Per molti anni in Italia è stato difficile incontrare questi due termini nel discorso pubblico. Ma tra il 2010 e il 2011, diverse proteste e rivolte dei lavoratori migranti contro i caporali hanno portato alla ribalta il tema, fino all’introduzione del reato penale di caporalato il 14 settembre 2011. Le proteste simbolo sono tre. Il 7 gennaio 2010 i migranti subsahariani raccoglitori stagionali di agrumi a Rosarno, nella piana di Gioia Tauro (Rc), si sono ribellati agli uomini della ‘ndrangheta che gli tendevano agguati a fucilate. Il ferimento di quattro africani ad opera di un commando a bordo di un suv è stata la miccia che ha dato il via alla rivolta, nata contro la violenza e le terribili condizioni di vita e di lavoro: migliaia di persone erano ammassate in ex fabbriche abbandonate, sfruttate in nero per 20 euro al giorno e spesso non pagate affatto (consulta anche la voce Rosarno). La seconda tappa, figlia anche dell’esperienza di Rosarno, è il primo sciopero in Italia contro il caporalato. All'alba di venerdì 8 ottobre 2010 circa mille africani, coordinati dagli attivisti del centro sociale “ex Canapificio” di Caserta e dai missionari comboniani, hanno incrociato le braccia, indossando cartelli con lo slogan "Oggi non lavoro a meno di 50 euro" e portandoli sulle rotonde stradali della via Domiziana. Le rotonde sono chiamate Kalifoo Ground, perché sono i luoghi dove si reclutano gli “schiavi” che lavorano a giornata. L'obiettivo dello sciopero è che non siano più i caporali a determinare il prezzo della giornata ma i lavoratori stessi. Il giorno seguente il 9 ottobre si è tenuto un corteo a Caserta per i diritti e il permesso di soggiorno. Infine, a conclusione di un lungo percorso, nell’estate del 2011 a Nardò (Le), nel cuore del Salento, c’è stato l’episodio più significativo di lotta per i diritti che, inconsapevolmente, ha unito le due esperienze di ribellione e di sciopero, questa volta però spontaneo. Per la prima volta un gruppo di braccianti ha fatto una lunga protesta perché il caporale gli aveva chiesto di aumentare il carico di lavoro. Lo sciopero di Nardò, portato avanti con molti rischi per la propria incolumità da alcune centinaia di raccoglitori di angurie e pomodori, non a caso è nato all’interno della masseria Boncuri. Dall’estate del 2010, la masseria ristrutturata con fondi del comune, era gestita nel periodo della raccolta dalle associazioni Finis Terrae e Brigate di solidarietà attiva. Squadre di volontari si alternavano con turni di quindici giorni per dare ospitalità ai braccianti agricoli, che altrimenti avrebbero dormito sotto gli alberi di ulivo. C’erano dei posti letto a castello e uno spazio esterno per le tende. La possibilità di avere acqua, elettricità e pasti. Volontari e lavoratori stagionali condividevano lo stesso spazio. Ma soprattutto, per due anni, gli attivisti della masseria hanno svolto un’opera di sensibilizzazione sui diritti nei confronti dei braccianti stranieri, informandoli sulle paghe previste dal contratto provinciale per l’agricoltura. In molte occasioni, i lavoratori si sono presentati sui campi indossando le T-shirt della masseria con la scritta “Ingaggiami contro il lavoro nero”. E alla fine, i numeri degli ingaggi regolari, cioè i contratti agricoli stagionali, sono aumentati. Questo tuttavia non ha scalfito il potere dei caporali. “E’ grazie allo sciopero che siamo arrivati alla legge contro il caporalato” spiega Yvan Sagnet, camerunense che è stato il portavoce dei braccianti in sciopero. Yvan è uno studente di ingegneria del politecnico di Torino, andato per la prima volta in Puglia a raccogliere i pomodori per pagare le tasse universitarie. “Lì ho scoperto il caporalato, non avevo mai sentito parlare di caporali – racconta - Il primo giorno ho dovuto dormire per terra perché le tende erano già occupate dai miei compagni, questo è stato uno choc, non avevo mai visto questa cosa neanche in Africa. C’erano ghanesi, tunisini, marocchini, burkinabè, maliani. Mi hanno spiegato come funziona l’ingaggio per lavorare e ho incontrato il caporale dopo due giorni, mi ha chiesto i documenti originali per andare a fare il contratto, l’ho trovato strano, perché a Torino quando lavoro bastano le fotocopie – continua - lo ha chiesto ad altre 70 persone e dopo 10 giorni è ritornato. Sono rimasto bloccato lì perché il mio permesso di soggiorno era nelle mani del caporale”.
Il caporalato è il sistema con cui viene prodotto il made in Italy agroalimentare. Dietro i prodotti più famosi del paese: dai pomodori al vino, alle mozzarelle di bufala, c’è lo schavismo. Sagnet descrive una giornata tipo: “Il lavoro inizia alle tre di notte, i caporali vengono con i furgonicini e siamo costretti a salire perchè fanno l’appello. Stiamo in 25 in un furgoncino di 10 posti senza finestrino, non conosciamo la strada dalla masseria al campo e non puoi andare a lavorare con un altro mezzo di trasporto, perché il caporale deve prendere i cinque euro di trasporto. Ci sostringono a pagare il pranzo, tre euro e cinquanta per un panino”. Tutto viene detratto dalla paga giornaliera. “Ci pagano a cottimo – continua Saignet - tre euro e cinquanta a cassone, un cassone pesa fra i 400 e i 550 chili, per riempirlo ci vuole un’ora o anche di più, dipende dalla velocità di ognuno. Il primo giorno di lavoro nel tempo in cui ne ho riempito uno, un compagno esperto ne aveva completati cinque, questo è un elemento psicologico che fa male”. La vita nei campi è segnata dalla mancanza di libertà negli spostamenti, nel trovare l’ingaggio, nell’approvigionamento idrico.“Lavoriamo senza guanti, i piedi e la schiena ci fanno male, non ci sono medici. Se chiami il pronto soccorso perché qualcuno si è fatto male, non sappiamo dare le indicazioni su dove si trova il campo, perché ci siamo andati con il caporale nei furgonicini senza finestrini. A quel punto i caporali chiedono 20 euro per accompagnare il lavoratore malato al pronto soccorso”.
Su tutto questo è stata organizzata la protesta. “ E’ una conquista la legge sul caporalato, portata dallo sciopero dei migranti sostenuto dalla Cgil – spiega ancora Sagnet - Ma non si deve abbassare la guardia, c’è ancora tanto da fare: è difficile dimostrare la colpevolezza del caporale davanti a un tribunale. Il reato di calndestinità impedisce le denunce”. Una questione su tutte: “i caporali sanno che il permesso di soggiorno è l’arma di ricatto”.
Nel libro “Voi li chiamate clandestini” di Laura Galesi e Antonello Mangano è descritta un’indagine della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria a Rosarno del maggio 2009 che ha coinvolto tre imprenditori calabresi, i quali si servivano di due caporali bulgari per sfruttare la manodopera. Le accuse sono diverse: estorsione, violenze, induzione alla prostituzione e riduzione in schiavitù. “Stai zitto, non ti lamentare, altrimenti vado in Questura a denunciarti e ti mandano in Marocco!”- raccontano i due autori – Hicham ha chiesto 500 euro, quanto gli spetta dopo 24 giornate di lavoro nei campi. Non gli hanno dato nulla. A Sonya, bulgara, è andata ancora peggio. Le hanno sequestrato i documenti e la costringevano a lavorare duramente. E a prostituirsi, intascando tutti i soldi. Abdrrahim ha lavorato per 44 giorni. Ha chiesto di essere pagato, circa mille euro, ma gli hanno risposto a pugni e calci”.[1]
Lo sfruttamento colpisce ancora di più le donne. Magdalena Jarczak, della Flai Cgil, racconta la realtà di Foggia. “Dai lavoratori spesso il caporale viene visto come una figura benefica che risolve il problema del lavoro, ci chiedono di non agire perché temono di perdere il lavoro, prevale sempre di più l’idea di un lavoro purchè ci sia, senza tutele e senza diritti – dice - Sono arrivata in Italia nel 2001 con un caporale che non sapevo esserlo, era un mio amico. So cosa vuol dire stare in un casolare abbandonato senza luce, acqua e senza cibo, ricordo di quei giorni non tanto la fame ma l’incubo di essere intrappolata in un sistema senza via d’uscita. Non ho denunciato perché non avevo il permesso di soggiorno, ci sono tanti altri polacchi scomparsi di cui i familiari aspettano ancora il ritorno”.
Anche Sagnet è diventato un sindacalista della Cgil. Il suo compito è di andare fra i braccianti durante la raccolta e fare sindacato di strada. Sul modo in cui i media raccontano il caporalato dice: “i media trattano i braccianti stranieri da clandestini (vedi), vogliono usare questa parola perché è un’abitudine invece di usare le parole giuste che raccontano i fatti. Bisogna essere molto attenti. Si devono usare molto di più le parole ‘diritti, fratellanza, unità’, le persone devono essere viste tutte uguali, condividiamo lo stesso territorio, abbiamo tutti gli stessi obiettivi, quello di vivere degnamente”.
La parola ‘caporalato’ è stata dunque ‘sdoganata’, ha detto Susanna Camusso, leader della Cgil che ha lanciato nel 2011 la campagna del sindacato “Stop caporalato”. “Sembra di ascoltare un pezzo di passato- ha affermato- Sentendo i racconti di Ivan e Magdalena viene in mente la parola schiavitù che non è solo quella delle piantagioni degli Stati Uniti, è schiavitù se non hai il permesso di soggiorno, se non sei libero di muoverti, se la tua paga non dipende da quello che produci ma da quanto guadagna il caporale”.
Lentamente, la questione è approdata in televisione in prima serata su Rai tre all’interno della trasmissione “Che tempo che fa”, il 5 novembre 2012 con un lungo monologo di Roberto Saviano e un breve intervento di Yvan Sagnet, descritto dallo scrittore di Gomorra come “un ragazzo che si è opposto al potere criminale” e che “ si sta battendo per un’Italia migliore”.
Saviano ha spiegato il caporalato parlando della filiera agroalimentare “Chi ci guadagna davvero giocando al ribasso non sono i braccianti, né i produttori agricoli - ha detto - è la grande distribuzione organizzata che porta questi prodotti sulle nostre tavole. Impongono i prezzi”. E ha raccontato lo sciopero di Nardò come “una questione di dignità, non di danaro”. Sul caporalato ha concluso: “Una pratica che esiste da oltre un secolo, finalmente è stata considerata reato, grazie a Yvan Sagnet e ai braccianti stranieri.”
Il caporalato non è limitato all’agricoltura.Secondo la Cgil “la manodopera è l’ultimo grande business delle organizzazioni criminali in edilizia” perché “a causa della crisi, dell’assenza di investimenti, della frammentazione e del sistema di gare al massimo ribasso, esse hanno potuto investire indisturbate denaro da ripulire e creare proprie imprese”.
Frasi fatte:
Mito: il caporalato riguarda solo gli stranieri
Realtà: La Cgil ha spiegato che il tema del caporalato in edilizia è esteso anche agli italiani. “Non si può sostenere che il caporalato c’è perchè sono arrivati immgranti- ha detto il segretario Susanna Camusso - il caporalato è antico nel tempo e avrebbe dovuto essere debellato”. Lavoro nero e caporalato esistono anche nei cantieri, con 150mila lavoratori in nero e sotto ricatto, sia italiani sia stranieri, cui viene imposto di aprire la partita Iva, di accettare contratti part time che nascondono un impiego a tempo pieno con una paga ‘fuori busta’ in nero, di accettare un sottoinquadramento, di dichiarare meno ore lavorate, di ricorrere ai permessi in caso di infortunio non grave.
Mito: è un fenomeno del Mezzogiorno
Realtà: esiste a Roma e nel Lazio, a Milano, in Veneto oltre che in Puglia, Sicilia, Calabria e Campania. Per le stime sul fenomeno in tutta Italia consulta la scheda dati. Ci sono consistenti settori della nostra economia in cui non c’è un collocamento pubblico e si procura il lavoro con forme non democratiche, coercitive, ricattatorie.
Mito: gli immigrati ci rubano il lavoro
Realtà: “La storia di Yvan Sagnet ha dimostrato che gli immigrati arrivano in Italia non solo a fare lavoro che gli italiani non vogliono più fare ma anche a difendere diritti che gli italiani non vogliono più difendere - ha detto Roberto Saviano su Rai Tre[2] - Yvan ha dimostrato che la comunità migrante arrivata in Italia può anche essere questo: linfa nuova, trasformazione, diritto, portare qualcosa che il Paese non ha più. Non solo lavoro”. Spesso i giornalisti compiono l’errore di dipingere i braccianti stranieri, irregolari e non, come schiavi, ultimi della terra. In realtà dal 2008 in poi, sono stati protagonisti delle uniche ribellioni di massa contro la violenza mafiosa e lo sfruttamento. “Gli africani sono insorti. Gli italiani mai” ricordano ancora Galesi e Mangano nel loro libro, raccontando la rivolta di Castel Volturno come reazione alla strage di san Gennaro del 18 settembre 2008 quando un commando di casalesi scissionisti lasciò a terra sei ghanesi morti e uno ferito grave. La reazione della comunità africana non si fa attendere, con dinamiche molto simili anche a Rosarno, il 7 gennaio 2010. Quattro africani feriti a fucilate da un commando di ‘ndranghetisti su un suv. Rivolta dei lavoratori stranieri per le strade del paese che fa il giro del mondo. Contro rivolta dei rosarnesi a sprangate e fucilate. In tre giorni spariscono 2500 africani da tutta la piana di Gioia Tauro, trasferiti dalla polizia o fuggiti dalle violenze. Una pagina nera della storia d’Italia. Come a Castel Volturno, la testimonianza dell’unico sopravvissuto porta in carcere gli stragisti, a Rosarno arrivano le denunce dei braccianti neri, anche dopo la fuga e le fucilate. La collaborazione degli stranieri alle indagini porta agli arresti degli sfruttatori, in una terra in cui per gli italiani l’omertà è la regola per sopravvivere.
Anche a Locri, gli indiani Sikh che lavorano come manovali, raccoglitori di olive, braccianti nelle serre dei paesi ad alta densità mafiosa come San Luca e Bovalino, hanno alzato la testa contro le aggressioni razziste dei mafiosi. Nel 2010, due di loro hanno denunciato di essere stati vittime di raid e accoltellamenti da parte di una banda di giovani calabresi e hanno fatto arrestare un ragazzo minorenne appartenente a una famiglia mafiosa. Poi, come segno di riconoscenza e di pace verso la città, i giovani aggrediti hanno ristrutturato gratuitamente la cappella del cimitero.
Ci sono i dati, per rispondere alla retorica che non servono nuovi ingressi di immigrati perché c’è già tanta disoccupazione in Italia. Vengono riportati dal giornalista Vittorio Longhi in un post nel suo blog “Lavoro dignitoso” sul sito di Repubblica. Stando ai dati ufficiali “il fabbisogno complessivo di manodopera straniera al 2015 dovrebbe ammontare a 510 mila unità, che nel 2020 salirebbero a 1 milione e 817 mila lavoratori (ovvero 182 mila entrate medie annue)”. Le cifre sono prese da un rapporto del ministero del Lavoro uscito in sordina l’anno scorso (2011,ndr.) “L’immigrazione per lavoro in Italia: evoluzione e prospettive”.
Scrive Longhi: “Quindi 182 mila persone dovrebbero entrare ogni anno, per motivi economici e demografici, perché lo chiedono le imprese, le famiglie e il sistema di welfare. E non vale più neanche il luogo comune che i migranti rubano il lavoro agli italiani, perché e’ noto da tempo che gli stranieri vanno a occupare fasce del mercato del lavoro a cui gli italiani non sono più interessati. Allora perché non si regolarizzano i migranti già presenti sul territorio, che lavorano comunque, ma in nero?”[3]
[1] Galesi L., Mangano A., Voi li chiamate clandestini, manifestolibri, Roma 2010, pag. 40
[2] Che tempo che fa, 5 novembre 2012
[3] Longhi V., L’ipocrisia sui migranti, Repubblica.it, 18 aprile 2012
Il fenomeno del caporalato e dello sfruttamento non compare nelle statistiche ufficiali dell’Inps. 400mila lavoratori vivono sotto i caporali nei campi italiani e 150mila nei cantieri edili secondo le stime al ribasso della Flai e della Fillea Cgil. Il lavoro nero in agricoltura è una realtà in tutto il Paese, infatti incide per il 90% al sud, per il 50% al centro e per il 30% al nord. “ In Italia c’è un Pil di prodotto in nero del 17,5%, pari a 270 miliardi di euro, l’agricoltura con il 32,8% di contributo al sommerso vince la medaglia d’oro del lavoro nero”. Sono cifre fornite da Stefania Crogi, segretaria generale Flai Cgil.
Nei campi italiani 60mila lavoratori hanno alloggi di fortuna e sprovvisti dei requisiti minimi di vivibilità ed agibilità. Sono le stime “prudenti” della Flai Cgil, “i numeri della vergogna” forniti nell’ambito della campagna “stop caporalato”. Oltre due milioni sono le aziende agricole, 75 soltanto quelle che occupano più di 500 dipendenti, in tutto il paese esiste una sola agenzia di somministrazione dedicata al settore agricolo (Lavorint di Milano).
Paghe più basse, falsi part time, lavoro nero: gli stranieri sfruttati nei cantieri
Almeno 150mila sono i lavoratori gestiti dai caporali per le stime della Fillea Cgil. Nell’edilizia cresce la forza lavoro immigrata e grigia. Più che triplicati i muratori con la partita Iva, a testimonianza che si tratta di lavoro dipendente mascherato da autonomo. Rispetto al 2006, nel 2008 l’aumento delle partite Iva nelle costruzioni è stato del 208%. Di questi imprenditori o liberi professionisti, la gran parte è straniera.
Il sesto rapporto Ires - Fillea Cgil denuncia una crescita ‘malata’ di manodopera straniera nel settore delle costruzioni, che è in crisi. In totale sono quasi 350mila i lavoratori edili immigrati, cresciuti di 62mila unità in un anno. Un’industria in crisi che si regge sullo sfruttamento dei lavoratori stranieri. È il quadro delle costruzioni italiane che emerge dalla ricerca. Il numero degli immigrati nel settore edile continua ad aumentare nonostante la crisi, ma la crescita è segnata da un forte aumento della componente irregolare: falsi part-time, lavoro nero e forme di lavoro autonomo sospette. Gli stranieri sono maggiormente vittime della dequalificazione professionale e degli infortuni, inoltre hanno paghe più basse.
I lavoratori stranieri costituiscono il 18% della manodopera totale occupata nei cantieri (22% dei dipendenti). Il settore edile si conferma così quello in cui c’è in assoluto la percentuale più alta di forza lavoro immigrata. Nel 2010, nonostante la crisi, la crescita in valore assoluto è stata di 62mila unità rispetto al 2009, di cui 52mila dipendenti. Ma è una crescita “malata”, sottlinea il sindacato. L’irregolarità, il lavoro nero è stimato in crescita del 50% in un solo anno.I part time sono aumentati del 162% tra il 2009 e il 2010. I migranti hanno salari inferiori fino al 22%, per il 60% sono inquadrati al livello più basso contro il 31% dei colleghi italiani. Crescono anche gli infortuni ed i morti sul lavoro, assegnando al settore il triste primato di “settore killer” per i lavoratori immigrati.
Senza gli immigrati, nel 2010 si sarebbero costruite 30mila case in meno, cioè il 30% del patrimonio edificato, ma sono loro i più colpiti dai fenomeni devianti che inquinano l’edilizia. Rumeni, albanesi e marocchini rappresentano il 64% degli stranieri iscritti alle casse edili. Mentre i lavoratori di origine marocchina e albanese sono concentrati al Nord, i rumeni sono più distribuiti fra il centro Italia e il settentrione. Nel settore edile nel corso dell’ultimo anno è aumentato del 4,7% il numero di imprenditori stranieri contro una variazione negativa dello 0,7% tra gli italiani. Il settore è quello in cui c’è anche maggiore imprenditorialità immigrata. Infatti, il 22,2% delle imprese con un titolare straniero è nelle costruzioni, con le imprenditrici a quota 6,6%. A favorire la crescita sono il sistema del subappalto e il meccanismo del vacancy chain, la concentrazione di ditte di immigrati in settori poco redditizi. Ma soprattutto, spesso il lavoratore è costretto ad aprire partita Iva per stare nei cantieri e a lavorare da falso autonomo, svolgendo in realtà mansioni di subordinazione al datore di lavoro.
Nel 2010 gli infortuni ai danni di lavoratori stranieri sono stati 120.135 con un incremento dello 0,8% , in controtendenza con la diminuzione nazionale dell’1,9%. Il tasso infortunistico degli stranieri è di 43,1 ogni 1000 addetti del settore, contro 34,3 degli italiani.
“Ti metto in regola come dipendente ma i contributi te li paghi tu”. E’ questo il ricatto nei confronti di molti lavoratori stranieri nei cantieri, secondo Ermira Behri segretario provinciale della Fillea Perugia. “L’altra emergenza è la sicurezza nei luoghi di lavoro – continua - perché in edilizia abbiamo il più alto numero di infortuni mortali e le vittime sono per la maggiorparte stranieri, l’Umbria è la prima per infortuni mortali, solo negli ultimi due mesi ci sono state sei morti bianche nella regione”.
Crisi, mafia, speculazione sfuma l'oro verde di Vittoria
L’inchiesta
Chiuse 1.500 aziende, l'incubo sono gli ortaggi magrebini. Molti terreni rilevati da extracomunitari con grandi capitali. Il mercato è un far west gestito da 10 commissionari che impongono listini da fame.
(testata online quotidiana nazionale, 18 febbraio 2012)
VITTORIA - La terra dell'oro sta diventando poco più che una miniera di carbone. Attraversando le distese di serre che digradano verso il mare, si vedono campi abbandonati e facce nuove: quelle degli immigrati, arrivati come braccianti e diventati padroncini. E oggi, il giorno dopo il via libera di Bruxelles all'invasione di pomodori e melanzane dal Marocco, i volti degli agricoltori sono ancora più tesi e preoccupati in questo triangolo una volta milionario tra Ragusa, Vittoria e Santa Croce Camerina.
Il Nord Africa fa sempre più paura: "Noi dell'associazione "Arcobaleno" - dice il presidente Carmelo Criscione - raggruppiamo 13 produttori per 70 ettari di serra e facciamo 3,5 milioni di fatturato. Vendiamo direttamente a grossisti tedeschi e riusciamo a piazzare il pomodorino anche a 1,30 euro al chilo. Ma oggi ho ricevuto una telefonata da un grossista tedesco: ti do un euro e dieci, mi ha detto, perché dal Marocco arrivano già a un euro". […]
Uno dei motivi della crisi è proprio il mercato di Vittoria[…]Adesso il Comune di Vittoria sta cercando di mettere ordine in questo suk nel quale è impossibile anche controllare la tracciabilità dei prodotti e sono stati denunciati casi di pomodoro tunisino mischiato con quello siciliano.[…]
Il risultato complessivo è che per la prima volta qualcuno ha venduto la terra dei propri nonni e dei propri padri. Una volta considerata il patrimonio di famiglia inalienabile, oggi la si mette all'asta. E a comprarla sono talvolta magrebini sbarcati qui trent'anni fa come braccianti: attualmente sono circa 800 le aziende tunisine e algerine, "e in alcune sedi come Santa Croce Camerina ormai il 50 per cento degli iscritti alle organizzazione dei produttori è straniero", dice Giuseppe Drago, segretario provinciale della Cia.
Ma dove prendono questi capitali gli immigrati? Il sospetto della Guardia di finanza è che, accanto agli onesti ex braccianti che hanno messo da parte quel poco di guadagno accumulato negli anni, alcuni siano solo "prestanome magari di commissionari o, peggio, di anonime srl". E, in Sicilia, si sa che spesso è la mafia ad avere capitali da investire. […]
Quello che abbiamo riportato è l’esempio di un’inchiesta che lancia pesanti accuse verso i nord africani che lavorano nelle serre di Vittoria, in provincia di Ragusa, senza mai interpellarli. Oltre all’uso scorretto della parola “suk” (consulta la voce corrispondente), qui usata in senso negativo mentre è solo l’equivalente arabo di ‘mercato’ senza alcun giudizio, l’inchiesta fornisce nel complesso un’immagine fuoriviante dell’immigrazione maghrebina a Vittoria. Per fare un confronto, questa è l’analisi della situazione di Vittoria, tratta dal libro di Laura Galesi e Antonello Mangano. “La maggiorpare degli stranieri vive nelle campagne-scrivono- Le masserie si affittano a 200 euro, tariffa standard, indipendentemente dalle condizioni. Per il lavoro la media è 18-19 euro a giornata”. E ancora: “Esiste il lavoro nero, il lavoro grigio e il neo-schiavismo” denuncia Peppe Scifo della Cgil “Come fa un territorio ad alta produttività a non avere un solo contratto a tempo indeterminato? Esistono solo lavoratori stagionali. Un immigrato deve acquistarsi al mercato nero le giornate, deve comprare il contratto di lavoro, che gli serve per il suo permesso di soggiorno. Poi magari quello stesso immigrato va a lavorare per un’azienda in nero”.
C’è la testimonianza di Fouad, un tunisino che lavorando per anni come bracciante ha messo da parte i soldi necessari per mettersi in proprio, aprendo partita Iva e affittando una serra. “Per mille metri quadri di terreno ci vogliono circa mille euro che non comprendono fertilizzantri e altro. Per il primo anno bisogna calcolare almeno 4mila euro di spese…Tanti tunisini hanno fatto lo stesso, qualcuno ha anche dipendenti italiani”. Le donne straniere sono spesso costrette ad allietare anche le serate dei datori di lavoro nelle campagne di Vittoria. “Sono serate”, spiega don Beniamino Sacco, che gestisce il centro di accoglienza per 70 migranti, “dove il datore di lavoro, insieme ai suoi amici, aiuta ad arrotondare il cachet delle lavoratrici che, per otto ore di lavoro guadagnano fino a 20 euro. Con la serata arrotondano a 30. Sono veri e propri fenomeni di abuso. A Vittoria, fino a giugno 2010, sono state registrate quindici richieste di interruzione volontaria di gravidanza. A denunciare la crescita esponenziale degli aborti sono stati i repsonsabili del presidio ospedaliero “Guzzardi”[1].
[1] Citazioni tratte da Galesi L. e Mangano A., Op. Cit. pp. 43-52