Integrazione (inclusione/esclusione, interazione, assimilazione, multiculturalismo)
Deriva dal latino integratio –onis. Il primo significato riportato dalla Treccani è: “ In senso generico, il fatto di integrare, di rendere intero, pieno, perfetto ciò che è incompleto o insufficiente a un determinato scopo, aggiungendo quanto è necessario o supplendo al difetto con mezzi opportuni”. Un'altra accezione è questa: “Con valore reciproco, l’integrarsi a vicenda, unione, fusione di più elementi o soggetti che si completano l’un l’altro, spesso attraverso il coordinamento dei loro mezzi, delle loro risorse, delle loro capacità”. Si parla, ad esempio, di integrazione tra Stati. Fra i tanti significati, in ambito sociale, è “l’Inserzione, incorporazione, assimilazione di un individuo, di una categoria, di un gruppo etnico in un ambiente sociale, in un’organizzazione, in una comunità etnica, in una società costituita (contrapposto a segregazione)”. Ad esempio: favorire o contrastare l’integrazione dei lavoratori stranieri. L’enciclopedia spiega così il termine Integrazione sociale: “Processo attraverso il quale gli individui diventano parte integrante di un sistema sociale, aderendo ai valori che ne definiscono l'ordine normativo […]attraverso la trasmissione dei modelli culturali e di comportamento dominanti, cui provvedono la famiglia, la scuola e i gruppi primari”.
“Dietro la parola integrazione c'è il concetto: questa è la nostra realtà e se vuoi ti integri. Invece noi cambiamo con gli immigrati. È più corretto parlare di interazione- dice la sociologa dell'università La Sapienza Maria Immacolata Macioti - Anche etnia è un termine che deriva dal passato coloniale, molto discusso oggi dagli studiosi. Queste parole hanno un passato di esclusione sociale”[1]. Il dibattito sull’uso di questa parola è difficile e ancora in corso. L’idea di ‘integrazione’ rimanderebbe soprattutto all’individuo che deve modificare i propri comportamenti e le proprie credenze per aderire al sistema della cultura dominante, quindi avrebbe un significato più vicino ad ‘assimilazione’ e mancherebbe l’idea dello scambio reciproco. Mentre una parola come ‘inclusione’, intesa con l’accezione anglosassone di ‘inclusion’ e di ‘inclusive’ contiene in sé il concetto di un rapporto più equo fra la persona e l’ambiente, di reciproca influenza. Non si tratta quindi di parole che sono sinonimi, perché veicolano significati differenti. In Italia, però, si parla molto di integrazione. Il presidente del Consiglio Mario Monti nel 2011 ha chiamato il fondatore della comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi a fare il ministro della Cooperazione internazionale e dell’Integrazione, un nuovo ministero senza portafoglio. Esiste un Fondo europeo per l’Integrazione ( e anche uno per l’inclusione). Nelle politiche migratorie europee si insiste su questo aspetto. A livello comunitario l’integrazione è intesa come un processo. Secondo i Princìpi Fondamentali Comuni per la Politica di integrazione degli immigrati nell’UE (Documento del Consiglio dell’UE 14615/04) essa è “un processo dinamico e bilaterale di adeguamento reciproco da parte di tutti gli immigrati e di tutti i residenti degli Stati membri” che, da una parte, “implica il rispetto dei valori fondamentali dell’UE” e, dall’altra, la “salvaguardia della pratica di culture e religioni diverse” in cui è cruciale “l’accesso degli immigrati alle istituzioni nonché a beni e servizi pubblici e privati, su un piede di parità con i cittadini nazionali e in modo non discriminatorio”, e “l’interazione frequente di immigrati e cittadini degli Stati membri è un meccanismo fondamentale”. Nella più recente Agenda europea per l’integrazione dei cittadini dei paesi terzi (COM (2011) 455) si conferma che l’integrazione “è un processo evolutivo, che […] comincia dalla base […] secondo un autentico approccio dal basso, a contatto con la realtà locale”, “tramite la partecipazione”. A livello nazionale, già il Testo unico sull’immigrazione (art. 4 bis) definiva l’integrazione come “quel processo finalizzato a promuovere la convivenza dei cittadini italiani e di quelli stranieri, nel rispetto dei valori sanciti dalla Costituzione Italiana, con il reciproco impegno a partecipare alla vita economica, sociale e culturale della società”.[2]
In pratica l’integrazione si misura su una serie di fattori che sono la casa, il lavoro, la famiglia, la scuola e il welfare, la cittadinanza. L’integrazione così com’è declinata attualmente, al di là di quello che si dichiara a livello ufficiale, sembra comunque sottointendere un concetto di cittadinanza (vedi) come assimilazione, in cui i migranti devono adottare la cultura nazionale della società in cui migrano per essere accettati. Al contrario del multiculturalismo che invece consente l’appartenenza al nuovo Stato mantenendo le proprie culture. Secondo gli esperti internazionali Castles e Miller, “le politiche che negano la realtà dell’immigrazione portano all’emarginazione sociale, alla formazione di minoranze e al razzismo”. Continuano affermando che il modo migliore per prevenire i conflitti sociali è “garantire agli immigrati permanenti pieni diritti in tutti gli ambiti sociali: si tratta di rendere la cittadinanza facilmente disponibile, persino se questo può portare alla doppia cittadinanza”. E, sempre secondo gli studiosi, “al fine di far fronte alla difficile esperienza dell’insediamento in una nuova società, gli immigrati e i loro discendenti hanno bisogno delle proprie associazioni e reti sociali, così come della propria lingua e cultura”. Castles e Miller sottolineano che all’inizio degli anni Novanta l’assimilazionismo era sulla via del tramonto e le società civili democratiche si avviavano al multiculturalismo. Ma poi c’è stato un allontanamento da questo approccio a causa di due elementi: la paura del terrorismo dopo l’11 settembre e gli attacchi a Madrid e Londra; il fatto di “addossare la responsabilità alle minoranze etniche perché si riuniscono tra loro e rifiutano di integrarsi”. Così, scrivono i due autori, “Svezia, Olanda e Regno Unito hanno ribattezzato le loro politiche ponendo maggiore enfasi a integrazione, coesione sociale e fondamentali valori nazionali”. Alla fine, quello che è emerso come approccio dominante per affrontare la questione della disuguaglianza dei migranti in tutta Europa è il modello dell’integrazione individuale che si ottiene con contratti di integrazione e test di cittadinanza obbligatori. Ma, avvertono Castles e Miller, “l’assimilazione può perpetuare l’emarginazione e il conflitto” e “questa situazione in realtà riflette la ritrosia delle società ospitanti” nell’affrontare la questione “rappresentata dalle culture radicate di razzismo, eredità del colonialismo e dell’imperialismo. In un momento di tensione come la ristrutturazione economica o i conflitti interni, il razzismo può portare all’eslcusione sociale, alla discriminazione e alla violenza contro le minoranze”.[3]
Frasi fatte
Mito: gli immigrati non vogliono integrarsi
Realtà: Lo stereotipo di addossare la colpa agli stranieri per la mancata integrazione è stato smentito da numerori studi e ricerche. L’integrazione è formalmente dichiarata nel nostro ordinamento, ma nella pratica si tratta di “un percorso a ostacoli” come riporta un working paper del C.I.R.S.D.I.G (Centro Interuniversitario per le ricerche sulla Sociologia del Diritto e delle Istituzioni Giuridiche)[4]. In realtà non sono i migranti a non volersi integrare, bensì, scrivono i ricercatori, “la condizione sfavorevole è ineliminabile perchè aprioristicamente sancita per legge”. Le politiche per l’integrazione non raggiungono gli obiettivi perché esiste un gap, uno svantaggio che parte dalla diversa condizione giuridica dei migranti rispetto ai cittadini. Questo accade perché la legge sull’immigrazione stabilisce che la condizione di “regolare” e il suo mantenimento nel tempo costituisce la condizione sine qua non per accedere ai diritti di cittadinanza formalmente riconosciuti dall’ordinamento. “In tale modo- scrivono i ricercatori - il legislatore demarca la linea di confine, ossia le differenze, tra la condizione del cittadino così detto autoctono, nostrano, dal valore assoluto, e quella del migrante, cittadino di serie B, ossia dal valore condizionato dal possesso di determinati requisiti”. Lo svantaggio e la difficoltà di integrazione vengono sanciti per legge, stabiliti dallo Stato stesso, non dai migranti. Esistono in questo diversi livelli di esclusione/inclusione. L’esclusione totale: quando un diritto non viene riconosciuto dall’ordinamento giuridico e viene richiesta la cittadinanza italiana quale requisito necessario per il suo esercizio (es: diritto di voto) o per accedere ad un determinato beneficio di legge. L’esclusione sostanziale: quando il diritto viene riconosciuto dall’ordinamento, ma non viene applicato da chi è istituzionalmente (enti locali) preposto alla sua erogazione. Si tratta del cosiddetto “razzismo istituzionale (vedi alla voce ‘razza/razzismo’), attraverso l’adozione di regolamenti, procedure, criteri, che escludono i cittadini migranti da un beneficio o servizio particolare (ad esempio, il bonus bebè riservato alle famiglie italiane). Questa forma di discriminazione ha molti casi registrati in Italia negli ultimi anni. L’inclusione parziale: quando il diritto viene riconosciuto a livello giuridico ma in modo selettivo e non universale, ossia a condizione della sussistenza di determinati requisiti (es. la carta di soggiorno o il permesso di soggiorno valido per due anni): questo crea, all’interno della stessa popolazione migrante, una differenziazione di trattamento tra chi è in possesso di questi requisiti e chi, invece, ne è sprovvisto. L’inclusione totale: quando il diritto viene riconosciuto dall’ordinamento e ne viene garantita la fruibilità attraversopolitiche attive volte a favorirne l’esercizio e l’accesso.[5]
[1] È l'opinione espressa dalla nota sociologa al convegno su Immigrazione e Cittadinanza a organizzato a Palazzo San Macuto dalla Fondazione Roma Mediterraneo e dall'Aic, associazione investire in cultura, il 29 aprile 2009, riportata da Redattore Sociale.
[3]Citazioni da Castles S., Miller M. J., L’era delle migrazioni. Popoli in movimento nel mondo contemporaneo, Odoya Bologna 2012, pagg. 306-308
Le imprese straniere (comprensive di imprese individuali con titolari nati all’estero e di società di persone o di capitali in cui ad essere nata all’estero è oltre la metà dei soci o degli amministratori) sono 477.519, il 7,8 per cento del totale nazionale, con un aumento annuale del 5,4 per cento, nonostante il maggior costo degli interessi sui prestiti da loro fronteggiato. Si tratta di imprese che producono un valore aggiunto stimato in 7 miliardi di euro, che meriterebbero un maggiore supporto, tanto più che gli aspiranti imprenditori immigrati sono disponibili all’impegno in campi innovativi e predisposti ad attività di import/export che possono essere di beneficio tanto all’Italia quanto ai paesi di origine. E' quanto rilevato dal Dossier Statistico Immigrazione 2013 realizzato da Idos per Unar.
Il dossier si sofferma anche sui costi e i benefici dell’immigrazione per le casse statali. Il rapporto tra la spesa pubblica per l’immigrazione, da una parte, e i contributi previdenziali e le tasse pagate dagli immigrati, dall’altra, mostra che, anche nell’ipotesi meno favorevole di calcolo (quella della spesa pro-capite), nel 2011 gli introiti dello Stato riconducibili agli immigrati sono stati pari a 13,3 miliardi di euro, mentre le uscite sostenute per loro sono state di 11,9 miliardi, con una differenza in positivo per il sistema paese di 1,4 miliardi. “L’obiezione ricorrente secondo cui l’integrazione degli immigrati costa troppo all’Italia, quindi, non trova riscontro nell’analisi delle singole voci di spesa e nel quadro che ne deriva -sottolineano i ricercatori -. È vero, invece, che l’Italia sostiene spese di rilevante portata, più che per le politiche di integrazione, per interventi di contrasto all’irregolarità o di gestione dei flussi, in un’ottica emergenziale".
Fondazione Ismu - (scheda tematica) Le dimensioni dell´integrazione in Italia: gli atteggiamenti degli italiani [1]
Nel 2011 il tema dell’immigrazione è tornato prepotentemente in primo piano anche sulla scena politica internazionale, soprattutto a causa delle rivoluzioni della primavera araba e il conseguente flusso migratorio dai paesi nordafricani verso Lampedusa. Secondo i dati dell’Osservatorio di Pavia, nel primo quadrimestre del 2011, ad esempio, l’immigrazione nei telegiornali italiani ha ricevuto un’attenzione pari al 6%, contro una media europea del 2% [2]. Nei telegiornali europei, la questione migratoria non è tematizzata in modo ansiogeno – con una media europea pari al 3,2% di tutte le notizie inerenti gli immigrati – in Italia essa ha occupato l’agenda giornalistica con notizie “allarmistiche” nel 14% dei casi.
Sul versante internazionale, l’indagine TTI[3], ha evidenziato come gli italiani si dimostrino tra i più scettici nei confronti dell’immigrazione. Se nel 2008 più del 50% degli italiani affermava di ritenere eccessivo il numero di immigrati nel paese e l’80% si diceva preoccupato dall’immigrazione clandestina, nel 2010 la percezione degli immigrati è ulteriormente peggiorata: nel 2009 solo il 34% degli italiani riteneva che gli immigrati regolari contribuissero all’aumento della criminalità, mentre nel 2010 tale opinione viene espressa dalla netta maggioranza (56%), percentuale sostanzialmente analoga a quella relativa agli italiani convinti che gli immigrati irregolari contribuiscano ad aumentare la criminalità (57%)
Rispetto agli adulti, la diffidenza dei giovani nei confronti degli immigrati sembra –paradossalmente – essere maggiore, come si rileva da una ricerca realizzata da GfkEurisk.
Per circa i due terzi dei giovani intervistati – il 76% –, infatti, la presenza di stranieri immigrati nel nostro paese è ritenuta essere “numerosa” o “molto numerosa”, ma solo il 22% degli intervistati vede in maniera positiva questo fenomeno. Sono numeri più negativi di quelli riferiti agli adulti, per la maggior parte dei quali – il 71% – la presenza di stranieri nel nostro paese è “numerosa” o “molto numerosa”, ma il 35% ne ha un’opinione positiva. Non sono però tanto le differenze culturali e religiose a spaventare i giovani, ma l’aumento dell'incertezza quotidiana, dovuto primariamente alla criminalità e alla precarietà del proprio futuro, soprattutto lavorativo. Quello che sembra emergere dalle indagini condotte negli ultimi anni è come sia il senso di insicurezza a percepita influire in modo negativo sulla percezione del fenomeno migratorio: l’insicurezza per la propria incolumità – rafforzata dalla percezione di un nesso tra immigrazione e criminalità –, l’insicurezza generata dalla crisi economica e occupazionale, che vede gli immigrati quali pericolosi competitor nell’accesso ai posti di lavoro, e l’insicurezza alimentata dal declino del sistema di welfare[4].
[1] LE DIMENSIONI DELL’INTEGRAZIONE IN ITALIA GLI ATTEGGIAMENTI DEGLI ITALIANI di Giovanni Giulio Valtolina, dal sito www.integrazionemigranti.gov.it
[2]Osservatorio di Pavia, ”Notiziabilità” della sicurezza nei telegiornali in Italia e in Europa, in Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, La sicurezza in Italia e in Europa. Significati, immagine e realtà. Indagine sulla rappresentazione sociale e mediatica della sicurezza in Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna”. Report 1/2011, Luglio 2011.
[4] Eurispes, 23° Rapporto Italia 2011, Roma, Eurolink, 2011 e Gfk-Eurisko, Gli atteggiamenti verso l'integrazione sociale degli stranieri, rapporto di ricerca.
In questo caso consigliamo, laddove possibile, di usare il termine inclusione al posto di integrazione. Ricordando che non sono sinonimi, il motivo per cui ne suggeriamo un uso più frequente è proprio per il diverso significato delle due parole, come spiegato nella scheda sull’uso del termine. Inclusione è appunto un concetto che abbraccia inclusivamente lo scambio fra le culture ed è meno ‘etnocentrico’ di integrazione, che invece guarda la questione delle disuguaglianze dei migranti da una prospettiva prettamente occidentale.
Qui di seguito, un brutto esempio di editoriale di una testata nazionale che lega in modo del tutto fuorviante il tema della cittadinanza agli stranieri con quello del terrorismo e con l’Islam. Si prendono a pretesto dei casi di cronaca internazionali per suscitare nell’opinione pubblica l’equazione (del tutto falsa): immigrato (soprattutto se musulmano) = terrorista. In questo articolo è evidente come il termine integrazione con il significato di ‘assimilazione’ è stato usato ampiamente in una cornice allarmistica e collegata al tema della sicurezza, rafforzando lo stereotipo secondo cui sono gli stranieri che ‘non vogliono’ integrarsi.
Fermiamo gli immigrati islamici
Riesplode il terrorismo servono misure di emergenza
Al Qaida rivendica il sequestro dei due italiani in Mauritania e l’attentato all’aereo Usa. Negli aeroporti è allarme rosso. Ma in Italia, invece di selezionare l’ingresso degli stranieri, si presenta una legge per dare la cittadinanza facile a tutti.
(quotidiano nazionale, martedì 29 dicembre 2009)
Imprudenti e intempestivi, álcuni campioni dellafuga in avanti hanno presentato in Parlamçnto una legge per accorciare i tempi di concessione della cittadinanza italiana agli stranieri. La discussione, per effetto di un rinvio provvidenziale, si svolgerà a marzo. Tre mesi non sono lunghi ma sufficienti per un ravvedimento. Altrimenti ci troveremo in una situazione paradossale. Da una parte l'Italia che apre a chiun-que sia in regola con le scadenze burocratiche; dall'altra gli Stati Uniti e molti altri Paesi responsabili che applicano misure restrittive onde evítare1'intrufolarsi di pericolosi terrori sti nel tessuto sociale, pronti a colpire a tradimento l’Occidente ospitale e scriteriato.
C’è poco da scherzarè su questa materia propriamente definita esplosiva. Nelmomemo in cui prevale il buonismo di quanti, a destra e a sinisira, intendono favorire I'integrazione degli stranieri (regalando loro la cittadinanza) può succedere di tutto, come insegna l'esperienza. L’integrazione non è questione di anzianità, ma di adcsione ai costumi, alla civiltà, allo spirito della nazione cui si chiede di appartenere. Se un immigrato, pur lavorando, pur avendo una fissa dimora e una fedina penale intonsa, non accetta appieno la cultura del Paese in cui vive non è degno di esserne cittadino. La padronanza della lingua, la conoscenza della storia, insomma una istruzione di base non sono optional, ma requisiti obbligatori per chi aspiri ad essere italiano a ogni effetto. Siamo sicuri che tutti i musulmani li posseggano? A giudicare dal comportarmcnto di molti di essi non si direbbe. […]
Integrarsi Vs Delinquere è un tema clou anche in televisione.
Adattarsi è complicato!
Trasmissione televisiva nazionale, ottobre 2011
Un giudice deve emettere una sentenza su questo caso: Il direttore di una stazione di servizio costringe Daro, una mamma straniera, a cambiare il suo bambino fuori dal locale. Lei chiede un risarcimento perché si sente discriminata. Il giudice le dà torto applicando le leggi vigenti.La trasmissione ha suscitato le proteste degli ascoltatori e la segnalazione del caso all’Ufficio nazionale antidiscriminazioni non per la sentenza sul caso ma perché dopo avere letto la decisione davanti alle telecamere, il giudice ha dichiarato le seguenti frasi dirette alla mamma africana: “Daro mi stia sentire: per cultura e tradizione il popolo italiano non è razzista. Chiunque viene in Italia e si vuole integrare, viene accolto a braccia aperte, Chiunque viene in Italia e pretende di delinquere, è bene che torni a casa sua". Questa frase è stata ritenuta offensiva da chi ha fatto la segnalazione per le seguenti ragioni: a) il giudice non doveva esprimere opinione personale politica dopo la sentenza per influenzare il pubblico; b) il commento del giudice non era inerente al caso (il caso parlava di altro); c) chi sbaglia deve essere punito dalla legge italiana. "Tornare a casa sua" è vissuto come discriminatorio. Molte persone si sono sentite offese. Se uno lavora regolarmente e puo’ sbagliare non deve tornare al paese di origine ma pagare con le leggi del paese di accoglienza. Il rimpatrio coatto è previsto solo per gli irregolari. (vedi)
Infine, un ultimo caso, in cui ancora una volta l’uso della parola ‘integrazione’ ha un forte connotato negativo. Una lite familiare viene trasformata in uno scontro fra religioni.
IL CASO / L'INTEGRAZIONE DIFFICILE Musulmana litiga col cognato e spezza il crocifisso di casa
Fra i due da tempo non corre buon sangue per questioni religiose. Già due mesi fa avevano avuto una violenta discussione, quando lui aveva fatto benedire la casa. La situazione è tornata a degenerare, ed è intervenuta la Polizia
(quotidiano locale, 8 agosto 2009)
Modena, 8 agosto 2009. Un diverbio legato alla religione è sfociato in una violenta lite fra una donna musulmana e il cognato modenese. La donna ha spezzato il crocifisso del cognato, e la lite è divenuta così accesa che è dovuta intervenire la Polizia.
E' accaduto ieri mattina in un'abitazione di Cittanova di Modena: pare che da tempo non corra buon sangue fra la donna (32enne originaria del Marocco) e l'uomo, che abitano in appartamenti vicini. E la religione sarebbe un motivo di forte contrasto: a giugno la donna si era infuriata, quando il cognato aveva permesso a un sacerdote di impartire la benedizione alla casa, e già allora si era reso necessario l'intervento della Polizia.
Ieri mattina un nuovo diverbio: la donna marocchina ha spezzato il crocifisso appeso al muro esterno della casa, ha aggredito il fratello del marito, e lo ha graffiato. Il cognato della donna sta valutando se sporgere denuncia.
Sul sito internet della testata sono stati pubblicati molti commenti razzisti sotto questa notizia.