È il cosiddetto Trattato di Bengasi, il “trattato di amicizia partenariato e cooperazione tra la Repubblica italiana e la grande Giamahiria araba libica popolare socialista” sottoscritto dall’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il dittatore libico Muammar Gheddafi il 30 agosto del 2008, ratificato dall’Italia il 6 febbraio del 2009 per chiudere definitivamente il doloroso "capitolo del passato", cioè il contenzioso legato all’epoca coloniale. Il Trattato Italia-Libia segna la conclusione di un lungo processo di negoziati portati avanti dai precedenti governi e accelerato da Berlusconi. Da un lato negli anni il regime di Gheddafi ha avanzato numerose richieste e minacce verso l’Italia per un risarcimento in denaro per i danni provocati dalla colonizzazione. Dall’altro c’erano gli interessi economici, da parte italiana legati all’approvvigionamento di petrolio con la presenza dell’Eni in Libia, da parte libica dovuti agli investimenti di Gheddafi nelle azioni di imprese italiane come la Fiat e l’Unicredit. La prima bozza di accordo tra Italia e Libia è stata siglata nel 1998, durante il primo governo Prodi: è il cosiddetto Comunicato Congiunto. Molte delle questioni disciplinate dal Comunicato Congiunto sono state riprese nel Trattato del 2008. Con questo accordo, la Libia è riuscita ad ottenere una “condanna” del colonialismo italiano e un risarcimento danni. L’Italia si è impegnata a versare alla Libia cinque miliardi di dollari in vent’anni, 250 milioni di dollari all’anno, per realizzare progetti e infrastrutture, affidati ad imprese italiane con i fondi gestiti direttamente dall’Italia. Per la copertura finanziaria dei 5 miliardi di dollari, la Legge di esecuzione del Trattato prevedeva un’addizionale all’Ires (imposta sul reddito delle società), a carico delle società che svolgono attività nel campo della ricerca e coltivazione degli idrocarburi residenti in Italia, con una capitalizzazione superiore a 20 miliardi di euro (in pratica l’Eni). “Il Tesoro ha varato una legge tributaria ritagliata su misura per l'Eni: un'addizionale del 4 per cento all'imposta sul reddito delle società posta a carico delle imprese petrolifere quotate, con capitalizzazione in Borsa superiore a 20 miliardi di euro. Per trovare i soldi necessari a pagare l'accordo Italia-Libia, un'azienda ormai privatizzata viene trattata come fosse pubblica. A rimetterci sono in primo luogo i piccoli azionisti” scriveva su Lavoce.info l’economista Gilberto Muraro.[1]
La lotta all’immigrazione. Chiude l’accordo la collaborazione nel campo della lotta al terrorismo e dell’immigrazione clandestina. Viene messo in campo un sistema di controllo delle frontiere terrestri della Libia, “da affidare a società italiane in possesso delle necessarie competenze tecnologiche” e i cui costi dovevano essere sostenuti al 50 per cento dal governo italiano e dall’Unione Europea per il restante 50 per cento.
In Parlamento. Il Trattato è stato ratificato dal Parlamento italiano il 6 febbraio 2009 con un consenso bipartisan. Hanno votato a favore il PdL, la Lega e il PD, anche se tra le file del PD votarono contro i deputati radicali e alcuni altri “dissidenti”, tra cui Andrea Sarubbi. L’IdV e l’UdC votarono contro la ratifica. “Il Trattato è oneroso per l’Italia, ma rappresenta un ‘investimento’ e molto dipenderà dall’evoluzione della situazione politica in Libia” scrive nel 2009 Natalino Ronzitti, professore di Dirittto internazionale dell’università Luiss, in un dossier del servizio studi del Senato[2]. Un investimento che, a posteriori, si può dire non andato a buon fine. Il trattato è stato sospeso con la guerra del 2011 e sepolto con l’uccisione di Gheddafi da parte degli insorti libici
[2] Ronzitti N., Il trattato Italia-Libia di amicizia, partenariato e cooperazione, Servizio studi del Senato n.108, gennaio 2009, pag.8
In questa scheda esaminiamo gli effetti dell’accordo nel contrasto all’immigrazione irregolare e alcune voci collegate: Fortezza Europa, Esternalizzazione delle frontiere, Agenzia Frontex. L’art. 19 del Trattato prevedeva l’attuazione di due protocolli datati 29 dicembre 2007 che stabilivano un pattugliamento congiunto con equipaggi misti e motovedette messe a disposizione dall’Italia. Previsto anche un sistema piuttosto costoso di telerilevamento alle frontiere terrestri libiche, da affidare a società italiane. Il finanziamento doveva essere assicurato per metà dall’Italia e per l’altra metà dall’Unione Europea. Anche in questo caso la copertura finanziaria si basava sull’addizionale Ires.
Nel trattato c’era l’impegno ad agire conformemente alle rispettive legislazioni agli obiettivi e ai principi della Carta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo. Ma il riferimento alle “rispettive legislazioni” ha destato preoccupazione internazionale per la sorte degli immigrati. La Libia non ha una legislazione avanzata in materia di diritti umani e non ha firmato Convenzione sullo status dei rifugiati del 1951. Quindi non c’erano garanzie del non respingimento del rifugiato alle frontiere di uno stato in cui la sua vita o libertà sarebbero state messe in pericolo.
Nel 2012 l’Italia è stata condannata dalla Corte di Strasburgo per l’intercettamento in mare di richiedenti asilo e il loro respingimento collettivo (vedi voce corrispondente) avvenuto nel 2009 con l’attuazione degli accordi con la Libia. Nel corso del procedimento è stato documentato che i richiedenti asilo somali ed eritrei respinti hanno subito torture e violenze a Tripoli. E’ il cosiddetto ‘caso Hirsi’. Una pratica ampiamente condannata da Human Rights Watch e da altri organismi internazionali. Con il rapporto “Scacciati e schiacciati. L’Italia e il respingimento di migranti e richiedenti asilo, la Libia e il maltrattamento di migranti e richiedenti asilo”, pubblicato a New York nel settembre 2009[1], Hrw denunciava le violenze subìte in Libia dai migranti, con torture, abusi sessuali sulle donne, detenzione indefinita nelle carceri e nei centri di detenzione per stranieri, ‘compravendita’ delle persone dirette in Europa tra poliziotti libici corrotti e trafficanti. Le testimonianze raccolte da Human Rights Watch descrivono il terrore vissuto dai migranti nel corso della loro permanenza a Tripoli o a Bengasi: rapine, aggressioni, arresti sommari sia da parte della polizia che dei criminali. Il giornalista italiano Gabriele Del Grande è stato il primo a riuscire a entrare nei centri di detenzione libici come quello di Kufra, in mezzo al deserto, dove, secondo Hrw, sotto il regime di Gheddafi “i migranti non vengono rilasciati fino a che non pagano tangenti. Tutti temono di venir abbandonati nel deserto”.
Del Grande ha contato 28 centri di detenzione in Libia, divisi in tre tipi. “Ci sono dei veri e propri centri di raccolta, come quelli di Sebha, Zlitan, Zawiyah, Kufrah e Misratah, dove vengono concentrati i migranti e i rifugiati arrestati durante le retate o alla frontiera. Poi ci sono strutture più piccole, come quelle di Qatrun, Brak, Shati, Ghat, Khums… dove gli stranieri sono detenuti per un breve periodo prima di essere inviati nei centri di raccolta. E poi ci sono le prigioni: Jadida, Fellah, Twaisha, Ain Zarah… Prigioni comuni, nelle quali intere sezioni sono dedicate alla detenzione degli stranieri senza documenti. Anche nelle prigioni, le condizioni di detenzione sono pessime. Scabbia, parassiti e infezioni sono il minimo che ci si possa prendere. Molte donne sono colpite da infezioni vaginali. E non mancano i decessi, dovuti perlopiù all’assenza di assistenza sanitaria o a ricoveri ospedalieri troppo tardivi” scrive in uno dei suoi reportage[2].
Il trattato di amicizia del 2008 prevede quattro punti sulla mutua cooperazione nel contrasto all’immigrazione: il pattugliamento congiunto in acque libiche, l’intercettamento in alto mare (caso Hirsi),il finanziamento di un sistema di controllo libico, un sistema congiunto di individuazione dei migranti con rader e satellite. Di questi, solo il secondo è stato sanzionato con la sentenza contro i respingimenti collettivi in mare.
L’immigrazione dal mare è ormai una costante per l’Italia da almeno 15 anni (dal 1998 al 2012). Quello che cambia è il numero degli arrivi. Le forti fluttuazioni - secondo Ferruccio Pastore, direttore del Forum internazionale ed europeo di ricerche sull’immigrazione - sono causate da fattori geopolitici come i conflitti (Kosovo/Libia) e dalla cooperazione con i Paesi ai confini. Nel caso dell’Italia, si è operato tramite accordi bilaterali (con un ruolo marginale dell’Ue), con un approccio bipartisan che non ha segnato grandi distinzioni fra i diversi schieramenti politici e con poca trasparenza (carenza di controlli parlamentari e statistiche) . Affidarsi ad apparati non democratici sulla sponda sud del mediterraneo è stato cruciale per il successo di questa politica, come si può vedere nel caso del trattato con il dittatore Gheddafi e degli accordi con un altro regime, quello di Ben Alì in Tunisia. Entrambi i despoti sono stati spazzati via dalle rivoluzioni arabe del 2011. I governi italiani, guidati da Silvio Berlusconi prima, e da Mario Monti poi, hanno provveduto a mettere in piedi in fretta nuovi accordi per il contrasto ai flussi migratori con i regimi transitori dei Paesi rivoluzionari.
Dal canto suo, l’Unione europea non ha statistiche ufficiali sulle persone morte in mare cercando di raggiungere il suo territorio, quindi dimostra di non voler fare questi calcoli.
Li ha fatti invece Del Grande che ha chiamato il suo blog “Fortress Europe” trasformandolo in un osservatorio delle vittime della frontiera, secondo il quale “dal 1988 almeno 18.567 giovani sono morti tentando di espugnare la fortezza Europa, dei quali 2.352 soltanto nel corso del 2011. Il dato è aggiornato al 26 ottobre 2012”. Queste sono vittime della Fortezza Europa, vale a dire di una visione delle frontiere comuni europee viste come muri invalicabili, con pesanti ricadute sul rispetto dei diritti umani e sullo Stato di Diritto. L’inizio di questa politica risale al 1990. Se con gli accordi di Schengen si è avuta la libera circolazione interna, il rovescio della medaglia è stata la chiusura alla migrazione illegale esterna. Gli Stati europei hanno adottato controlli sempre più stringenti sui propri confini, indirizzati a migranti e richiedenti asilo dei Paesi sottoposti a obbligo di visto Schengen per l’ingresso[3]. L’evoluzione del controllo delle frontiere in Europa è stata condizionata dal contesto internazionale riguardante la minaccia del terrorismo. Dopo gli attentati di New York e Washington (11 settembre 2001), Madrid (11 marzo 2004) e Londra (7 luglio 2005) tra gli Stati europei, il controllo dell'immigrazione “illegale” si è convertito, sempre più esplicitamente, in una priorità della lotta al terrorismo, con l'assunto che i terroristi si avvantaggiano dei flussi migratori incontrollati[4].
Venendo al ruolo dei giornalisti, a condizionare queste politiche è anche la grande attenzione dedicata dai media ai ‘boat-people’con la falsa credenza, diffusa anche dai discorsi politici predominanti tramite le immagini di barconi sovraccarichi, che l'intera popolazione migrante subsahariana sia diretta verso l'Europa. Le stime fornite dall'Organizzazione internazionale per le migrazioni indicano che ogni anno giungono nel Magreb, per via terrestre, tra le 65.000 e le 120.000 persone e solo un 20-30% di queste entra in Europa.[5] In realtà i migranti subsahariani sono una minoranza in Europa. Ad esempio in Italia sono in numero nettamente inferiore ai rumeni e agli albanesi, che migrano attraverso le frontiere terrestri e gli aeroporti.
In questa logica rientra perfettamente il Trattato del governo Berlusconi con il dittatore Gheddafi che è un tipico esempio di esternalizzazione delle frontiere. Le monete di scambio sono aiuti economici allo sviluppo e la concessione di un numero di quote per l’ingresso regolare dei propri cittadini. Con questa contropartita, l’Ue e i singoli Stati membri firmano accordi e fanno pressione con gli Stati nordafricani, affinchè questi ultimi gestiscano i flussi migratori e di transito e firmino accordi di riammissione dei loro cittadini espulsi dall’Europa. Il risultato è duplice. Da una parte, Stati come il Marocco o la Libia sono diventati ‘i gendarmi’ dell’Unione europea contro i migranti, con numerose retate ed espulsioni già in Maghreb. Dall’altro l'aumentodei controlli esterni ha comportato la deviazione delle rotte, con un aumento dei costi edei rischi ai quali sono esposte le persone in viaggio.
I precedenti. Nel 1998 la Tunisia di Ben Alì, assieme al Marocco, è stato il primo Paese con cuil’Italia abbia firmato degli accordi bilaterali di riammissione. Ciò è avvenuto nel quadro di unapolitica di sviluppo condizionata al controllo migratorio. Ci si accordò per un nuovo programma di prestitivalido fino al 2001 (dell’ammontare complessivo di 152 milioni di euro), a cui seguì la firma di un accordo di riammissione. A questo seguirono ulteriori intese che dal 2002 si inscrivono neilimiti imposti dalla legge 189/2002 (Bossi-Fini) in cui all’art.1 è previsto che “nella elaborazione enella eventuale revisione dei programmi bilaterali di cooperazione e di aiuto [...] il Governo tieneconto anche della collaborazione prestata dai Paesi interessati alla prevenzione dei flussi migratoriillegali e al contrasto delle organizzazioni criminali operanti nell’immigrazione clandestina. Inoltre ilGoverno “può procedere alla revisione dei programmi di cooperazione e di aiuto [...] qualora iGoverni degli Stati interessati non adottino misure [...] atte a prevenire il rientro illegale sul territorioitaliano di cittadini espulsi”.
Nell'aprile 2011, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per l’espulsione di un cittadino tunisino sottoposto a tortura, sebbene il nostro Paese considerasse la Tunisia un Paese terzo sicuro.
Grazie agli accordi bilaterali e comunitari, le frontiere euromediterranee, in termini geopolitici, arrivano fino in Mauritania e Senegal, nel tentativo di prevenire l’arrivo di flussi migratori. Dal 2004 il progetto è quello di un approccio globale alla gestione delle frontiere, di cui sono parte integrante gli intercettamenti di barconi in acque internazionali e l'Agenzia europea per la gestione delle frontiere (Frontex). In questo processo, la Spagna di José Luis Zapatero ha avuto un ruolo centrale. Nel 2006 le Canarie, dove arrivavano centinaia di pateras (piccole imbarcazioni di legno) provenienti dalle coste atlantiche nord-africane, furono descritte dal governo spagnolo come “una crisi umanitaria senza precedenti” ed una “invasione di massa di immigranti illegali” per la quale era necessaria una “urgente soluzione europea”.
La soluzione comune si chiama Frontex e non è ancora chiarosesia solo un coordinatore interstatale oppure un soggetto sempre più autonomo, e quindi tenuto a rispondere delle proprie azioni. Frontex risponde all’esigenza della gestione integrata delle frontiere, Integrated Border Management. L’agenzia è gestita da un organo collettivo e nel suo Consiglio d'Amministrazione partecipano, con un voto, tutti gli Stati membri dell'UE e quelli aderenti a Schengen. Il Direttore esecutivo, il quale è indipendente, ne è il suo rappresentante. L'Agenzia è stata dotata di competenze esclusive, ossia ha la facoltà di cooperare in maniera autonoma con organizzazioni internazionali ed autorità di Stati terzi. Di conseguenza, essa sfugge al controllo politico degli Stati membri del Consiglio, della Commissione e del Parlamento europei.
Frontex è responsabile della creazione dei “Rapid Border Intervention Teams” (RABIT)Il Parlamento Europeo il 13 settembre 2011 ha approvato il nuovo mandato dell'agenzia Frontex.In base alle nuove norme le missioni Frontex potrebbero essere sospese o cancellate, se le operazioni comportassero una violazione dei diritti umani. Inoltre l'agenzia avràanche un ruolo d'assistenza per gli Stati membri, in situazioni comportanti emergenze umanitarie e soccorsi in mare.Frontex dovrà redarre dei codici di condotta che assicurino il rispetto dei diritti umani di tutte le missioni, anche di quelle di rimpatrio. In base al diritto internazionale, non potranno essere fatti sbarcare o rimpatriare individui in un Paese in cui questi incorrano in un pericolo per la propria vita e libertà. In base alle modifiche apportate al testo difatti, l'agenzia sarà tenuta a non violare il principio di "non respingimento" in ogni circostanza. “La riforma del mandato è stata criticata da diverse ONG ed associazioni per i diritti umani. Tra le principali note negative riscontrate vi è il mancato controllo democratico sulle attività dell'Agenzia, sottolineato dal fatto che il Parlamento europeo non disponga di reali strumenti di supervisione dell'operato di Frontex” si legge in una tesi di laurea sull’argomento discussa all’Università di Firenze. [6] Lo studio ricostruisce sulla base dei documenti disponibili sul sito dell’Agenzia delle Frontiere che il budget di Frontex è cresciuto del 360% tra il 2005 e il 2010, passando da un bilancio annuo di 12,4 milioni di euro a 92,8 milioni di euro. L’organico è passato da 45 a 181 persone. Non è certo se con l’operazione Nautilus, attiva tra aprile ed ottobre 2009, Frontex sia stata coinvolta con i respingimenti italiani in Libia, avvenuti nello stesso periodo. L'Agenzia è stata però accusata d'aver assistito l'Italia nei respingimenti da Human Rights Watch, che ha denunciato il caso di un elicottero Puma tedesco operante durante Nautilus, che il 18 giugno 2009 avrebbe coordinato l'intercettazione ed il respingimento di un'imbarcazione con 75 migranti a 29 miglia nautiche da Lampedusa. L'Agenzia ha seccamente smentito un suo coinvolgimento, ma il fatto che i piani operativi di Nautilus 2009 siano rimasti segreti rende difficile comprovare la dichiarazione e le eventuali responsabilità.
[1] Human Rights Watch, Scacciati e schiacciati . L’Italia e il respingimento di migranti e richiedenti asilo, la Libia e il maltrattamento di migranti e richiedenti asilo, New York settembre 2009. “Il primo risultato tangibile del Patto d’amicizia è stato il trasferimento dall’Italia alla Libia, il 14 maggio del 2009, di tre motovedette che sarebbero state manovrate congiuntamente dalle autorità libiche e italiane” si legge nel documento a pag. 7.
[3] Ulteriori strumenti normativi che hanno prodotto una stretta sulla politica migratoria comunitaria sono le “risoluzioni di Londra” del 1992. Con le quali vengono definiti i concetti di “Paese terzo sicuro”, tramite il quale è stato disposto i richiedenti asilo, che abbiano attraversato Stati qualificati come sicuri, possano essere respinti verso questi ultimi, senza che la propria richiesta venga esaminata. E si è introdotto il concetto di “Paese di origine sicuro”, comportando la redazione di una lista di Stati nei quali si può escludere una minaccia seria per le persone o nei quali non esiste un rischio grave di persecuzione. Ai richiedenti asilo partiti da tali Paesi non si è tenuti a garantire l'accesso al procedimento, bensì essi possono essere riconsegnati dalla polizia di frontiera alle autorità della Nazione di provenienza, senza un esame della richiesta
[4] Il Consiglio Europeo di Siviglia del 2002 ha seguito questa falsariga, accentuando l'aspetto sicuritario. Venne infatti previsto l'inserimento di una clausola di riammissione, obbligatoria in situazioni d'immigrazione illegale, in ogni futuro accordo di cooperazione od associazione che l'UE avrebbe concluso con Paesi terzi.
[5] La Pia F., Mare Nostrum o Mare Omnium? Il controllo della migrazione nello spazio mediterraneo, tesi di laurea in Scienze Politiche, Università di Firenze, anno accademico 2010/2011, disponibile sul sito www.cestim.it
Riportiamo quattro esempi tratti dalle principali testate online e cartacee italiane. Nei primi due, vediamo che gli accordi con la Libia vengono presentati come un traguardo storico e necessario per contrastare l’arrivo dei migranti irregolari, senza nessun riferimento alle violazioni delle leggi internazionali in materia di diritti umani. Si tratta quindi di una prospettiva appiattita su un approccio politico e filogovernativo. Il terzo esempio è un caso di buona informazione, pubblicato nel 2012, dopo la caduta di Gheddafi e quando in Italia è cambiata la compagine governativa. L’articolo rivela che i nuovi accordi con i rivoluzionari libici che hanno vinto la guerra ricalcano quelli vecchi firmati con il colonnello dittatore. Il quarto esempio parla della visita del premier Mario Monti in Libia presso il suo omologo dopo la caduta del regime. Ancora una volta, si parla del vecchio Trattato come quello “invidiato a Londra e a Parigi”. L’articolo fa passare gli accordi fra Italia e Libia come un evento positivo e da ripristinare al più presto. Risulta per questo fuorviante nei confronti dell’opinione pubblica.
Italia-Libia, firmato l'accordo cinque miliardi di dollari in 25 anni
Il premier Berlusconi e il leader libico Gheddafi hanno firmato a Bengasi l'Accordo di cooperazione e amicizia tra Roma e Tripoli
(sito internet di un quotidiano nazionale, 30 agosto 2008)
Berlusconi a Tripoli incontra Gheddafi: «Serve più rigore con gli immigrati»
SI CELEBRA IL TRATTATO DI AMICIZIA TRA ITALIA E LIBIA, CI SARANNO ANCHE LE FRECCE TRICOLORI
Il premier: «Se vogliamo procedere a una politica vera di integrazione dobbiamo anche essere rigorosi»
(sito internet di un altro quotidiano nazionale, 30 agosto 2009)
Respingimenti, accordi Italia-Libia identici a quando c'era Berlusconi
Un testo sottoscritto il 3 aprile scorso dal Ministro Cancellieri con il suo omologo libico Fawzi Al Taher Abdulali, che ricalca in molti punti le vecchie intese con Gheddafi dall'ex premier italiano, condannati a febbraio dalla Corte dei diritti umani di Strasburgo
( sito internet di un quotidiano nazionale, 19 giugno 2012)
ROMA - Ricominciare da Gheddafi. Nessuna discontinuità con il precedente governo nella politica di lotta all'immigrazione clandestina dell'esecutivo Monti. Sembra questo il senso dell'accordo sottoscritto lo scorso 3 aprile dal Ministro Cancellieri con il Ministro dell'Interno Libico Fawzi Al Taher Abdulali, di cui le organizzazioni per i diritti umani avevano ripetutamente chiesto i contenuti. Un testo che ricalca in molti punti le vecchie intese sottoscritte con il dittatore da Berlusconi, in particolare quella sui respingimenti in mare, che erano stati condannati a febbraio dalla Corte dei diritti umani di Strasburgo. […]
I rischi di gravi violazioni. Secondo l'Organizzazione, infatti, con la Libia di oggi, un paese nel quale lo stato di diritto è assente, in cui i cittadini stranieri languono in carcere alla mercé delle milizie che dirigono i centri di detenzione, sottoposti a maltrattamenti, sfruttamento e a lavoro forzato, un accordo sul contrasto dell'immigrazione illegale comporta rischi di gravi violazioni dei diritti umani. […]
Nessuna distinzione fra migrante e rifugiato. Il paese nord africano infatti non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra del '51 sullo status di rifugiato politico e non facendo distinzione tra richiedente asilo e migrante, nonostante tra coloro che approdano sul suo territorio ci siano persone che fuggono da conflitti e persecuzioni, come eritrei, etiopi e somali. Nulla è cambiato dunque rispetto al pre-rivoluzione del 17 febbraio? Archiviata la guerra, i nostri rapporti con l'ex colonia sembrano non aver cambiato passo, nonostante il Paese non abbia ancora né un Parlamento regolarmente eletto né una costituzione che dovrebbe uscire dalle elezioni del prossimo 7 luglio. Intanto, il deputato del Pd Jean-Leonard Touadi ha chiesto al Ministro Cancellieri di riferire in Parlamento i termini dell'accordo fino ad oggi rimasto blindato.
«Dall' Italia sostegno alla nuova Libia» La visita del premier
LA MISSIONE MONTI A TRIPOLI
Incoraggiamo i processi di integrazione nella regione: favoriscono lo sviluppo e sono nell' interesse dell' Italia Giulio Terzi, ministro degli Esteri italiano Firmata un' intesa, ma il Trattato è congelato
(Quotidiano nazionale, 22 gennaio 2012)
TRIPOLI - «I nostri sono due governi nuovi su due sponde del Mediterraneo», ha fatto presente ieri Mario Monti al primo ministro libico Abdurrahim el Keib durante un incontro a porte chiuse a Tripoli. […] Ma perché i rapporti tra Italia e Libia tornino a pieno titolo preferenziali quanto erano prima del crollo del regime di Muammar el Gheddafi serve ancora tempo. Per adesso, lavori in corso. Per effetto di una tendenza diffusa tra i dirigenti politici emergenti che porta i meno oberati da trascorsi gheddafiani a distanziarsi da miti e riti del vecchio regime, e a causa di divergenze tra chi sarebbe più pragmatico e chi lo è meno, la «dichiarazione di Tripoli» concordata ieri da Monti e el Keib non cita mai il Trattato di amicizia italo-libico firmato nel 2008 da Gheddafi e Silvio Berlusconi. In base a quel patto, il nostro Paese si è impegnato a finanziare opere pubbliche per 5 miliardi di dollari in 20 anni ricevendo in cambio una posizione privilegiata sugli appalti. È stato el Keib a non volerlo citare. Il vago riferimento al Trattato invidiato a Parigi e Londra è avvolto in una frase che attesta intesa fra Italia e Libia sul «valutare e sviluppare gli accordi firmati» tra i due Paesi «andando avanti nella messa in pratica di varie attività»[..]. «I rapporti tra la nuova Libia e l' Italia saranno forti. Non solo. Cercheremo nuove vie per approfondire questa amicizia», ha risposto el Keib, vago, senza strappi, ad al Jazeera che domandava se il Trattato era «annullato».