Sul vocabolario viene riportata questa definizione: “Appartenente o relativo all’antico popolo semitico degli Ebrei, che occupò la Palestina sin dalla seconda metà del II millennio a. C., costituendosi in unità nazionale e religiosa, e distinguendosi dai popoli confinanti soprattutto per il carattere monoteistico della sua religione”.
Ma lo stesso vocabolario evidenzia: “Nel linguaggio comune, epiteto ingiurioso, diffuso specialmente in passato in base a riprovevoli pregiudizi e stereotipi, per indicare persona che all’abilità e mancanza di scrupoli negli affari unisce attaccamento al denaro, avidità di guadagno e propensione all’usura, con riferimento ad alcune qualità che la tradizione antisemita attribuisce agli Ebrei”.
A conferma dell’accezione denigratoria delle parole ebreo e, ancora di più giudeo, la raccolta degli insulti e dei ghephyrismi razzisti su di essi è lunga e ben nutrita. Come non fare riferimento al Barabba di Marlowe che condensa in sé la natura demoniaca dell’ebreo avvelenatore di pozzi e uccisore di bambini? Come non ricordare Shylock, l’usuraio a cui Shakespeare per voce di Antonio si riferisce come ad un “cane”, “miscredente” e “strozzino”? Come non pensare al carnevale romano in cui gli ebrei erano costretti a subire ingiurie ed angherie e che furono poi sostituite dal pagamento di una gabella al Papa? Come non figurarsi le rappresentazioni iconografiche dell’ebreo dedito al commercio e all’usura diffuse dalla stampa d’inizio secolo? E infine come non pensare all’espressione del razzismo istituzionalizzato che culmina nelle leggi razziali naziste e fasciste? Ma il razzismo è antico come l’uomo, e rispecchia la sua paura del diverso.
Nell’Ottocento i linguisti inventano la coppia antinomica “ariano” e “semita” per costruire l’albero genealogico delle lingue indo-europee. La denominazione Ariani o Arii indica alcune popolazioni asiatiche – iraniche e indiane – di origine e lingua indoeuropea; semita invece deriva da Sem, il figlio di Noè che secondo la tradizione biblica, sarebbe stato il progenitore dei popoli semitici.
Per un’ovvia conseguenza che si inserisce nel solco di questo modo ragionare per antinomie, i teorici del razzismo fecero della lingua una categoria razziale. L’idea dell’arianesimo è strettamente correlata a quella dell’etnocentrismo europeo, per cui l’Europa è una realtà che si differenzia da ogni altra e si colloca al di sopra di ogni altra forma di cultura. Solo gli illuministi avevano parlato del “ buon selvaggio” e lo avevano elevato a un piano superiore a quello degli europei, ma a puro titolo esemplificativo, per esaltare una “condizione di natura” da cui l’Europa si era ormai molto allontanata.
Nasce dunque e si radica l’idea di un’unica tradizione culturale e di un solo tipo razziale, quello ariano. Le elaborazioni concettuali del nazismo si basano sul modello razzistico secondo cui gli uomini sono distinti e classificati con un criterio “ biologico” e la storia è vista come il necessario dominio delle razze superiori. Col nazismo questo modello cominciò ad applicarsi alla vita sociale: da un lato l’uomo bianco “ariano” e, all’estremo opposto una razza impura quella dell’ebreo.
L’antisemitismo, da sempre presente in Europa, da fenomeno giustificato con argomentazioni prevalentemente religiose e culturali, nonché economiche, si trasforma in fatto viscerale, determinato e autorizzato da una differenza biologicamente e naturalmente determinata.
Le radici dell’antisemitismo affondano nel passato della cultura europea; ma come è possibile che molte di queste ingiurie ed epiteti ritornino ancora oggi?
Nello sport, in particolare nel calcio e nella pubblicistica politica di una certa destra, l’epiteto di “ebreo” viene usato con grandissima frequenza. Come nel 2003 faceva notare Paola Andrisani nel suo Inventario dell’Intolleranza gli atti discriminatori possono essere esercitati nei molteplici ambiti della vita sociale. Nella sua ingente raccolta di casi etnografici, l’antropologa illustra attraverso una serie documentata di episodi, espressioni verbali, titoli di testate e scritte sui muri, con quanta frequenza ricorra l’aggettivo ebreo, quanto le offese e le ingiurie storicamente rivolte contro gli ebrei siano ancora persistenti, e quanto spesso vengano utilizzate per insultare gli avversari sportivi e non solo.
A Roma il 6 maggio 2001, i tifosi laziali affiggono uno striscione recante la scritta: Squadra de’ negri, curva d’ebrei; ancora a Roma l’11 ottobre dello stesso anno un calciatore di madre somala viene richiamato in una scritta su un muro cittadino per mano anonima: Liverani Raus. E proprio lo slogan Juden Raus (fuori gli ebrei) viene utilizzato con lo stesso significato ma contro un nuovo gruppo di “diversi”, gli immigrati di religionemusulmana. Succede a Varese il 14 settembre 2001: sulla vetrina di una macelleria gestita da una famiglia marocchina, appare la scritta nera Islam Raus.
Questa abitudine linguistica non ha certo dietro la stessa ideologia: se in passato il razzismo cercava delle giustificazioni mistiche o spirituali, quello dei nostri giorni è un razzismo differenzialista e culturalista. Come già rilevava Kilani nel 2001, ciò che li accomuna è il rifiuto dell’uguaglianza e dell’omologazione universale e l’esaltazione della “comunità organica” contro il pluralismo democratico ed il métissage.
Pastore truffato da avvocati ebrei
Il presidente del Palermo sotto accusa per frasi antisemite. Per lui è stata una “estorsione” da parte dell’agente del calciatore: “Una cosa simile in un ambito diverso accade in America dove ci sono avvocati per la maggior parte di estrazione ebraica che aspettano i propri futuri clienti fuori dai tribunali e ospedali promettendo consulenze gratuite che poi si rivelano invece con percentuali di provvigioni altissime, anche del 50%”
(testata nazionale, 11 novembre 2010)
La Gialappa’s nei guai per l’insulto razzista
“Hanno assolutamente ragione e per questo chiediamo scusa”. Così Santin a nome della Gialappa’s risponde all’Unione delle Comunità ebraiche italiane che (...) ha criticato l’uso del termine rabbino adoperato dal gruppo ieri sera nel corso di “Mai dire Grande Fratello” per indicare un concorrente tirchio (...)
(quotidiano online, 22 novembre 2011)
In maniera subdola certe metafore o soprannomi si insinuano nel linguaggio comune e così anche una satira per niente volgare e ormai collaudata come quella della Gialappa’s cade nella trappola della comunicazione che adopera le metafore razziste.
In una trasmissione radiofonica invece di usare l’aggettivo “avaro” (che pure vanta moltissimi sinonimi!) i Gialappa’s adottano il termine rabbino, che per antonomasia ha il medesimo significato. Di per sé non si tratta di una evidente azione razzista ed antisemita; ma la persistenza e la leggerezza con cui vengono utilizzati i termini e gli aggettivi che si riferiscono agli ebrei con accezione esclusivamente negativa e denigratoria, ricorrono in modo molto frequente e pericoloso, confermando di continuo quegli stessi stereotipi e pregiudizi veicolati sin dal Medioevo nella cultura antisemita europea .