Disabile [normodotati, paralimpiadi]
Disabile è un aggettivo. Vuol dire “che ha una disabilità”, intesa oggi come un’interazione dinamica fra la persona disabile e l’ambiente, con al centro la questione delle barriere. Il problema di disabile è che non lo si percepisce più come aggettivo, si è trasformato in sostantivo. Disabile è un’evoluzione di handicappato (vedi). Meno stigmatizzante, ma pur sempre in negativo, con quel prefisso “dis” che connota la parola per sottrazione, e dunque sembra togliere valore alla condizione umana. Disabile però è un termine onesto, in qualche modo ragionevole e realistico, un buon bilanciamento tra ciò che pensa la gente e la realtà di chi vive su di sé la condizione di disabilità, motoria, sensoriale, intellettiva. È un termine molto generico, non particolarmente offensivo. Trasformandolo in sostantivo, c’è il rischio di dimenticare il confronto fra la persona e l’ambiente che la circonda, il contesto sociale e culturale nel quale è inserita. Non a caso, il portale dell’Inail si chiama “SuperAbile”, gioco di parole inventato dal giornalista Franco Bomprezzi “per esorcizzare e ribaltare un luogo comune”.
Disabile è un termine che può essere accettato nei titoli, per ragioni di brevità, quando non è proprio possibile usare l’espressione più precisa “persona con disabilità”. Per capire la differenza, bisogna fare un breve excursus. Negli ultimi 50 anni si sono confrontati due approcci sulla disabilità, uno che la vede come questione biologica della persona disabile e l’altro che vede nella disabilità una condizione sociale, un “prodotto” della società che discrimina. Nel primo modello (funzionalista) l’idea padrona è quella della “normalità” del sistema, cui il disabile deve sottostare e che interiorizza a sua volta. Oggi il “paradigma del modello sociale” è diventato dominante e ha favorito le rivendicazioni dei diritti delle persone con disabilità. Nel 2001 la nuova Classificazione internazionale del funzionamento disabilità e salute (Icf) dell’Oms ha introdotto l’espressione, diventata poi concetto giuridico, “persone con disabilità”. La stessa che è diventata standard internazionale con l’approvazione nel 2006 della Convenzione dell’Onu sui diritti delle persone con disabilità, elaborata con l’apporto delle più importanti associazioni internazionali di persone con disabilità e loro familiari. Questa la definizione data dall’Articolo 1: “per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri”. La Convenzione è stata ratificata dall’Italia con la legge n.18 del 2009. Il testo dell’Onu è il primo strumento internazionale vincolante per gli Stati in materia di disabilità. La Convenzione inquadra la disabilità nella cornice dei diritti umani. Non riconosce nuovi diritti alle persone con disabilità, ma il principio di uguaglianza in modo che possano godere degli stessi diritti riconosciuti agli altri. Qualsiasi distinzione, esclusione o restrizione di questi diritti è una “discriminazione fondata sulla disabilità”. Il documento tutela anche donne e minori con disabilità come potenziali soggetti a discriminazioni multiple, che si verificano per la compresenza di più fattori discriminanti.
Tornando alla locuzione “persona con disabilità” è migliore perché il termine “persona” è neutro e universale (non descrive un individuo con un attributo che è solo una parte di esso, come per esempio invalido). Il concetto di disabilità ribadisce che non sono le caratteristiche soggettive delle persone a creare svantaggio ed esclusione sociale, ma l’interazione con barriere comportamentali e ambientali. La particella “con” infine rende esplicito che la disabilità è responsabilità sociale, che si crea solo in determinate condizioni: quando una persona in sedia a rotelle incontra una scala o un cieco un testo stampato.Se al centro c’è lo scambio tra la persona con una o più disabilità, a loro volta transitorie o permanenti, e i vari contesti sociali, è evidente che si tratta di un fenomeno eterogeneo. Unificazioni sotto le categorie di “popolo”, “oppressi”, “ultimi”, “i disabili” sono inefficaci e fuorvianti, anche se comode.
Allo stesso modo, non ha senso parlare di “normodotati”, definizione che contiene un giudizio fra chi può essere considerato normale e chi no. La persona dotata di normalità non esiste perché normalità non è un criterio assoluto ma relativo. Se i normodotati sono quelli normali, allora gli altri chi sono? In genere si tratta delle persone con disabilità fisiche o intellettive. E se sono più sensibili, più intelligenti o più “dotati” poco importa, perché comunque non rientrano tra i normodotati. Insomma, si tratta di una definizione quasi lombrosiana, di una categoria vecchia che evidenzia un modo di pensare assolutamente superato e anacronistico. In questo contesto possiamo collocare il primo esempio di titolo, sulla vicenda di Oscar Pistorius, dove non era necessario fare un distinguo fra il disabile e i normodotati. L’informazione era comprensibile anche senza l’uso della parola “normodotati”, visto che si spiega che Pistorius corre con le protesi e ci si riferisce alle “olimpiadi”. Mentre la competizione degli altleti con disabilità si chiama in un altro modo: paralimpiadi.
Paralimpiadi, a differenza di quello che pensano alcuni, non vuol dire olimpiadi per “paraplegici”. Deriva dalla forma anglosassone paralympics, in cui il prefisso di origine greca para ha il significato di “presso, accanto, quasi, simile”.
«La paralimpiadi di Londra fanno molta tristezza, non sono entusiasmanti, sono la rappresentazione di alcune disgrazie e non si dovrebbero fare perché sembra una specie di riconoscenza o di esaltazione della disgrazia» ha detto l'attore Paolo Villaggio intervistato per radio da un’emittente nazionale in occasione dei Giochi 2012. «Non fa ridere una partita di pallacanestro di gente seduta in sedia a rotelle – dice ancora Villaggio – io non le guardo, fa tristezza vedere gente che si trascina sulla sedia con arti artificiali. Mi sembra un po' fastidioso, non è divertente». Questa concezione della disabilità solo in negativo fa vedere come molti stereotipi sono cristallizzati nella nostra cultura e vanno al di là del nome dato alle persone. Una dichiarazione di questo tipo va in senso opposto rispetto all’accettazione della disabilità come uno dei tanti aspetti della vita, da non esaltare eroicamente e con buonismo ma nemmeno da nascondere o di cui vergognarsi, perché si è “vittime di una disgrazia”. Lo studioso Matteo Schianchi, nella sua “Storia della disabilità”, richiama per le persone disabili il concetto di “liminalità” di Robert P. Murphy (1985). “Chi ha una disabilità sta in una zona intermedia, di confine, è su un crinale – scrive - Ha abbandonato lo statuto di “normale”, ma non è estraneo al mondo. Non è perfettamente sano, ma non è neanche un malato…Non è completamente rifiutato, ma non è neanche pienamente accettato”. Secondo Murphy, chi ha una disabilità deve tenere un comportamento difficile: cercare di essere come gli altri e, nello stesso tempo, restare al suo posto, continuare a essere “non normale”, distinto dai c.d. “normali”.
Eppure, la disabilità è una delle esperienze fondative del genere umano, come dimostrano anche gli antichi Egizi che avevano faraoni con deformazioni ossee (lo si è scoperto dalle loro mummie) e divinità come Bes e Ptah, raffigurate come nani. I disabili sono nelle opere di Omero, lui stesso cieco, e nei miti greci. Ma la disabilità e il rapporto dell’uomo con essa sono cambiati nel tempo, alternando comportamenti diversi da parte della società maggioritaria nei confronti delle persone con disabilità: eliminazione ( si pensi allo sterminio nazista), segregazione, abbandono (ad esempio dei neonati nel mondo antico e moderno) discriminazione, assistenza. Oggi si parla di inclusione, più che di integrazione, concetto anch’esso desueto. L’idea di “integrazione” rimanda soprattutto all’individuo che deve modificare i propri comportamenti e le proprie credenze per aderire al sistema della società maggioritaria, quindi avrebbe un significato più vicino ad “assimilazione” e mancherebbe l’idea dello scambio reciproco. Mentre una parola come “inclusione”, intesa con l’accezione anglosassone di “inclusion” e di “inclusive” contiene in sé il concetto di un rapporto più equo fra la persona e l’ambiente, di reciproca influenza. Non si tratta quindi di parole che sono sinonimi, perché veicolano significati differenti.
Per Schianchi viviamo in un’epoca in cui c’è un “surplus di disabilità”, determinata dalla chimica, dalle tecnologie, dai tumori, dagli infortuni sul lavoro e dagli incidenti stradali. Per questo ha inventato l’espressione Terza nazione del mondo (2009): messe tutte insieme, oggi, le persone con disabilità costituirebbero una nazione che, per popolazione, verrebbe dopo Cina e India. Lo studioso riporta la nostra attenzione sulle parole fino alle congiunzioni. “Proviamo a soffermarci sul titolo di un articolo di un giornale a distribuzione gratuita a proposito di una persona con disabilità di cui anche la rete ha parlato: è disabile ma scala il Kilimangiaro – scrive- Forse avrebbe fatto un effetto diverso un titolo sottilmente diverso: è disabile e scala il Kilimangiaro. Non è questione di lana caprina. Tra quel ma e la e che propongo c’è una grande differenza. Quel ma prefigura il sensazionalismo dell’impresa, proponendo uno scenario del disabile normalmente infermo, che non è una categoria del movimento umano, ma dello spirito e per cui si considera chi ha una disabilità come incapace e inetto. La congiunzione e invece avrebbe aperto uno scenario diverso: una persona disabile aperta sul mondo che, in una dimensione eccezionale per tutti (quanti normali sono stati sul Kilimagiaro?), decide di lanciarsi in un’impresa”.
Un altro mito da sfatare è quello dei falsi invalidi. (vedi). Il secondo esempio che riportiamo in alto si riferisce a un articolo che ha suscitato le proteste della Caritas padovana. L'articolo racconta la storia di una mendicante Rom che, secondo alcune segnalazioni e testimonianze, pur riferendo di essere invalida prende regolarmente l'autobus in autonomia. Portando come prova delle fotografie, il giornale spiega che la stessa persona sale in autobus con le proprie gambe e le proprie forze, dopo aver addirittura piegato da sola e sistemato all'interno del mezzo pubblico la propria carrozzina. Sedia a rotelle che poi rimette a terra, sempre da sola, e riapre prima di sedercisi e andare nel suo posto di "lavoro". Scatti che, secondo la testata giornalistica, dimostrano la malafede della donna. A questa interpretazione giornalistica rispondono Caritas e Opera Nomadi, che affermano di conoscere la donna e la sua reale disabilità fisica. Nelle vicende dei falsi invalidi sembra anche ritornare lo stigma vecchio di millenni che vede nella disabilità anche delle connotazioni morali. O negative.
Secondo le cifre delle Nazioni Unite, le persone con disabilità erano 500 milioni alla fine degli anni Ottanta, meno del 10% della popolazione mondiale. Nel 2008 sono passati a 650 milioni con un’incidenza di oltre il 10%. Il primo rapporto mondiale sulla disabilità realizzato da Organizzazione mondiale della sanità e Banca mondiale nel giugno 2011 indicava che le persone che vivono con qualche forma di disabilità sono oltre un miliardo, circa il 15% della popolazione mondiale. In Italia, le persone disabili sono tre milioni (Istat, 2010). 208 mila gli alunni disabili (Italia - Miur, a.s. 2010-2011). 14.500 gli alunni stranieri disabili (Italia - Caritas Italiana, Treelle, Fondazione Agnelli, a.s.2009/2010).Dai numeri emerge l’importanza della questione.
OLIMPIADI
Pistorius convocato per Londra
E' il primo atleta disabile
Il 25enne sudafricano, che corre con protesi in fibra di carbonio, sarà il primo atleta paralimpico a partecipare ai Giochi tra i normodotati: la federazione del suo paese lo ha selezionato per il quartetto che rappresenterà il Sudafrica nella staffetta 4x400, ma potrà gareggiare anche nella prova individuale
(quotidiano nazionale online, 4 luglio 2012)
Padova. Disabile, ma solo per mendicare: ecco come sale e scende dall'autobus
Mentre chiede l'elemosina sostiene di non riuscire a stare in piedi, ma le foto dimostrano l'opposto. E non è l'unico caso
(quotidiano locale, 15 febbraio 2011)