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Campi nomadi/Paese dei campi/villaggi attrezzati

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Rom e sinti

Campi nomadi/Paese dei campi/villaggi attrezzati

Definizione

I cosiddetti campi nomadi sono in realtà ben diversi dall'idea di "spazio libero" a cui, anche secondo il vocabolario, rimanda la parola "campo", solitamente sono infatti strutture ben circostritte e anche anche sorvegliate e recintate. Lungi dall'essere veramente dei "campi sosta" destinati a coloro che si spostano perchè sono "nomadi", sono in realtà istituzionalizzati come luoghi dell'abitare per sole persone e famiglie appartenenti alle comunità rom, i quali non sono più "nomadi". "Sicuramente il primo mito da sfatare attorno a questa parola è l’idea di una sorta di naturalità o di origine culturale del campo, inteso in tutti i sensi- ci spiega in un'intervista Ulderico Daniele, ricercatore dell'Università di Roma Tre - Come se il campo fosse una cosa naturale dei rom, cosa non vera. I rom che sono in Italia da secoli vivono in casa. Solo tra i sinti nel nord del Paese è più diffusa una forma di piccolo nomadismo, con gruppi familiari che hanno acquistato dei terreni e si sono installati lì non costruendovi case standard ma case viaggianti o strutture più leggere che possono essere spostate all’interno delle microaree. Per il resto il nomadismo non è più praticato da circa un secolo". Questo per quanto riguarda i Rom e Sinti che sono italiani da generazioni e solitamente vivono in normali appartamenti (come in Calabria e in Abruzzo, ad esempio). Ma il "campo" non rappresenta la situazione normale o naturale anche se si esamina il caso dei Rom che arrivano come migranti dalla Romania e dall’ex Jugoslavia, per ragioni di sopravvivenza economica oppure perchè sono fuggiti negli anni Novanta dalla guerra nei Balcani. "Nei loro paesi d'origine non troviamo i campi nomadi come li troviamo oggi- continua il ricercatore - né le baracche, nè i container, si possono trovare quartieri separati per le famiglie rom ma non campi, è un abitare standard dopo i processi di sedentarizzazione e proletarizzazione degli ex regimi comunisti".

Quindi il campo non va naturalmente associato ai rom, ma al contrario va associato alle politiche fatte per i rom in Italia. La creazione dei campi rom e sosta è stata la risposta all’arrivo massiccio dei rom a metà degli anni Ottanta dai Balcani. "Undici regioni, tutte guidate da giunte di centro sinistra,  emanano leggi regionali per la creazione di campi sosta o nomadi, ovvero di luoghi esclusivi dove vanno ad abitare solo i rom, pensati in funzione di una presunta identità culturale dei rom, definita attraverso le parole nomade oppure zingaro. E così il campo nomade diventa il luogo che le istituzioni attribuiscono ai rom - spiega Daniele - Da qui nasce una storia dei termini campo nomade, campo sosta, campo rom…di un’area che le istituzioni hanno destinato all’accoglienza dei rom". La pratica del concentramento è stata delle istituzioni, nei campi vivono solo rom portati in quel luogo dopo essere stati sgomberati dalle autorità da altri campi, spesso anche da quelli creati dalle precedenti amministrazioni. Insomma i Rom non vanno da soli a vivere nei campi, dove vengono trasferiti anche con la forza. Un'analisi anche storica della terminologia impiegata frequentemente negli ultimi anni a livello locale e nazionale può essere utile a chiarire questo punto e a demistificare la realtà. 

Il campo può essere “tollerato”, termine che ha utilizzato l'allora sindaco di Roma Francesco Rutelli nel 1995 per la prima volta e poi è stato ripreso nel Piano Nomadi della giunta Alemanno nel 2009. "L'espressione "campo tollerato" vuol dire che le strutture non sono esattamente conformi a come dovrebbero essere - dice il ricercatore universitario - che la localizzazione non è pienamente accettabile dal punto di vista delle istituzioni, magari le amministrazioni ci hanno messo dei soldi. La cosa può essere tollerata non accettata". 

Il campo "attrezzato" come espressione nasce invece a metà degli anni Novanta e definisce uno spazio che il comune ha pienamente destinato all’accoglienza dei rom, installandovi unità abitative fisse e servizi essenziali come acqua ed elettricità nei container, è un’evoluzione di un campo tollerato con costi dell’amministrazione locale (progetti sociali, ad esempio l'accompagnamento a scuola dei minori e servizi di controllo, come la guardiania e la vigilanza). Il "villaggio della solidarietà" è l’evoluzione ulteriore di questo tipo di struttura. "La cornice di questa riflessione sui termini è che ogni giunta comunale ha il suo alfabeto, ma la realtà è sempre la stessa", commenta Ulderico Daniele alla luce delle esperienze di studio sulle comunità rom che negli anni sono state continuamente "ridislocate" dal Campidoglio nei vari tipi di campi.

Il ricercatore del terzo ateneo romano spiega ancora che "l’aggettivo ‘attrezzato’ definisce in qualche modo la storia di quel campo, mentre il passaggio da campo a villaggio è la costruzione di un eufemismo da parte dell’amministrazione comunale (che lo usò quando venne costruito il campo di Castel Romano)". I villaggi sono quelli creati intorno al 2007 con il  primo patto di sicurezza, con l'amministrazione Veltroni e il coinvolgimento dell'allora governo Prodi. 

"Ma negli anni non cambia la logica alla base delle politiche per i rom - continua Daniele -creare grande strutture di accoglienza per un problema emergenziale, è l’idea di un campo profughi che ruota attorno alla città". Il termine "villaggio della solidarietà" è un eufemismo, "perché dentro il non ci vanno gli ultimi arrivati a Lampedusa ma persone che sono nella città da anni e anni se non da decenni- commenta il ricercatore - Il villaggio sembra rappresentare un’involuzione, chi è che vive nel villaggio o non in città? I villaggi non cambiano in nulla rispetto al campo. L’ultima novità sono i container con l’aria condizionata, un’evoluzione tecnica che non cambia la sostanza".

Infine esiste il cosiddetto "campo abusivo", che è una realtà abitativa prodotta solo dai rom senza alcun tipo di intervento delle istituzioni. Secondo Daniele, "il termine abusivo è assolutamente sbagliato e ha una forma di giudizio negativo sulla presenza dei rom in città, rimanda a un abusivismo delle presenze dei rom.". Lo studioso precisa che "abusiva è una costruzione realizzata senza le autorizzazioni per costruire, il problema è che se dentro l'abitazione abusiva abitano persone che non praticano questa forma di abusivismo né per guadagno, né avendone in cambio condizioni abitative sfarzose, usare questo aggettivo fa sembrare abusive le persone. Tant’è che quando con gli sgomberi si buttano giù le baracche si cerca di mandare via le persone dalla città se non dalla nazione. Termini corretti sono insediamento spontaneo o informale". 

Come comportarsi dunque davanti alla cronaca di uno sgombero o al racconto giornalistico di questo tipo di comunità? "Il problema è che se io devo descrivere la baracca dico che è abusiva, se devo descrivere la condizione di quelle persone che ci abitano e che hanno cercato un posto dove vivere devo dire ‘insediamento’ e non campo perché è una parola già connotata da quello che abbiamo detto prima - risponde Daniele - spontaeo oppure informale perché devo rendere conto che non segue regole e procedure ma è fatto secondo le risorse e le strategie di quelle persone. Abusivo dà l’idea che deve essere abbattuto. È un atteggiamento valoriale e culturale, in termini di oggettività e descrittivi il campo semantico legato a insediamento informale o spontaneo è più ampio. Tant’è che non ci si trovano solo i rom, ma anche migranti ma fanno pensare alle baraccopoli dei meridionali di mezzo secolo fa, c’è una filmografia e dei romanzi che ce le hanno raccontate in modo più ampio che non solo l’abusivismo".  

Uso del termine

L’Italia è considerato "il paese dei campi", una particolarità che distingue il nostro Paese dalle altre nazioni europee. Dezideriu Gergely, rom e direttore del Centro Europeo per i Diritti dei Rom (European Roma Rights Center), con sede a Budapest, sottolinea in una nostra intervista che "l’approccio del governo italiano di mettere su dei campi dove sono collocati i rom è principalmente una prospettiva italiana, ed è molto sbagliato perché parte da una assunto sbagliato che i rom sono nomadi, ma i rom in Italia non hanno uno stile di vita nomade e anche quelli che arrivano da altri paesi non sono nomadi". Dunque alla base dell’azione del governo italiano nei confronti dei Rom, c’è la convinzione che questi siano “nomadi”. Il paese dei campi è il titolo di un rapporto nazionale sull'Italia realizzato proprio dall'Errc nel 2000. "Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, dieci regioni italiane hanno adottato delle leggi per la protezione delle culture nomadi attraverso la costruzione di campi segregati- si legge nel dossier - Questo progetto ha reso ufficiale la percezione che tutti i Rom e Sinti siano nomadi e che possano vivere solo in campi isolati dal resto della società italiana Il risultato è che molti Rom sono stati effettivamente forzati a vivere la romantica e repressiva immagine degli Italiani; le autorità italiane sostengono che il loro desiderio di vivere in vere case non è autentico e li relegano in “campi nomadi”.[1]

Gergely sottolinea inoltre che l’approccio è sbagliato perchè la questione è vista dal punto di vista della sicurezza, come dimostra la dichiarazione dello Stato di Emergenza nel 2008. "Il consiglio di Stato ha detto che è illegale perché non c’è minaccia per l’ordine pubblico - dice il direttore dell'Errc - La prospettiva giusta è l'inclusione sociale, non la discriminazione. In semplici parole, bisogna includere i rom nella società e non metterli ai margini, nelle periferie senza servizi sociali. Mettere le persone insieme non separarle. Negli altri paesi ci sono molti buon esempi, la commissione europea sta chiedendo che i rom accedano alle politiche per l’alloggio, ai servizi sociali, alla scuola e alla sanità. Al contrario i campi sono soluzioni basate sulla sicurezza e la segregazione, con all'ingresso il controllo dei documenti e la vigilanza con le telecamere". 

Secondo il rapporto dell'Errc "la descrizione dei Rom come “nomadi” non è usata solo per segregare i Rom e per ridurli a una condizione infantile, ma anche per rinforzare l’idea corrente che i Rom non sono italiani e che non hanno nulla a che fare con l’Italia...Così, gli uffici che si occupano di Rom sono chiamati “Uffici nomadi” e ricadono nella sfera di competenza della politica dell’immigrazione. Analogamente, l’esistenza di uffici locali per “Stranieri e nomadi” indica che i Rom appaiono agli occhi dell’autorità italiana come stranieri e vagabondi. Questi uffici sono responsabili anche per i Rom e i Sinti che non sono affatto immigrati ma cittadini italiani a tutti gli effetti". 

Infine, il rapporto conclude che "il paese dei campi" attua una vera discriminazione razziale perchè "la maggior parte dei Rom in Italia vive in una condizione di isolamento dal resto della società". Errc spiega il perchè:"per oltre metà dei Rom la separazione è fisica: in certe zone sono segregati, vivono in condizioni di estrema povertà e degrado, privi delle minime infrastrutture. ...Possono essere soggetti a sgombero in ogni momento, e questa possibilità si realizza di frequente. Una società razzista spinge questi Rom ai margini e impedisce la loro integrazione. I loro stanziamenti sono spesso definiti “illegali” o “abusivi”. Dice ancora il dossier:

L’Italia è il solo paese in Europa a promuovere un sistema di ghetti, organizzato e sostenuto pubblicamente, con lo scopo di privare i Rom di una piena partecipazione alla vita italiana, o addirittura di avere un contatto e dei rapporti con essa. Questi Rom vivono, secondo il gergo italiano, in “campi” o squallidi ghetti, questi “autorizzati”.

"La separazione fisica tra Rom e non Rom in Italia è tanto forte da lasciare quasi in ombra tutti gli altri aspetti - arriva a concludere il rapporto - Molte altre questioni legate ai diritti umani prenderebbero altre proporzioni se i Rom non fossero ghettizzati nei campi autorizzati o completamente esclusi da qualsiasi altra decente soluzione abitativa. Gli abusi commessi durante le sistematiche azioni di polizia sarebbero inconcepibili senza la vulnerabilità derivante dall’indecenza della vita nei campi. La discussione sul diritto all’educazione sarebbe ben diversa se la frequenza dei bambini non fosse ostacolata dalla separazione fisica dagli istituti scolastici. Tuttavia, la condizione estrema di segregazione dei Rom in Italia, che non si limita alla presenza di un recinto e di un guardiano, ha forse messo in ombra gli altri problemi con cui si confrontano i Rom. Messe da parte le drammatiche insidie della segregazione, il nocciolo della questione emerge in primo piano: razzismo e discriminazione a sfondo etnico". 

Riportiamo qui alcune testimonianze dirette che abbiamo raccolto nel corso del 2012 nel campo rom, detto "villaggio della solidarietà" di Castel Romano, sulla via pontina, ai margini dell'estrema periferia della Capitale. Claudio Hamidovic è nato a roma ed è un cittadino italiano di 19 anni. "Al campo non viviamo bene, siamo isolati, non abbiamo mezzi- dice -I miei coetanei non mi vedono come un italiano, ancora mi vedono come uno zingaro perché anch’io non lavoro e qua non c’è integrazione con altre persone. Ho lasciato le scuole superiori a 16 anni, perché da qui la scuola è troppo lontana. Alle medie ti permettono di entrare anche alle 9.30 ma alle superiori devi entrare alle 8 e non potevo più frequentare perché l’autobus non arriva in tempo. Volevo fare il parrucchiere o il cuoco. Invece adesso non faccio niente. Sono sposato e ho un figlio di 20 giorni. Se trovo un lavoro non dico che sono un rom, perché sennò non mi accettano. Tanti sono stati licenziati quando i datori di lavoro hanno saputo che erano rom".

Il campo di Castel Romano è diviso in aree che portano le iniziali dei portavoce delle diverse comunità "ridislocate" dal comune di Roma. Ci sono le aree D come dragan, K come Karl ed M come Meo Hamidovic.

"Qui non abbiamo indipendenza per fare la spesa, andare a scuola o fare una visita medica - afferma -L’acqua esce torbida dai rubinetti, si deve comprare anche l'acqua che serve per cucinare però serve la macchina per procurarsi l’acqua. Non si può andare a piedi sulla via Pontina, là rischia la vita. Una ragazza ventenne cittadina italiana del campo, incinta, attraversava a piedi per andare a fare la spesa ed è morta investita da un'automobile. Le macchine qua davanti sfrecciano a oltre 100 chilometri l’ora. La nostra situazione è peggiorata. È un ghetto, isolato dalla città, senza collegamenti, neanche un autobus, senza giochi per i bambini, i nostri figli arrivano sempre in ritardo a scuola, non c’è nessuna integrazione qua, le famiglie non hanno possibilità di mantenersi, noi non possiamo più resistere. Qua non possiamo proprio più vivere".

Ferid Sejdic era il portavoce dei rom del campo di Tor de Cenci, distrutto in una delle ultime operazioni del Piano Nomadi della giunta Alemanno. La comunità degli ex abitanti è stata trasferita nel nuovo campo di La Barbuta e in parte a Castel Romano.

"Il problema è che se un rom vive in un campo è difficile cambiare la sua vita, nessuno lo accetta come persona onesta - dice Sejdic -I campi portano male al nostro futuro, ai nostri figli, se un bambino nasce e si sposa in un campo nomadi, siamo alla terza generazione che nasce nomade nel campo. I miei figli non hanno mai dormito a casa, io dormivo a casa e mio padre lavorava e io andavo a scuola. Cambiare un campo per un altro campo, non c’è nessun futuro. Se dal campo ci mandano in una casa non c’è da discutere. Se vado in un campo dove stanno altre 1000 persone in cui nessuno lavora, non c’è la fermata dell’autobus, non capisco come si può vivere in queste condizioni. Come ci si può integrare lontano dalla città? La situazione può solo peggiorare".

Nei suoi rapporti e comunicati l'Associazione 21 Luglio che lotta per i diritti dei Rom, usa le espressioni “cosiddetto campo nomadi” e virgolettato "villaggio attrezzato". Questo perchè "sono luoghi in cui sono concentrate delle persone su base etnica" spiega il presidente Carlo Stasolla. Mentre sui c.d. "campi abusivi", Stasolla sottolinea che "seguendo i documenti europei è giusto dire insediamento informale/spontaneo oppure formale (autorizzato). Bisogna evitare assolutamente il termine ‘campi abusivi’ perché anche il villaggio attrezzato è abusivo visto che non risponde alle norme igieniche dell'asl.Se Sostituiamo nella stampa le parole zingaro, rom, nomade con la parola ‘ebreo’ che reazione avremmo? L’opinione pubblica si assuefà al fatto che con i rom tutto è consentito. Si identifica una condizione di vita (povertà) con una scelta culturale (fatto culturale)".

“Non è stata una grande violenza. Li abbiamo fatti prima uscire dalle casarelle che hanno costruito. Loro sono usciti e noi le abbiamo incendiate per non farli ritornare”. Una donna di Ponticelli intervistata dal Tg2 a maggio 2008. 

A riportare questa frase significativa è Nando Sigona, del Centro Studi sui Rifugiati dell'Università di Oxford, nel corso di una presentazione sul tema organizzata dall'Associazione 21 Luglio nel 2012. Sulla questione delle politiche locali e nazionali in Italia destinate ai Rom, Sigona propone questa distinzione temporale: 

  • Dall’inizio degli anni '80 all’inizio degli anni '90 si promulgano leggi regionali che mirano a una sorta di "protezione della cultura nomade".  
  • Anni 90, l'arrivo profughi di guerra dalla ex Jugoslavia. Non essendoci una legge sull’asilo, i campi nomadi si trasformano in campi profughi. Così non viene riconosciuto ai rom il diritto all'asilo e di poter essere vittime di persecuzione all’interno di una guerra etnica.
  • Anni duemila: allargamento Ue, libertà di movimento e ricerca di nuove forme di contenimento. Si passa dal modello riserva indiana a Guantanamo.
  • Con l’omicidio Reggiani per la prima volta la questione rom salta dal livello locale a quello nazionale e le politiche di espulsione dallo spazio urbano aumentano perché diventa una questione securitaria, entra come tema della campagna elettorale.
  • La dichiarazione dello stato di emergenza, che, secondo Sigona, "è del tutto assurdo".   

"Questo senso di normalità, noi siamo stati gentili perché non li abbiamo bruciati, noi li abbiamo fatti uscire…le famiglie che celebrano i fuochi di Ponticelli...l’incendio del campo mostra l’importanza di affrontare la questione del razzismo come priorità" conclude il ricercatore. 

La parola nomadi inizia a essere utilizzata nel contesto italiano per parlare delle popolazioni rom e sinti alla fine dell’Ottocento corrisponde al processo di unificazione dell’Italia, l’Italia debole come Stato cercava di identificare un nemico interno che potesse costruire contro l’idea della persona stanziale. Questa idea non è molto originale. Kant parlava dei vagabondi per natura come un pericolo per lo stato, una minaccia. A partire dalla fase successiva alla seconda guerra mondiale, l’utilizzo del termine nomadi diventa il modo per giustificare un certo tipo di politiche sociali: la costruzione dei c.d. campi nomadi, giustificati in quanto strumento per permettere a questi gruppi (che si assume siano viaggianti) di continuare a muoversi. La storia dell’utilizzo della parola nomadi si sviluppa nel corso dei decenni. Continua a essere usata negli anni 90, ai profughi di guerra viene negato lo status di rifugiati perché si assume che sono nomadi e lo status si assegna a chi ha lasciato  la propria casa. Molti rom vivono per generazioni senza permesso di soggiorno o nell’illegalità. Il campo nomadi diventa il posto in cui possono sopravvivere senza documenti di residenza, ma nel momento in cui provano a uscirne, non ci sono vie per l’accesso al lavoro regolare. Perdono quel minimo di rete di protezione che il campo provvedeva.

Sul falso uso della parola nomadi, gli studiosi concordano. "La parola nomadi indica non correttamente una modalità culturale che si vuole associare a questi gruppi - afferma Sigona -In realtà al giorno d’oggi coloro i quali hanno ancora una modalità di vita itinerante sono pochissimi. E bisogna riconoscere che non è un nomadismo romantico o non motivato: quelli che si muovevano negli anni Settanta lo facevano per lavoro, perchè erano giostari o mercanti in giro per i mercati". Si trattava di gruppi itineranti presenti nel nord Italia, soprattutto i sinti giostrai, i sinti piemontesi. "Però anche per i sinti in realtà le modalità di sopravvivenza economica sono cambiate e non c’è più bisogno di muoversi continuamente - spiega il ricercatore di Oxford - A Mantova per esempio, i sinti vivono in appezzamenti di terra che hanno comprato, su case che in teoria sono mobili, ma che in realtà non si muovono mai".

Quindi il problema è storico e culturale. "La Jugoslavia è stata il primo stato a riconoscere i rom come minoranza etnica, nel 1973 con la Costituzione sotto Tito- continua Sigona - Se si riconosce il valore culturale di questi gruppi, che hanno una lingua, una storia, si crea nelle persone fiducia nello Stato. I rom oggi hanno una grande sfiducia nei confronti delle istituzioni locali e nazionali in un paese come l’Italia perché vengono da una storia di rifiuti, di abusi, di mancanza di protezione. Nell’ex Jugoslavia i rom lavoravano come giornalisti, intellettuali, poeti, operai nelle fabbriche. Una varietà che manca in Italia: anche se ci sono queste persone non le sappiamo riconoscere. Invece vediamo che sono nomadi per forza. Assistiamo alle continue espulsioni, sgomberi delle case, distruzioni delle proprietà private, al pogrom di Ponticelli. I giudici non proteggono i rom dal razzismo. I rom non si sentono protetti nella maggiorparte dei casi".

Spesso nei piani pensati per i Rom ci si riferisce alla costruzione di cosiddetti "campi modello". "Ogni volta che si parla di campo modello, la domanda successiva deve essere: modello di cosa?- commenta il ricercatore - I campi come quelli che ha costruito l’amministrazione Alemanno a Roma sono chiaramente spazi di reclusione, di separazione, non hanno niente a che vedere con l’idea di promuovere la partecipazione dei rom, sono costruiti fuori dalla cinta urbana, in ambienti naturali dove le persone non hanno contatto. Uno dei problemi legati alla localizzazione dei nuovi campi è il fatto che i bambini impiegano ore per arrivare a scuola e poi ci si lamenta se non vanno a scuola. Se un bambino rom si trova ad arrivare a scuola alle 10 di mattina invece che alle 8 è chiaro che viene identificato come diverso". (vedi anche scolarizzazione)

Secondo Sigona il modello comunicativo prevalente rafforza stereotipi, esclusione e politiche securitarie. "Le storie di coloro che lasciano i campi per andare nelle case popolari non le sentiamo- dice - Ci sarebbe bisogno di conoscere queste storie all’interno del dibattito pubblico per fare politiche non basate su stereotipi Sembra quasi che il problema siano solo rom e sinti, in realtà c’è un probelma di intolleranza e discriminazione diffusa verso questi gruppi, per cui dobbiamo includere nelle politiche per i rom anche quelle per i non rom. Sembra che vogliamo salvare i rom da loro stessi, ma questo è sbagliato, non ci porta da nessuna parte".

Ma allora quali soluzioni si possono proporre? 

Per Zeljko Jovanovic, rom e direttore di Open Society Roma Initiatives, "senza consultazioni e dialogo fra le persone che vivono nei campi e il governo, nessuna politica di integrazione sarà possibile. Si spendono un sacco di soldi per riprodurre e mantenere l’esclusione sociale e la segregazione dei rom. Abbiamo lavorato per anni in Europa centrale e orientale. I più grandi progressi sono nell’istruzione perché abbiamo migliaia di studenti universitari e laureati rom. Ci sono le soluzioni, l’Italia deve cercarle. Il governo ha mostrato volontà politica con la strategia nazionale, ma ci sono problemi con le autorità locali regionali e comunali che mantengono lo status quo. È un fatto che il fallimento dell’integrazione dei rom dipende da come sono state spese male le risorse economiche per tenere i rom fuori dal mercato del lavoro,  perchè se lavorano possono pagare tasse, affitti bollette e via dicendo. Il pregiudizio deve essere spezzato raccontando la realtà: alcuni rom sono ladri, alcuni italiani sono ladri e non pagano le tasse. La generalizzazione non aiuta nessuno".

Casa, lavoro, istruzione e salute: sono i quattro pilastri per l'inclusione delle comunità rom secondo l'Unione europea. Un obiettivo collegato, per la prima volta, direttamente alla crescita dell'Ue per il 2020. I 12 milioni di rom sono la principale minoranza europea, ma sono spesso vittime di razzismo ed emarginazione, vivendo in condizioni di estrema povertà. Secondo la Banca mondiale, un'integrazione completa dei rom potrebbe garantire un incremento di circa 0,5 miliardi di euro l'anno per le economie di alcuni Paesi, permettendo di aumentare la produttività, tagliare le spese sociali e aumentare le entrate fiscali. Per tutti i problemi di emerginazione ci sono a disposizione 26 miliardi e mezzo di euro per il quinquennio 2007 - 2013, ma Bruxelles lamenta che gli Stati abbiano impiegato pochi soldi per alleviare le condizioni di svantaggio delle popolazioni rom. Per questo, László Andor, commissario UE responsabile per l'Occupazione, gli Affari sociali e l'Integrazione, ha lanciato un altolà. Secondo Andor è necessario che "gli Stati membri dispongano di un'adeguata strategia di inclusione dei rom prima di ricevere gli stanziamenti del Fondo sociale europeo destinati a tale strategia nell'esercizio finanziario 2014-2020". Quindi, nel 2012 tutti i Paesi membri dell'Unione europea hanno dovuto presentare il proprio programma nazionale per l'inclusione delle comunità rom. Il piano presentato dall'Italia attraverso l'allora ministro per la Cooperazione e l'Integrazione Andrea Riccardi, contiene una posizione chiara e forte contro "il sistema dei campi nomadi", nei quali da decenni le amministrazioni locali concentrano e segregano le comunità rom su base etnica.

Ma da Strasburgo, il 18 settembre 2012, circa sei mesi dopo la presentazione della Strategia Nazionale italiana per l'inclusione dei rom e dei sinti, è arrivato il durissimo rapporto di Nils Muižnieks, Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, a seguito della visita in Italia dal 3 al 6 luglio 2012, che parla senza mezzi termini di "campi segregati", citando anche le espressioni eufemistiche "campi modello" e "villaggi attrezzati". Eccone di seguito alcuni stralci: 

Il Commissario ritiene fermamente che le politiche dei campi segregati e degli sgomberi forzati, che hanno caratterizzato l’approccio dell’"Emergenza nomadi", siano diametralmente opposte alla nuova Strategia nazionale per l'inclusione dei Rom e dei Sinti, e che vadano pertanto relegate definitivamente nel passato.   Esorta, pertanto, il governo a dichiarare senza mezzi termini che la politica emergenziale è stata definitivamente accantonata, a prescindere dall'esito del ricorso, e di impegnarsi ad interrompere immediatamente eventuali iniziative in corso riguardo alla costruzione di campi segregati egli sgomberi. Il Commissario rileva che la partecipazione delle comunità interessate alle scelte che incidono sulla loro situazione abitativa è essenziale per il successo delle politiche future. Il Commissario è seriamente preoccupato del continuo reinvigorimento dell’antiziganismo nel dibattito politico e nei media. Il Commissario accoglie favorevolmente il fatto che il nuovo governo in carica abbia volutoimprimere, in particolare attraverso le dichiarazioni rese dal Ministro per la CooperazioneInternazionale e l'Integrazione, uno spostamento verso una politica d’inclusione sociale delle comunità Rom e Sinti, dopo lunghi anni di politiche incentrate essenzialmente su questioni di sicurezza e leggi emergenziali. Tuttavia, per il momento, tali segnali non si sono tradotti in politiche e interventi concreti ed inequivocabili. Di conseguenza, molti membri delle comunità Rom e Sinti in Italia vivono ancora una situazione di totale esclusione ed emarginazione e subiscono, ancora oggi, trattamenti che sono in contrasto con le norme in materia di dirittiumani, fra cui sgomberi forzati e la costruzione di campi segregati.

 

Nel corso della visita a Roma, il Commissario ha visitato uno dei sopra citati "villaggi attrezzati", il campo di Via Salone, ed ha potuto constatare di prima mano la segregazione imposta allefamiglie Rom ivi trasferite tramite sgombero forzato. Il più grande di 8 campi analoghi a Roma,l'insediamento è stato aperto nel 2006 e si stima che allo stato attuale accolga 1.100 persone. E' circondato da una recinzione metallica, sono presenti videocamere di sorveglianza, e vi si puòaccedere tramite un unico ingresso presidiato. Il campo si trova in una zona remota; i trasporti pubblici, le scuole, i negozi, le strutture sanitarie ed altri servizi distano diversi chilometri e sono raggiungibili solamente percorrendo una strada trafficata sprovvista di marciapiedi, attraversamenti o semafori pedonali. E' stato riferito al Commissario che una vicina stazione della rete ferroviaria regionale era rimasta chiusa fino all’aprile del 2010per "motivi di ordine pubblico legati alla presenza dei campi nomadi", e che alla riapertura Trenitalia aveva chiesto al personale di compilare dei moduli per contare il numero e segnalare la presenza di "eventuali passeggeri di etnia Rom".

L'isolamento, la mancata interazione con il mondo esterno e l’assenza di prospettive d'impiego e d’inclusione nel tessuto sociale sono tra le principali lamentele riferite dagli abitanti di questo campo che il Commissario ha incontrato. Gli è stato anche detto che le condizioni strutturali e divita nel campo hanno subito un degrado considerevole dai tempi della sua inaugurazione,soprattuto a causa del sovraffollamento provocato da un forte aumento del numero di sgomberi effettuati nell'ambito dell’"emergenza nomadi". Al Commissario è stato detto che il campo è talmente distante dalle scuole che i bambini vi arrivano in ritardo, riducendo così il numero di ore che vi trascorrono, dopo esservi stati trasportati in condizioni di segregazione (sembrerebbe in pulmini speciali contrassegnati con la lettera N). Gli è stato inoltre riferito che nonostante la spesa considerevole sostenuta dalle autorità pubbliche, la frequenza scolastica continua a rimanere bassa a causa di queste circostanze.

Il Commissario è stato informato del fatto che in diverse occasioni le autorità locali hanno dichiarato di considerare l’insediamento di Via Salone come un campo modello, e che l'ultimo "villaggio attrezzato", La Barbuta, era stato concepito nello stesso modo. Tuttavia, ilCommissario è del parere che le condizioni di segregazione riscontrate in questi campi nonconsentano agli abitanti di trovare una attività lavorativa retribuita, né danno loro la possibilità di interagire con persone di etnia non-Rom per cercare di integrarsi nel tessuto sociale. Ha anche potuto constatare di persona le condizioni di vita al di sotto dei requisiti minimi vigenti in un ex campo autorizzato (Salviati II), che dimostra quanto velocemente le condizioni possono deteriorarsi in un tale contesto di segregazione.

  

  

 

[1] ERRC, Il paese dei campi. La segregazione razziale dei Rom in Italia, serie “Rapporti nazionali”, n. 9, ottobre 2000 

 

Dati

Secondo il rapporto conclusivo dell'indagine conoscitiva avviata nell'ottobre del 2009 dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, sono circa 40 mila i Rom, Sinti e Caminanti che vivono nei campi: questo dato rappresenterebbe quindi tra un quarto e un quinto della popolazione complessiva, anche se, specifica il rapporto, "è difficile conoscere la quantità e l'ubicazione esatta di questi campi, in quanto  molti insediamenti sono abusivi, abitati da poche decine di persone, oppure resistono per poco tempo".

In ogni caso, la popolazione Rom, Sinti e Caminanti che vive nei campi si concentra principalmente nelle grandi città. Al momento in cui è stata svolta l'indagine, a Roma sono stati censiti oltre 100 campi, di cui 7 villaggi autorizzati, 14 campi tollerati e oltre 80 insediamenti abusivi: in questi spazi vivevano 7.177 persone. A Milano (dati Ismu) esistevano 45 campi (con una popolazione di circa 4.310 persone) ai quali ne vanno aggiunti un centinaio (2.300-3.100 persone) nel resto della provincia. 

"I campi consistono in roulotte, container o piccole baracche in lamiera o altri materiali di
fortuna. In quelli non autorizzati manca l'acqua corrente, i sistemi fognari, l'illuminazione e il
riscaldamento. Le condizione igieniche e sanitarie sono molto precarie" si legge nella relazione.

Il Centro europeo dei diritti dei Rom (Errc) che aveva svolto una famosa indagine in Italia dieci anni prima, aveva rilevato che "la taglia dei campi varia: possono ospitare da una dozzina di persone, , a oltre millecinquecento" e che "circa il 95% dei Rom residenti nei campi visitati dall’ERRC erano immigrati o figli di immigrati; gli altri, Rom o Sinti italiani. Circa il 70% degli immigranti rom provengono dalla ex-Jugoslavia. Un altro gruppo importante (circa il 25%) proviene dalla Romania; il restante 5% è composto di piccoli gruppi e individui di vari paesi."[1] 

La politica dei campi, come abbiamo spiegato in precedenza, non nasce come precisa scelta nazionale ma come una politica locale e regionale che poi si allarga a tutto il territorio nazionale, così l'Italia diventa il "paese dei campi".

Una volta arrivati nel "paese dei campi", molti Rom da secoli sedentari in Jugoslavia devono "riziganizzarsi" alla occidentale e devono, se non diventare nomadi, vivere comunque in un campo senza fognature, in abitazioni con ruote o baracche. Fatti aderire all'immaginario corrente dello "zingaro ex nomade e inurbato", essi lo nutrono e lo modernizzano: oggi per tanti italiani lo zingaro è per definizione quello che abita in un campo fatiscente! La maggioranza di questi Rom, invece, i quali non hanno mai abitato in abitazioni mobili né in un"campo" di cui non hanno nemmeno il termine nella loro lingua, sperano che o kampo sia un momento transitorio della loro vita di profughi».[2] 

I costi del Piano Nomadi di Roma, nato con l'emergenza Nomadi del 2008, gestita attraverso i prefetti nominati commissari straordinari:

Il Piano romano è stato dotato di 32,5 milioni di euro, di cui 19,5 dal Ministero dell’Interno, 5 milioni dalla Regione Lazio, 8 milioni dal Comune. Nel gennaio 2011, è il Prefetto a riassumere in un’intervista le spese fino ad allora realizzate: “22 milioni per la ristrutturazione di 5 campi attrezzati. C’è poi l' acquisto dei terreni, dove abbiamo portato i servizi, la vigilanza privata, i saggi archeologici alla Barbuta, l' acquisto dei container, in media 10 mila euro per uno da sei persone, l' assistenza agli abitanti e la bonifica dell' ex Casilino 900, il foto-segnalamento dei rom e gli straordinari del personale delle forze dell' ordine (500 mila euro, ndr). E adesso ci sono i nuovi sgomberi dei micro-campi ”.  

La gestione dei campi. Accanto però alle risorse del Piano, ci sono i costi di gestione: “2,5 milioni annui per la scolarizzazione dei minori – calcola Carlo Stasolla, nel suo libro “Sulla pelle dei rom” -; 4 milioni nel solo 2011 per la gestione dei campi (di cui 1,3, al gestore privato di Camping River a Roma nord ndr); 3 milioni di euro per i centri di accoglienza comunale; 1,6 milioni annui per le bonifiche dell’Ama; 3 milioni all’anno per la vigilanza privata; i soldi per le bonifiche degli ex campi tollerati e per i campi abusivi sgomberati”. “Facendo una rapida somma – sostiene Stasolla -, quella del Piano Nomadi si rivela un affaire da 60 milioni di euro in tre anni. Ben 500 euro mensili spesi per ogni rom, se si scompone la cifra per le persone presenti nei villaggi attrezzati. Come una piccola-media azienda che si mantiene in piedi nonostante le criticità”. Si poteva trovare una soluzione alternativa? “Con 35-40 milioni di euro – attacca il presidente dell'Associazione 21 luglio – avremmo potuto dare casa a tutti i rom e sinti nei campi del nostro Paese. Ne avanzavano 15 per dare case agli italiani”.[3] Cifre assurde, soprattutto se si pensa che oltre alle violazioni dei diritti, le condizioni di vita dei rom della Capitale sono peggiorate. 

    

Il modello spagnolo: il 92% dei rom vive in casa, la metà ne è proprietario, il 44% lavora.

 In Italia qualche buona prassi ma solo per piccoli numeri. [4]

In Spagna gli 800mila gitani sono un vanto per la cultura nazionale, tanto che si parla del “modello spagnolo” come esempio per tutta l’Europa. I rom sono una minoranza sparsa in tutto il continente, ma nei paesi neocomunitari dell’Est Europa, Romania e Bulgaria, rappresentano fra il 7 e il 10% della popolazione. Negli Stati occidentali dell’Ue sono meno dello 0,5%. Con l’eccezione della Spagna dove arrivano al 2% sul totale degli abitanti e dove le famiglie rom vivono da generazioni integrate nei quartieri delle città. Flamenco a parte, non bisogna credere che gli spagnoli siano esenti dal razzismo verso i rom. I gitani partivano da condizioni peggiori rispetto a tutte le altre popolazioni romanì d’Europa. Sotto la dittatura di Franco, i gendarmi della Guardia Civile facevano spesso raid nei loro accampamenti e li costringevano a vagare per il Paese. Gli era vietato lavorare, studiare e perfino riunirsi in più di 4 persone. Ma dopo la morte del dittatore, la costituzione democratica è stata inclusiva rispetto a tutti i gruppi etnici. Essendo i gitani i cittadini più poveri, hanno beneficiato delle maggiori risorse destinate al welfare per le fasce deboli della popolazione. Non sono stati discriminati  nelle politiche per la casa, perché vengono trattati in questo ambito prima da spagnoli e poi da gitani.

Il ‘modello spagnolo’ funziona perché ha puntato prima di tutto ad alzare il tenore di vita delle  famiglie gipsy , investendo su istruzione e lavoro. Dopo trent’anni di programmi governativi, i risultati parlano da soli. Il 92% vive in appartamenti o case normali, la metà dei rom ha l’abitazione di prorietà, solo il 4% abita ancora nelle baracche. Tutti i bambini sono iscritti alla scuola elementare e l’analfabetismo complessivo è molto basso, attorno al 15%. Come scritto nella sua strategia nazionale, la Spagna sta lavorando a  ridurre l’abbandono scolastico (nel ciclo primario, l’obiettivo è di passare dall’attuale 22,5% al 15% nel 2015 e al 10% nel 2020). Il 44% dei rom lavorava nel 2011, ma il governo spagnolo punta ad arrivare al 50% nel 2015 e al 60% nel 2020, tramite la formazione professionale per le donne Rom. Il fiore all’occhiello è il programma “Acceder” della Fundación Secretariado Gitano(FSG), considerato uno dei migliori nell’Ue. Nato nel 2000, è stato recentemente esportato anche in Bosnia e in Romania. Consiste nell’insegnare un mestiere a giovani gitani disoccupati, fornendogli competenze pratiche che equivalgono a un diploma di scuola superiore.  Il percorso si conclude con l’impiego attraverso accordi speciali con aziende private. In 12 anni ha avuto oltre 67mila beneficiari con 45mila contratti di lavoro. Nel solo 2011, riporta il sito della Fsg,  Acceder ha interessato 14.663 persone, il 20% in più dell’anno precedente, di cui 2.957 hanno ottenuto un’occupazione.

Tutto questo è stato ottenuto mediante un ingente investimento economico negli ultimi 30 anni. Infatti la Spagna ha speso per l’inclusione sociale dei rom più di qualunque altro Paese dell’Unione. Il New York Times ha calcolato una cifra di 130 milioni di dollari solo dal 2007 al 2013, di cui 60 milioni di fondi europei.

Tornando all’Italia, i 150mila rom, pari allo 0,2% della popolazione, sono stati dichiarati un’emergenza per la sicurezza nel 2008 e destinatari di misure straordinarie, con diversi casi di pogrom nei campi da parte dei non rom. In Francia lo scenario è molto simile: sono 400mila, sempre lo 0,2% in rapporto a tutti i francesi, e sono stati espulsi in massa sia con Sarkozy sia con Hollande. Il loro destino si gioca fra ruspe demolitrici, “villaggi di inserimento” molto simili ai nostri “villaggi attrezzati” in cui vanno ricollocati coloro che vivono in insediamenti illegali, e folle che appiccano incendi alle loro case di fortuna.

In Italia ci sono delle buon pratiche, fino a questo momento però sono sporadiche e i numeri contenuti.  “Firenze da ormai oltre dieci anni ha avviato una politica di inclusione dei rom nelle graduatorie di case popolari – spiega Nando Sigona, ricercatore a Oxford - non si tratta di politiche eccezionali, i rom vengono aiutati a capire come funziona una graduatoria, fanno domanda e chi ha i requisiti riceve la casa popolare”.  Il comune di Falconara Marittima (An)  ha dato in concessione un’area a una cooperativa i cui soci sono persone rom, molti di origine italiana, per la realizzazione di un’attività turistico ricettiva. Nel 2006 a Genova è stato chiuso un campo autorizzato del centro che ospitava 122  bosniaci, parte dei quali sono stati trasferiti in case popolari, dislocati in più punti della città. Ci sono stati anche interventi di  mediazione nei confronti dei nuovi “vicini di  casa”, per garantire l’ inclusione nel nuovo contesto.  Il comune di Padova  ha il progetto “Dal campo nomadi alla città”. Con un finanziamento ministeriale, ha spostato 32 persone a vivere in 11 appartamenti, realizzati con l'autocostruzione, mediante il lavoro di  8 sinti che hanno seguito un percorso di formazione. Gli alloggi sono dell’Azienda territoriale per l'edilizia residenziale (Ater), l’affitto si paga in base al reddito.  A Torino, il comune ha attivato il progetto “Abit-azioni”, grazie al quale 21 famiglie rom hanno avuto accesso a un appartamento con un regolare contratto di affitto. Il sistema funziona attraverso un sostegno per il beneficiario, che però va sempre a scalare, permettendo una graduale assunzione dell’impegno a pagare il canone, e un sistema di incentivi economici per i proprietari di casa. 

 

[1] ERRC, Il paese dei campi. La segregazione razziale dei Rom in Italia, serie “Rapporti nazionali”, n. 9, ottobre 2000 

[2] Senato della Repubblica, Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, Sintesi del rapporto conclusivo dell'indagine sulla condizione di Rom, Sinti e Camminanti in Italia, 2011

[3] R.Cosentino, A.Fico, Nomadi il piano sbagliato, Repubblica.it novembre 2012

[4] R.Cosentino, Integrazione, casa e occupazione Come funziona il modello spagnolo, Repubblica.it novembre 2012

Alternative consigliate

L'espressione "campo nomadi" è scorretta perchè si tratta di luoghi destinate a persone che in realtà non sono "nomadi" (vedi il termine corrispondente) e sono state rese tali dalle politiche di continuo sgombero da parte delle autorità. Anche le espressioni come "villaggio attrezzato" o "villaggio della solidarieta'" andrebbero prese con le pinze all'interno di cronache giornalistiche che hanno il dovere di descrivere accuratamente i fatti e di non essere conformiste rispetto all'immagine propagandistica che le autorità cercano di diffondere sui media e presso l'opinione pubblica. Quindi il termine più corretto è "campo rom", che esso sia attrezzato o meno, è sempre una struttura di semi-segregazione in cui vengono collocate persone sulla base di un'appartenza etnica alle comunità rom. 

L'espressione "campo abusivo" andrebbe sostituita con "insediamento informale o spontaneo" per evitare di marchiare con lo stigma dell'essere "abusivi" le persone che vivono all'interno di quei luoghi, in abitazioni costruite senza regolari permessi ma non per frodare lo Stato (come nei casi delle ville abusive) ma per una situazione di estrema necessità, tanto che le costruzioni sono molto povere, più simili a baracche. 

 

Esempi / Casi tratti da testate giornalistiche

I residenti scrivono al ministro "Al campo rom situazione esplosiva"

(quotidiano nazionale, 23 marzo 2012)

«In lungo Stura Lazio le condizioni di vita non sono dignitose»

TORINO «Dato che gli enti locali ci ignorano, tenteremo con il governo». Esasperati da una situazione che va avanti da anni e che peggiora invece di trovar soluzione, gli oltre trecento residenti del Tavolo sociale di Barca e Bertolla provano ora a far arrivare fino a Roma il loro appello per il campo Rom di lungo Stura Lazio. Un mese e mezzo fa l’ultima richiesta di aiuto, una lettera a Comune, Provincia e Regione, con un messaggio chiaro: «La tensione è massima, temiamo il ripetersi di quanto successo a dicembre alla Continassa». Solo Palazzo civico ha risposto, ma quanto prospettato è insufficiente per i residenti


 

PIAZZALE LUGANO
Torna l' emergenza del campo rom

I panni stesi lungo la massicciata di giorno, le tende a decine che compaiono di notte in prossimità del cavalcavia Bacula. Il monitoraggio delle forze dell' ordine nei campi rom è costante. La polizia locale sta completando un nuovo censimento e le presenze di nuclei familiari provenienti dalla Romania sembrano essere raddoppiate nell' ultimo anno.

(quotidiano nazionale, 23 marzo 2012)

L’'ira dei rom: «No ai villaggi lager»

(edizione online di un quotidiano nazionale, 18 luglio 2007)

E ora hanno scelto di «non starci più». Dopo un «patto per la sicurezza» firmato altrove e passato sopra la loro testa, i rappresentanti delle comunità rom capitoline hanno deciso di far sentire la propria voce. Ed è una voce che si leva imperiosa, per denunciare il clima di discriminazione che li circonda - frutto, come spiegano, anche di un approccio errato al problema da parte del Campidoglio - e soprattutto, per dire no ai quattro «villaggi della solidarietà» che dovrebbero sorgere alle porte di Roma. Quattro nuovi maxi-insediamenti previsti dal Piano firmato lo scorso 18 maggio dal sindaco Veltroni e dal ministro dell’Interno, Giuliano Amato: «Sarebbero dei nuovi lager - avvertono -, decisi senza consultarci. Nessuno ricorda che ormai siamo stanziali per il 95 per cento, ma in Italia per noi i campi di concentramento esistono ancora». Teatro dello sfogo delle varie comunità, ieri mattina, la Facoltà di Statistica de «La Sapienza», dove si è tenuto l’incontro moderato dal docente universitario Marco Brazzoduro (che da anni si occupa della tematica). Il primo a parlare è Meo Hamidovic, rappresentante del mega-insediamento di Castel Romano sulla Pontina, dove il 14 settembre 2005 vennero trasferiti gli sgomberati dal campo di Vicolo Savini («in cui vivevamo come bestie», ricorda qualcuno). Mille persone «residenti» in 220 container, all’interno della riserva naturale di Decima-Malafede. Inquietante il quadro che dipinge Hamidovic: «Due anni fa, quando ci trasferirono qui, lo facemmo in maniera pacifica. Ma le nostre condizioni di vita sono spaventose: i nostri bambini vanno a scuola a 25 chilometri dal campo, in XI municipio. L'’insediamento è completamente esposto al sole e manca l’acqua potabile, che viene distribuita per sole due ore al giorno attraverso un pozzo». E che è putrida e inquinata, come appariva ieri quella nelle due bottiglie «campione» esposte sul tavolo della conferenza. «La etichetteremo come “Acqua della fonte della solidarietà“ - conclude l’esponente della comunità rom Korahanè - e domani ne faremo omaggio alle autorità (sindaco, presidenti dell’XI e XII municipio, consiglieri comunali) che parteciperanno alla serata (a base di musica e cibi rom, ndr) organizzata per far prendere loro coscienza di come viviamo. Veltroni segua l’esempio di Genova, dove ai rom sono state concesse quelle case popolari per cui alcuni di noi hanno fatto richiesta già dal 2000. Un provvedimento che ha consentito di chiudere i campi». «Chi a Roma - commenta l’artista rom abruzzese, Bruno Morelli - si riempie la bocca di parole come “intercultura“, “accoglienza“, “apertura“, poi si perde alla prova dei fatti, proponendo soluzioni come i villaggi della solidarietà: un modo gentile per definire quelli che saranno nuovi strumenti di controllo sociale e repressione». Ma le testimonianze vanno avanti per oltre due ore: da Graziano Halilovic del campo «La Barbuta» di Ciampino, che che si chiede come avverrà il trasferimento nei nuovi campi («deportandoci in massa?») e denuncia il fallimento delle politiche comunali d’integrazione scolastica, a Najo Adzovic dello storico campo «Casilino 900» («non avremo più diritti né futuro. Non siamo tutti delinquenti. È tempo di reagire») fino a Decebal, romeno dell’insediamento non autorizzato di Quintiliani, che se la prende con Veltroni: «Ha fatto venire qui i poliziotti romeni. Gli stessi che già venti anni fa distrussero le nostre case in patria». Un altro residente di Castel Romano, attacca invece le associazioni umanitarie, «che pensano solo ai loro interessi: è ora di trattare direttamente con il Comune». Applausi a scena aperta. Secondo il commissario romano di Fi, Francesco Giro, «la conferenza evidenzia drammaticamente quanto il patto per Roma sicura siglato da Veltroni sia assolutamente inadeguato, come dimostra la recente bocciatura da parte dalla Margherita». In serata Brazzoduro lancia l’allarme: «La commissione comunale che si sta occupando della locazione dei nuovi quattro campi si pronuncerà entro il 23 luglio prossimo». Mancherebbero pochi giri di lancette quindi, all’'esplosione di quella che appare sempre più come una potenziale bomba a orologeria

Il quotidiano che nel 2007 pubblica l'articolo qui sopra è lo stesso che nel 2011 pubblica quello che riportiamo qui in basso:

La strage dei fratellini Non tutti possono piangere i bimbi rom

La colpa di questa "tragedia orribile"? Per i buonisti di professione è del governo e di una società razzista nemica del multiculturalismo. Ma chi rifiuta l'integrazione sono gli zingari che del disprezzo della legge hanno fatto una cultura

(quotidiano nazionale, 8 febbraio 2011)

La morte dei bambini nel campo nomadi alle porte di Roma è davvero «una tragedia veramente orribile», come ha detto il sindaco Gianni Alemanno. Ma non più orribile di altre di identica, drammatica portata solo perché le vittime sono quattro piccoli rom. Però è questo, il voler dare alla tragedia una portata esorbitante addossandone poi la responsabilità a una parte politica e alla società «razzista» in generale, ciò che si propongono le prefiche della sinistra col loro vile, ipocrita piagnisteo. In casi simili deve prevalere la partecipazione e il sentimento di pietà, su questo non si discute. Ma escludere a priori una anche marginale responsabilità di «mamma Liliana» e «papà Mirko» che per recarsi al fast food lasciarono i quattro bambini soli - in una baracca di legno, cartone e lamiera dove ardeva una stufetta se non addirittura un falò -, escluderla per poter addossare l’intera colpa della tragedia alla «latitanza delle istituzioni» (cioè del governo, cioè di Berlusconi) e a un sindaco «incapace di gestire la politica dell’accoglienza» (così Vannino Chiti, commissario del Pd nel Lazio), è né più né meno che sciacallaggio. La politica dell’accoglienza: diciannove anni di amministrazione capitolina della sinistra di Vannino Chiti hanno forse mostrato, nella pratica, non a parole, quale sia la retta politica dell’accoglienza? O si vuol far credere che migliaia e migliaia di zingari si sono accampati a Roma solo a partire dal 28 aprile 2008, data dell’insediamento di Gianni Alemanno? Esempio di esemplare politica dell’accoglienza è forse il rogo nel campo nomadi a Livorno, città saldamente in mano alla sinistra, dove nell’agosto 2007 morirono tra le fiamme quattro fratellini? Non è la «maledetta burocrazia» denunciata da Alemanno la sola responsabile del persistere dell’«emergenza nomadi». Conta, in modo preminente, l’ipocrisia buonista e solidarista, gli sdilinquimenti salottieri per il multietnico e il multiculturale che precludono, agitando lo spauracchio del razzismo, ogni iniziativa. La Germania di Angela Merkel e l’Inghilterra di David Cameron hanno, quasi all’unisono, annunciato l’abbandono delle aspirazioni alle società multiculturali dimostrando che il multiculturalismo si risolve in un danno, grave, per la società essendo deleterio sia per la comunità ospite sia per quella ospitante. La Merkel e Cameron, non certo eredi di Goebbels o di Oswald Mosley, hanno dovuto ammettere ciò che era un’evidenza lampante, e cioè che il multiculturalismo rappresenta il più serio ostacolo all’integrazione. Eppure, affrontando il problema e, anzi, l’emergenza rom, da noi si seguita a insistere sulle bellurie del contrasto culturale. «È nella loro cultura», si dice degli zingari, e dobbiamo non solo rispettarla, ma anche apprezzarla e amarla. È nella loro cultura l’accampamento e dunque la baraccopoli; è nella loro cultura lo scansare il lavoro continuativo; è nella loro cultura la mendicità (aggiungendo, come non bastasse, che essa rappresenta il retaggio della antica e virtuosa cultura della condivisione dei beni, chiedi e ti sarà dato); è nella loro cultura, che non contempla il concetto - ovviamente culturale - della proprietà privata, l’appropriazione indebita; è nella loro cultura di cittadini del mondo, liberi come il Mistral, non adattarsi a leggi, regole e consuetudini che non siano le loro.  È evidente che con questi presupposti non dico risolvere, ma dare un ordine alla migrazione e al conseguente soggiorno continuativo dei rom diventa difficile, molto difficile. Perché lo smantellamento dei campi abusivi diventa un oltraggio anticulturale e c’è subito chi ricorre al Tar. E così la richiesta di affidamento di bambini cenciosi, sballottati da madri questuanti allo scopo di impietosire il passante. O la semplice pratica del censimento, subito denunciata (al Tar) come violenta intromissione nella privatezza di gente che al solito, libera come il vento, non conosce il concetto culturale dell’anagrafe. Ruspe. Di questo si ha bisogno per far fronte all’emergenza. Ruspe e ferme richieste al governo romeno di collaborare nei rimpatri perché non ci son santi: non abbiamo - e non avevano i governi Prodi o D’Alema o Amato o Ciampi - risorse e strutture per dare accoglienza alle decine di migliaia di zingari che sciamano in una Italia che grazie alle sue pulsioni e isterie multiculturaliste è evidentemente ritenuta - sennò starebbero a casa loro - Paese della cuccagna.

 L'articolo qui sopra è stato segnalato dall'Ufficio nazionale antidiscriminazioni (Unar) all'Ordine dei giornalisti della Lombardia per violazione della Carta di Roma.

Invece l'articolo qui in basso serve per vedere il "clima" in cui è maturata la dichiarazione dell'emergenza nomadi, che verrà proclamata una settimana più tardi. 

La missione del prefetto
'Numero chiuso per i rom'

(cronaca locale di un quotidiano nazionale, 14 maggio 2008)

Dovrà gestire richieste, dinieghi, proteste, con la delicata responsabilità di normalizzare una situazione che ogni giorno dà la stura a polemiche politiche e tensioni pratiche. Un prefetto, quello di Milano Gian Valerio Lombardi, diventa per la prima volta commissario straordinario all' emergenza rom. Così come previsto da almeno un anno, così come annunciato in passato dal sindaco Letizia Moratti e dall' allora ministro dell' Interno Amato. è il suo successore Roberto Maroni, dopo un incontro al Viminale con il sindaco di Milano, a dare ieri l' annuncio: «Con Milano è stato stipulato un patto per la "Città sicura" che prevede al secondo punto il conferimento di poteri straordinari ad un commissario per i campi nomadi: entro un paio di giorni firmerò il decreto per l' emergenza rom dando i poteri al prefetto». Una firma di cui si dice «davvero lieta» il sindaco Moratti: «è la prima applicazione concreta del Patto per la sicurezza». Bisognerà aspettare quindi domani, forse il fine settimana, per capire cosa esattamente voglia dire questa nomina, anche se i compiti erano stati delineati ai tempi del Patto per Milano sicura, quasi un anno fa e in un incontro in corso Monforte del settembre 2006. I poteri speciali di Lombardi saranno coordinare ed equilibrare la presenza dei campi regolari in città e nella Provincia, ma con la concreta possibilità che il suo raggio d' azione si estenda alla Lombardia, anche se qui bisognerà capire in che modo verranno coinvolti gli altri prefetti della regione. Quel verbo, "equilibrare", apre più di uno scenario: perché se è vero che il decreto non potrà fissare un tetto massimo di presenze, di fatto il prefetto e gli enti locali dovranno stabilire un "numero chiuso" oltre il quale i campi non potranno accogliere. Altro compito, sentiti sindaci e Province, sarà decidere dove aprire nuovi insediamenti (un problema reale, tra Comuni che non li vogliono e obbligo per chi li accoglie di avere l' assenso dei sindaci vicini) e di sgomberare quelli abusivi. Tema collegato a quest' ultimo punto - ma che verrà chiarito solo dal decreto legge sul pacchetto sicurezza - quello dei rimpatri in Romania degli immigrati senza reddito né lavoro. Anche su questo sarà il prefetto-commissario a decidere tempi e modi. Il neoministro Maroni, ieri, ha così anche servito un assist alle altre richieste-proposte del sindaco Moratti. Che sono diverse: espulsione per i clandestini, rimpatrio per gli stranieri comunitari privi di reddito, più controllo dei campi nomadi da parte delle forze dell' ordine. E ancora: certezza della pena senza sconti per i recidivi, inasprimento delle pene per violenze sessuali su donne e bambini e truffe agli anziani, lotta più serrata allo spaccio di droga. Insiste il vicesindaco Riccardo De Corato: «In tema di sicurezza, nel giro di pochi giorni, il nuovo esecutivo di centrodestra si appresta a realizzare quello che il governo Prodi non è riuscito a concludere in quasi due anni». Riequilibra i meriti Pierfrancesco Majorino, consigliere comunale Pd: «Il ministro Maroni - dice - ha annunciato che applicherà alcune norme già presenti nel pacchetto sicurezza del governo Prodi», e ricorda: «Le misure repressive da sole non bastano, bisogna insistere sul terreno dei patti di legalità».

 

Guerra sul campo rom a La Barbuta Ciampino contro Roma: non li vogliamo

Il sindaco Lupi: «Soldi spesi inutilmente; Alemanno la smetta di far pressioni». Da luglio 2011 messi in opera 116 container

(edizione locale online di una testata nazionale,12 aprile 2012)

ROMA - Bocciato dal Consiglio di Stato nella sua stroncatura (sentenza n. 6050) al Piano Nomadi di Roma. Contestato dagli abitanti della zona. Non amato dagli stessi nomadi (c'è un ricorso dell'associazione per la difesa dei diritti dei rom, «European Roma Rights Centre Foundation», e di due abitanti del campo Casilino 900). Il nuovo mega campo rom di La Barbuta, a cavallo tra il X Municipio della Capitale e il territorio di Ciampino, divide e non decolla. E il sindaco del comune ai piedi dei Castelli attacca Alemanno: «Le sue nuove pressioni sull'apertura del Campo Nomadi La Barbuta - dice Simone Lupi – sono illecite e indebite. Continueremo ad opporci alla creazione dello pseudo villaggio attrezzato». PRIMO DI SETTE MEGA-CAMPI - La vicenda riaccende la polemica sul primo dei 5 mega campi nomadi (inizialmente erano solo tre) che il Comune di Roma aveva progettato di realizzare per porre fine al problema dei micro campi abusivi, cui erano legati numerosi casi di cronaca e drammatici incidenti come la morte di quattro bambini romeni in un accampamento sull'Appianel febbraio 2011. In forse, dunque, l’imminente raddoppio del campo nomadi La Barbuta, che si estende tra X Municipio (il cui presidente Sandro Medici aveva acconsentito ai lavori) e territorio del Comune di Ciampino, che da sempre si oppone al progetto.... 

Qualche buon esempio da testate straniere: 

Spain's Tolerance of Gypsies: A Model for Europe?

(Time,16 settembre 2010)

Antonio Moreno lives on what is reputedly Madrid's most dangerous street, where dealers openly offer any type of drug around the clock. He owns a four-bedroom house with a pool; he works out of his own photo and video studio — and he's a Gypsy, one of the 40,000 inhabitants of an illegal settlement on the outskirts of the Spanish capital. If they lived in just about any other European country, Moreno and his neighbors would be the source of tension and controversy: on Tuesday, the European Union called France's continued deportation of its Gypsies a "disgrace" and threatened disciplinary action against the country. Suddenly, all across Europe, a community that is used to living on the fringes is now in the spotlight — and in some cases, suffering heightened prejudice as a result. But Moreno isn't worried. Because when it comes to dealing with Gypsies — also known as Roma — Spain is different. "[The deportations] will never happen here," says Moreno. "We are integrated. I'm first Spanish, then Gypsy, and I'm proud to be both." While many European countries see their Roma communities as problems to be tackled, Spain has embraced its Gypsies, giving them rights, celebrating their history and making them feel at home. "Of course there is racism, but it's better here than anywhere else I've seen," Moreno says, referring to his trips to Italy, France, Germany and the Czech Republic. "Spain has helped Gypsies a lot." (See pictures of France cracking down on migrants.) Indeed, 35 years after the death of dictator Francisco Franco, the lives of the Roma have improved dramatically. "We weren't even human before. We were animals," says Moreno of the time when authorities prevented Gypsies from working, studying or even gathering in groups bigger than four. Today the European Commission, E.U. member countries and the Roma themselves all agree that Spain has become the model for integrating Gypsies, with some citing it as a case of good practices. Now the governments of Bulgaria, Slovakia, Hungary, the Czech Republic and even Romania — where many Roma come from — are looking to Spain for ideas to apply themselves. Of the 10-12 million Roma living in Europe, Spain has the second biggest community, estimated at 970,000, or about 2% of the total population. And the country spends almost €36 million annually bringing them into the fold. In Spain, only 5% of gypsies live in makeshift camps, and about half of Roma are homeowners. Just about all Gypsies in Spain have access to health care, and while no recent figures exist, at least 75% are believed to have some sort of steady income. Spain is also investing in an area that many experts believe is the key to keeping Roma out of poverty: education. Almost all Gypsy children start elementary school (although only about 30% compete it), and more than 85% of the country's Gypsies are literate. "Spain's use of European social funds is a good example for other member states," said E.U. Commission Vice President and Justice Commissioner Viviane Reding in an e-mail to TIME. "The Spanish government has shown that it is working on integrating the Roma population, and we've seen some positive results." Spain's two-pronged integration approach has been instrumental in those results, pairing access to mainstream social services with targeted inclusion programs. For example, Roma can have access to public housing and financial aid on the condition that they send their children to schools and health care facilities. Then there's the Gypsy Secretariat Foundation Acceder program, which experts say is one of the best integration initiatives in Europe. The program takes young, unemployed Gypsies and teaches them technical skills and helps them earn the equivalent of a high school degree. At the end, they are placed in jobs through a series of agreements with private companies. The program has been such a success that Romania's National Agency for Roma is trying to implement its own version.

But can the rest of Europe replicate Spain's success? Much of the country's good work in integrating Roma is thanks to its specific history with the community. In order to guarantee stability in a country split along nationalist lines, the constitution written after Franco's death was inclusive of all ethnic groups and cultures, thus shielding Roma from institutional exclusion. And because Gypsies were the single most impoverished population in the 1980s, they attracted the most development efforts. Despite centuries of victimization, Gypsies have melded into Spanish mainstream culture — flamenco dancing and traditional Spanish dress are both borrowed from the community. "Spanish Gypsies also resisted integration efforts less than in other countries because they have been sedentary for centuries," says José Manuel Fresno, an adviser to the E.U. commission on Roma issues and head of the Spanish government's anti-racism commission.

Even if other E.U. countries followed in Spain's footsteps and learned to love their Roma, that would solve only half the problem. The best way to stop countries such as France and Italy from deporting Gypsies is to ensure that Gypsies are happy enough at home that they don't need to migrate to France or Italy in the first place. "Spain has done much more than other member states [to integrate Roma], but now we have to make sure that success transfers to new member states," says Ivan Ivanov, executive director of the Brussels-based European Roma Information Office. "Then Roma migrations might stop." Deportations are futile, he says: "The Gypsies will just come back in a few months. Policies need to be adopted now, or in five years the very same countries will complain of migrations from other countries." Antonio Moreno would agree. A Spanish Gypsy as far back as he can trace his roots, he can't imagine his family living anywhere else. And while he appreciates that his children get financial aid and that the state pays for his grandchildren to attend school, he believes that Gypsies have a responsibility to integrate. "Most Gypsies are good people and want to coexist with others," Moreno says. "There are some who exclude themselves, but not us. We're staying in Spain because this is our home."

 

In Spain, Gypsies Find Easier Path to Integration

(New York Times, 5 dicembre 2010)

Under Franco’s dictatorship, Gypsies lived in fear of the military police, or Guardia Civil, which often brutally broke up their encampments and forced them to keep moving around the country. Enlarge This Image Lourdes Segade for The New York Times In Spain, 92 percent of Gypsies live in standard apartments or houses, a study said. Above, a housing complex in Seville. But Spain’s democratic Constitution embraced the country’s diversity and for the first time gave Gypsies rights as citizens. By the 1980s, the Guardia Civil was being deployed near schools to protect Gypsy children from Spanish parents who did not want them in the same classrooms as their own children. Since then, the government, whether leaning left or right, has consistently financed integration programs for Spain’s estimated 700,000 Gypsies. Spain has spent more on social programs for Gypsies than any other country in the European Union. Between 2007 and 2013, it will spend more than $130 million on such programs — about $60 million from European Union funds. “Our efforts have had some very positive results,” said José Manuel Fresno, a European Union adviser on Roma issues who is also chairman of the Spanish government’s Race and Ethnic Equality Council. At first, some programs were wrongheaded, officials said. Gypsies were moved directly from shanties into special public housing just for them and their children went to transitional schools. The results can still be seen in some parts of Seville, where housing blocks for Gypsies became broken down tenements. The transitional schools failed, too, as Gypsies shunned them and educators decided that Gypsy children should not be isolated. Now, government policy is to scatter Gypsies in public housing and send their children to neighborhood schools. Mediators have been set up in the schools to help if problems arise. And social services help with the transition. But whether the Spanish models can be translated elsewhere is unclear. Experts say that some countries — particularly Romania and Bulgaria, which have large Roma populations — do not have the capacity to administrate them. “The fact is that Gypsies in some countries have lower living standards today than 15 years ago,” Mr. Fresno said. In Spain, Acceder has helped more than 37,000 Gypsies get jobs since 2001. On a recent day, Ms. Jiménez, who was wearing blue eye shadow and had glittery nails, was waiting for customers in a mall on the outskirts of Madrid. She said she turned to Acceder whenever she needed a job, taking advantage of the wide range of training it offered. “It’s like a bridge for me,” she said. “Because sometimes if you are a Gypsy, it is not so easy.”

 

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