Colf
Nasce dall'unione delle parole Collaboratore (o Collaboratrice) Familiare e ormai da decenni indica tutti i lavoratori domestici, sostituendo termini come ‘domestica’ o ‘donna di servizio’. Furono le Acli che nel 1964 inziarono da definirle ‘collaboratrici domestiche’, da cui il termine ‘colf’. Il primo contratto collettivo nazionale è del 1973. Il lavoro domestico, importante ma invisibile, nella maggiorparte dei paesi del mondo è ancora considerato un “non lavoro”. Coinvolge secondo alcune stime 100 milioni di lavoratori nel globo, in prevalenza donne migranti, cui si nega la dignità di lavoratori e di persone. In Italia le stime parlano di oltre un milione e mezzo di lavoratrici e lavoratori domestici, la maggiorparte sono donne straniere, ma con la crisi anche le italiane si stanno riavvicindando a questo mestiere. Lo scorso giugno a Ginevra è stata adottata dall’Organizzazione internazionale del lavoro la “Convenzione internazionale sulle lavoratrici e i lavoratori domestici del 2011”. Chiedendone la ratifica in un appello indirizzato al Capo dello Stato Giorgio Napolitano, le Acli Colf hanno messo l’accento sul fatto che il contributo silenzioso delle colf in 150 anni di storia d’Italia non viene ancora riconosciuto.
Il termine sta a indicare infatti un’evoluzione nella storia di questo mestiere svolto all’interno delle case italiane. “Dalle balie alle serve del passato, dalle colf alle ‘badanti’ di oggi, abbiamo contribuito a costruire questo Paese e ancora lo teniamo insieme con il nostro lavoro” ha affermato in occasione dell’appello Raffaella Maioni, responsabile nazionale delle Acli Colf, l’associazione professionale delle Acli che da oltre 60 anni si occupa della tutela delle lavoratrici domestiche. La parola colf testimonia anche i cambiamenti della lingua, soprattutto quando si tratta di termini che designano situazioni di disagio o di mansioni poco qualificanti, che con il tempo tendono a diventare dispregiativi e a essere sostituiti da altri.
Ne è un esempio proprio serva. Alla fine del Settecento aveva una connotazione neutrale che faceva riferimento semplicemente al suo ruolo. “Durante il Novecento il termine serva acquisisce una connotazione negativa e viene sostituito dapprima da un aggettivo con uso nominale domestica, poi dalle più recenti espressioni complesse collaboratrice domestica o collaboratrice familiare da cui l’acronimo colf in qualche modo meno trasparente e forse per questo meno connotato negativamente”[1].
Come per le collaboratrici familiari (o badanti), il lavoro delle collaboratrici domestiche è un comparto tradizionalmente appannaggio dei lavoratori stranieri e, in particolare delle donne soprattutto di alcune collettività.[2]
Tate, colf e badanti sono donne globali. Il lavoro femminile migrante ha spostato milioni di donne dai paesi poveri verso quelli ricchi per coprire il ‘bisogno di assistenza’ delle famiglie occidentali, in cui ormai la donna lavora quasi sempre fuori casa.[3]
Sull’immagine delle donne filippine “brave domestiche”, la giornalista Paula Baudet Vivanco ha intervistato due ricercatrici filippine Charito Basa e Rosalud Jing de la Rosa, autrici di “Io, noi e loro: realtà e illusioni delle colf filippine”, pubblicata nel 2004[4]. Dall’indagine emerge che in patria le colf filippine sono considerate eroine del nostro tempo. “Quello che che viene da chiedersi è: un datore di lavoro italiano definirebbe mai la propria colf un’eroina dei giorni moderni? Nella relazione interpersonale tra Colf e datore di lavoro esiste una difficoltà da parte di quest’ultimo nel voler osservare e riconoscere qualcosa di diverso dalla brava domestica […] al di là degli stereotipi – affermano le autrici nell’intervista – Allo stesso tempo, nelle Filippine, proprio il governo cerca di non mostrare il lato più duro della vita delle immigrate fuori dal Paese. Risultano importanti solo gli aspetti più eroici della questione. A cominciare dal fatto che queste donne guadagnano tanti soldi per mantenere le famiglie e, in fondo, l’intera economia. E viene diffuso anche il messaggio che loro devono sentirsi anche fortunate perché riescono a partire, quando altri neanche questo possono fare”.
[1] Giusti G. e Regazzoni S. (a cura di).Mi fai male, Cafoscarina editrice, 2009. Il testo propone anche l’esempio dello spazzino divenunto nel tempo netturbino e poi operatore ecologico.
[2] Lai -momo e Idos, Comunicare l’Immigrazione – guida pratica per gli operatori dell’informazione, Roma 2012
[3] Ehrenreich B. e Russel Hochschild A. (a cura di), Donne globali. Tate, colf e badanti, Feltrinelli, Milano 2004
[4] Cfr. intervista su www.migranews.it/dossier2/donne.php
In media hanno 42 anni, ma l’età si sta abbassando con le nuove ondate migratorie, la maggiorparte sono donne, la provenienza è nel 60% dell’est Europa, soprattutto romene, il 30% viene dal Sud America, il 10% sono italiane. Il tipo di lavoro svolto è di tue tipi: a ore e co-residente. Meno di un terzo lavora con il contratto. “La sanatoria del 2009 ha esaurito gli effetti benefici, siamo tornati a livelli pre -sanatoria con almeno il 70% di sommerso – spiega Sergio Pasquinelli ricercatore sociale dell’Istituto di ricerca sociale di Milano - meno di tre su dieci hanno un contratto di lavoro e con le ore dichiarate corrispondenti a quelle lavorate”.
Il numero dei collaboratori domestici in Italia è cresciuto dal 2000 al 2010 del 44%. Colf e assistenti familiari (badanti) sono 1,5 milioni (28% italiani e 72% stranieri), il 62% lavora in nero. Una famiglia su dieci fa richiesta di servizi di assistenza e cura. Il numero delle famiglie è passato dai 2 milioni del 2003 ai 2 milioni e mezzo del 2010 (+27%)[1]. Circa il 42% degli stranieri che vivono nel nostro paese fa questo tipo di mestiere. Diverse le situazioni di assistenza: nell’80% dei casi ci si occupa di pulizia della casa; un 42% si occupa anche di assistenza agli anziani; il 28% delle persone non autosufficienti; nel 23% dei casi l’assistenza è anche medica e il 21% fa anche assistenza notturna. E’ quanto emerge dall’indagine del Censis “Dare casa alla sicurezza” (2010).
Il profilo più diffuso è quello della giovane lavoratrice di origine est europea, nel 44% dei casi diplomata o laureata, contro meno del 26% dei collaboratori domestici italiani. La stessa indagine rileva che nel 40% dei casi di tratta di lavoratori in mero, mentre il 22% è la quota di lavoro grigio, cioè dichiarato parzialmente, con un risparmio per le famiglie e un danno per le tutele previdenziali dei lavoratori domestici. Il Censis stima che su dieci ore lavorate dagli occupati nel settore, sei sono prive di copertura previdenziale.[2]
Un lavoro rischioso. L’indagine del Censis rivela che il 44,3% dei lavoratori intervistati dichiara di avere avuto almeno un incidente sul lavoro nell’ultimo anno. E tra gli stranieri l’incidentalità è più alta: ha riguardato il 46,3% contro il 39,6% degli italiani. Nella casistica degli incidenti dei collaboratori domestici, gli episodi più frequenti sono bruciature (18,7%), scivolate (16,1%), cadute dalle scale (12,2%), ferite provocate dall’utilizzo di coltelli (8,6%), strappi e contusioni (7,6%), intossicazioni con prodotti per pulire (4,2%) e scosse elettriche (3,6%).