Deriva dall’espressione inglese “hand in cap” (la mano nel cappello), con cui era chiamato un gioco d’azzardo inglese del 1600, che consisteva nell’introdurre una mano (hand) in un berretto (cap) ed estrarre delle monete. Poi si diffuse nella terminologia ippica. Alla fine dell’Ottocento handicap fu chiamato il peso extra imposto al cavallo superiore. Quindi inizialmente a portare l’handicap era il cavallo migliore, il più fortunato, in modo da rimettere in parità i cavalli meno dotati alla partenza della gara. Nel tempo la parola ha rovesciato il suo significato. E oggi, sempre dall’inglese to handicap (ostacolare, creare uno svantaggio, indica “lo svantaggio rappresentato da minorazioni di tipo motorio o sensoriale o intellettivo o affettivo ai fini di un normale inserimento nella vita sociale in tutte le sue manifestazioni” (Treccani). Da cui handicappato come aggettivo e poi come sostantivo: “che, o chi, per le condizioni fisiche o psichiche ha difficoltà, anche gravi, ad adattarsi all’ambiente circostante, venendo quindi a trovarsi in condizioni di minore validità, o di svantaggio, o addirittura d’ingiusta emarginazione”. L’handicap diventa quindi una condizione di svantaggio nei confronti degli altri, determinata da un deficit fisico o psichico. In Italia si diffonde nel linguaggio comune intorno alla metà degli anni Settanta dal mondo della scuola, dove era entrato come termine burocratico. Entrò nelle case di tutti gli italiani grazie al fatidico «handicap o cavallino?» con cui Mike Bongiorno interpellava i concorrenti del fortunato quiz Scommettiamo? A quei tempi sembrava un termine migliore e più scientifico per sostituire parole ancora in uso come storpio, sciancato, mongoloide. Ma in realtà handicap e handicappato sono termini generici che non designano una malattia specifica. Non hanno una definizione univoca, sono parole che accomunano sotto la stessa etichetta persone e casi diversi perché l’handicap è il risultato dell’incontro tra la persona con disabilità e l’ambiente. Nell’immaginario collettivo si tende di solito a confondere l’handicap con il deficit. Sono in realtà due concetti estremamente diversi. A differenza del deficit, che è proprio della persona, l’handicap deriva dal contesto . Deficit (dal latino deficere = mancare, essere carente), sia esso motorio, psichico o sensoriale, nella nostra lingua si riferisce a una mancanza oggettiva. Tuttavia, il deficit non è malattia, è solo il danno biologico che può derivare da una malattia, da un incidente o manifestarsi come una caratteristica presente dalla nascita. Il deficit, al contrario della malattia, è incurabile e resta sempre invariato.
Ecco come lo spiega Franco Bomprezzi, giornalista e opinionista:
Vi faccio un esempio: io che sono su carrozzina, entro in un bar per bere un Martini e incontro all’entrata tre gradini. In questo caso il mio deficit resta invariato, mentre il mio handicap aumenta.
Se invece di fronte al bar trovo una rampa, il mio deficit resta sempre uguale a differenza del mio handicap, che diminuisce. Ma c’è dell’altro. Quando entro nel bar, tutti si girano a guardarmi con gli occhi pieni di curiosità. Anche in questo caso il mio deficit resta invariato, ma ora vi chiedo: l’handicap di chi è? Solo di chi guarda, che non sa come rapportarsi con me e il mio deficit. Tutto ciò apre una riflessione interessante: il deficit è solo mio, l’handicap coinvolge tutto il contesto intorno a me.
La parola “handicappato” è molto simile a svantaggiato: indica una persona che ha uno svantaggio fisico, psichico o sensoriale. Questo si è tradotto nel linguaggio burocratico nel connotare un soggetto che ha e crea problemi. Infine, nel parlato comune il termine è usato anche con un significato di derisione o di insulto: “sembri un handicappato; ti muovi come un handicappato”. Il termine generale “handicap” di per sé è neutro perché si riferisce a una situazione di svantaggio. È scorretto legarlo alla persona, con un’espressione molto usata (che deriva anche dalle nostre leggi) come “portatore di handicap”. Questa locuzione sposta l’attenzione sulla persona, mentre in realtà l’handicap non è dentro ma è fuori perché dipende strettamente dalle barriere architettoniche. Parole come svantaggiato e handicappato sono “usate per chiamarsi fuori dalla cerchia e togliersi dalla responsabilità – dice Bomprezzi – in generale l’uso ripetuto dell’aggettivazione sostantivante è micidiale nella connotazione negativa e nella discriminazione della disibilità: vuol dire che non si riesce proprio a vedere la persona, c’è assolutamente bisogno di definirla rispetto all’handicap”.
Uno dei cliché dei giornalisti resta l’obiezione dobbiamo dire le cose come stanno o anche continuerò a chiamare le cose con il loro nome. “È la classica frase da giornalista – dice l’opinionista di Vita e Corriere.it - Il problema è che nessuno si ferma a pensare a qual è il loro nome, si dà per scontato che sia quel nome. Perché? La prima risposta è perché così tutti capiscono. Secondo questo ragionamento, quello che conta è la sostanza. La forma non è importante perché comunque raggiungo l’obiettivo di farmi capire”. Qui bisogna ricordare che dire sordo, cieco o handicappato non è la stessa cosa. I primi due termini sono corretti, l’ultimo no. “In questa idea comunque c’è del vero – riconosce il giornalista in carrozzina - è difficile far passare definizioni o parole che sono molto più rispettose della dignità della persona se poi queste parole vengono vissute come ipocrite o retoriche, o comunque non rispondenti a una sincerità di fondo”. Così con la disabilità entra in scena come sempre anche il contesto. Il percorso che resta da fare, a livello sociale, per fare corrispondere alle parole i fatti. Avere politiche inclusive migliori e arrivare a un avanzamento culturale complessivo della società verso quello che per una persona come Bomprezzi è evidente, ma che per milioni di persone non è evidente affatto. L’altro cliché giornalistico è la continua ricerca di sinonimi per una questione di stile di scrittura. “Abitualmente ci chiamano con una miriade di nomi tutti diversi: disabili, invalidi, invalidi civili, ipocinetici, affetti da deficit motorio che, a sentirlo, sembra si tratti di un nuovo modello di scooter...”, commenta il comico Zanza (David Anzalone), spastico dalla nascita.
L’“accanimento terapeutico” nell’uso dei sinonimi “ci crea delle crisi d’identità pazzesche, tanto che non sappiamo più chi siamo! Forse qualcuno si sente più sollevato nell’usare questi eufemismi, pensando di essere un intellettuale alla ricerca di un linguaggio democratico e sensibile” osserva Zanza, che si autodefinisce “comico fuori dal comune, che “non è normale e non ci tiene a esserlo”. “Sono convinto che non esistono i sinonimi, le parole sono diverse – dice ancora Bomprezzi - Invalido e portatore di handicap non possono sostituire persona con disabilità, la parola corretta è solo questa”. E non costituisce una giustificazione neanche la motivazione che “i disabili usano dire handicappato”, come lo stesso Zanza che ha scritto un libro e mette in scena un spettacolo dal titolo Handicappato e carogna. “C’è solo un contesto nel quale è ammissibile l’uso di queste parole e di altre pesantissime come storpio, sciancato, nano, vale a dire nel prendersi in giro fra disabili, perché ognuno riferito a se stesso può dire ciò che vuole – continua Bomprezzi - Ci vorrebbe un’etica delle parole, io non sono autorizzato a usare parole come barbone se quella persona non è un mio amico e non c’è un rapporto one to one alla pari, nè lui mi chiama handicappato, se non ho familiarizzato con lui. Quello che non va bene è che io mi arrogo di dire che quello è un barbone perché così mi capiscono tutti. Usando quella parola l’ho liquidato, l’ho messo in condizione di non interferire con me, l’ho messo ai margini della mia vita”.
Un’altra obiezione sulla necessità di usare “handicappato” e “portatore di handicap” è che sono espressioni contenute nella legge italiana di riferimento, la famosa n.104 del 1992, la quale a sua volta aveva mutuato i termini da una classificazione dell’Organizzazione mondiale della sanità del 1980, nota come Classificazione internazionale delle menomazioni, delle disabilità e degli handicap (Icidh). Ma la stessa Oms ha cancellato il termine “handicappato” all’inizio degli anni Duemila. La classificazione del 1980 si basava su questi tre concetti. La menomazione si riferisce a qualunque perdita o anomalia, transitoria o permanente, delle strutture anatomiche (compresi arti o tessuti) o di una funzione psicologica, fisiologica o anatomica. È un termine più ampio di disturbo, perchè riguarda anche le perdite: per esempio la perdita di una gamba è una menomazione ma non un disturbo. La disabilità, intesa come limitazione o mancanza di capacità, rispetto al normale, di compiere azioni o attività, causata dalla menomazione. Le disabilità, come le menomazioni, possono avere carattere transitorio o permanente ed essere reversibili o irreversibili, progressive o regressive. Possono insorgere come conseguenza diretta di una menomazione o come reazione del soggetto, specialmente da un punto di vista psicologico, a una menomazione. L’handicap, inteso come svantaggio e difficoltà incontrate dall’individuo nell’ambiente circostante a causa della disabilità che limita o impedisce l’adempimento di un ruolo sociale considerato normale in relazione all’età, al sesso, al contesto socio-culturale della persona (socializzazione). Quindi a rigore soltanto allo svantaggio si potrebbe applicare il termine inglese di handicap inteso come difficoltà subita dal disabile. Queste distinzioni sono risultate però problematiche nel tempo. Il concetto di disabilità così inteso, infatti, costituisce una deviazione dal comportamento o dall’attività “normalmente attesi”. Il concetto di handicap, per quanto definito come un “fenomeno sociale”, si traduce nella vecchia classificazione come impossibilità-incapacità del soggetto di fare come un “normale individuo”. Nel 2001 viene redatta la nuova Classificazione internazionale del funzionamento disabilità e salute (Icf), in cui si mette al centro la salute di tutte le persone, non solo quelle con disabilità, in relazione all’ambiente, al contesto con cui l’individuo interagisce, trovando ostacoli oppure miglioramento. Il focus si sposta dall’ambito medico e patologico a quello dell’individuo come “essere sociale”. Questa classificazione introduce l’espressione, diventata poi concetto giuridico, “persone con disabilità”. Ai tempi che cambiano si adeguano anche le associazioni. Ledha nasce nel 1979 come “Lega per i diritti degli handicappati” e all’epoca era correttissimo dire così. Oggi continua il suo impegno come “Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità”. L’Anfass, Associazione nazionale famiglie di fanciulli e adulti subnormali ha mantenuto l’acronimo ma ha cambiato la sigla in Associazione Nazionale di Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale.”Le parole non reggono al tempo – dice Bomprezzi - Il problema è lo stigma sulle persone con disabilità, quindi le parole automaticamente si connotano. Solo rovesciando il meccanismo, dando alle persone valore positivo e spazi nella società e nel lavoro, allora le parole possono reggere nel tempo”. Le classificazioni dell’Oms sono state il punto di svolta, molto recente, su millenni di pregiudizi che si riflettevano nel linguaggio per definire i disabili: Infermi, inabili, invalidi, minorati, incapaci. Alcune offese si sentono ancora “in gruppi giovanili e sul web per il piacere di trasgredire e di dire cose grevi e pesanti – commenta Bomprezzi - Spesso non ci si rende conto del danno che si produce”. Ad esempio, storpio, letteralmente è un aggettivo che indica persona deforme nelle braccia o nelle gambe, divenuto poi sinonimo di impedito e sciancato. La parola è discriminatoria perché indica l’intera persona a partire da una sua specifica caratteristica (figura retorica della sineddoche). Nelle sue origini etimologiche incerte, l’espressione ha già un’accezione negativa. Viene dal latino turpis, che significa brutto, riferito non solo alla deformità corporea, ma anche, per esempio, a un’alterata pronuncia delle parole.