo che non avrei mai potuto fare tante altre cose. Ricordo che all'inizio tendevo a nascondere la malattia, così, nel paese dove sono cresciuto, molti credevano che non li salutassi più per una questione di snobismo. In realtà non li riconoscevo. Alla fine sono entrato in depressione, e ci sono voluti anni per uscirne". Col tempo, però, Fabio ha saputo dimostrare a se stesso che si sbagliava. "Credo che in realtà la mia condizione mi abbia permesso di superare una serie di limiti che tutti noi ci mettiamo davanti, come degli alibi per non fare ciò che realmente desideriamo. Fin da ragazzino, ad esempio, uno dei miei sogni era di lanciarmi con il paracadute, ma l'impatto con la retina poteva essere dannoso. Così ho deciso di iscrivermi a un corso di parapendio e alla fine sono riuscito a fare alcuni voli in solitaria. Gradualmente ho iniziato ad assumere un nuovo atteggiamento nei confronti della vita: ora, quando mi si presenta la possibilità di fare una nuova esperienza, anziché chiedermi ‘perché', mi chiedo ‘perché no?' Un'altra grande passione per me - continua - è sempre stata la montagna. Sognavo di arrampicarmi su ghiaccio e ho imparato a farlo. Qualche anno fa c'era in giro una pubblicità ambientata nel ghiacciaio del Vatnajokull, in Islanda. Vedendola mi è venuta voglia di andare ad arrampicarmi lì: così sono partito, ho trovato una guida alpina e in una settimana ho scalato il ghiacciaio". In quell'occasione, Fabio realizza anche uno dei suoi primi reportage: ogni due giorni è in collegamento con Zip Radio, una emittente torinese, raccontando la vita dei villaggi in cui si ferma lungo il cammino e intervistandone gli abitanti. Poi, nel giugno del 2010, è la volta dell'Afghanistan. "Qualche mese prima, una mia amica fotografa, Valentina Bosio, mi aveva contattato dicendomi che aveva la possibilità di raggiungere la Brigata alpina Taurinense, che era appena partita per il suo turno. All'epoca facevo il giornalista già da 3 anni, per cui ero in contatto con alcuni settimanali che potevano essere interessati ai nostri servizi. Quando lavoro cerco sempre di farlo con un fotografo: non solo per una questione di professionalità, ma anche perché mi aiuta a superare alcuni limiti che la mia condizione mi impone. Riguardando gli scatti, ad esempio, posso cogliere particolari che sul momento non riesco a vedere; un fotografo può inoltre ‘raccontarmi' in tempo reale quello che succede a distanze che da solo non riesco a mettere a fuoco. Nei 15 giorni in Afghanistan - continua Fabio - abbiamo avuto la possibilità di spostarci molto. Siamo stati in un villaggio nei pressi di Shindand, dove per Focus Junior abbiamo potuto realizzare un servizio sulla vita dei bambini locali, di cui vado molto fiero. Siamo stati anche a Bala Murghab, dove appena un mese prima erano morti due alpini nell'esplosione di un ordigno. Quello è stato un turno davvero duro per la Taurinense". Pochi mesi dopo, a dicembre del 2010, Fabio parte per l'India, per realizzare un servizio sulla Rickshaw run, la corsa dei Tuk Tuk (i taxi a tre ruote, simili alla nostra Ape Piaggio) che attraversa tutto il paese. "Sono partito con due amici, uno dei quali è un regista, con il quale abbiamo cercato di realizzare un mini documentario. Posso dirti che siamo rientrati nel 60% delle squadre che sono arrivate fino in fondo, anche se siamo arrivati esattamente ultimi (ride, ndr). In realtà ci interessava visitare l'India, quindi ci siamo fermati in parecchi villaggi, entrando a contatto con la popolazione locale, scattando foto, facendo interviste. Alla fine siamo arrivati proprio nell'ultimo dei 19 giorni di gara: ma il nostro Tuk Tuk era quello ridotto meglio di tutti. Comunque, visto come si usa guidare in India, posso dirti che in media ho avuto più paura su quelle strade che in Afghanistan"